Con P. Tiziano siamo amici da lunga data, ma nella nostra vita da Vagabondi del Vangelo, capita di non incontrarci per diversi anni.
In questi giorni P. Tiziano è sceso dal Regno di Carlo III, dove lavora da sette anni e dove si stanno svolgendo le diverse tappe dell’ultimo viaggio della più anziana Regina mai avuta oltre Manica. Non incontrandoci per anni, spesso ignoriamo come i nostri amici confratelli abbiano vissuto durante i tempi trascorsi lontano in missione. Alcune battute di Tiziano, captate al volo, mi hanno messo la “pulce nell’orecchio” e come Fratello, senza le necessarie “unzioni ecclesiastiche”, gli ho chiesto di dedicarmi un’oretta del suo tempo, per “confessarlo”.
La confessione è durata tre ore e chissà quante ore ce ne vorrebbero ancora per terminare il discorso. Mi ero sbagliato: credevo mi avesse messo “la pulce”, invece non era una pulce ma un “elefante”, qualcosa di più del cammello da far passare per la cruna del ago. Resta… il bello della storia (cioè il “piatto forte”) per cui chiedo a Tiziano di prendersi tempo per scriverlo di persona … c’è da farne un libro. Altri amici gli hanno propostola stessa richiesta.
E’ sempre un grande dono scoprire l’enorme ricchezza che si portano dietro i nostri confratelli, ricchezza che non ha niente a che fare con il fondo monetario internazionale (in minuscolo per sminuire la sua prepotente importanza), ma con una Banca ben più sicura. Ma partiamo dalle origini….

P. Tiziano parlami un po’ degli inizi della tua vocazione missionaria sacerdotale di stampo “comboniano”….
Sono nato l’undici gennaio del “45 ad Ariano Polesine (Ro) un paese del delta del Po. Il papà Amedeo era contadino e lavorava alle dipendenze di un padrone mentre la mamma Maria aveva il suo da fare con noi e con la casa perché in famiglia eravamo quattro fratelli e quattro sorelle di cui io quello con il numero otto sulla maglietta. Il primo dei fratelli era deceduto subito dopo la nascita. Dopo le elementari non sono riuscito ad avere il diploma di terza media,benché il mio maestro, viste le mie capacità, avesse insistito perché continuassi gli studi, ma mio papà non aveva i mezzi per farmi studiare.
Già da ragazzino avrei voluto entrare in seminario. I miei genitori erano contrari, in particolare il papà anche per le sue tendenze politiche. Mia mamma ci accompagnava in chiesa, e ci faceva partecipare e vivere i sacramenti ma senza bigottismo e lasciandoci tutti liberi nel fare il nostro cammino di fede. Sentivo qualche cosa dentro e sono cresciuto con il mio desiderio di farmi sacerdote. Ne parlai con il mio parroco che mi orientò verso i missionari comboniani perché aveva conosciuto Padre Antonio Todesco, che era di Rovigo e che era stato Padre Generale dell’Istituto. Un giorno il parroco mi disse: “Devo andare a Crema dai comboniani per accompagnare il giovane Gaetano Beltrami che entra in seminario. Vuoi venire con me, così vedi?…”. Ci sono andato e ho incontrato i primi padri comboniani, e rimasi colpito dalla loro accoglienza e gentilezza. Venuti a conoscenzadella mia situazione familiare mi hanno incoraggiato. A casa sapevano dove ero andato con il parroco e del mio desiderio di entrare dai comboniani. Alla sera, appena messo il piede in casa…“a fulgure e tempestate libera nos Domine”, me ne hanno dette tante, proprio tante e di tutti i colori. Ne parlai al parroco, che quando venne a benedire le case, ne approfittò per parlarne con mio padre che fece obbiezioni a non finire, ma nel “conflitto verbale” vinse il parroco e mio papà cedette con un: “ Va bene che vada, sappia però che io non ho le possibilità di sostenerlo negli studi…” E il Parroco di rimando: “Questo non è un problema, ci penseranno altri…”. Quell’ anno mio fratello, maggiore di cinque anni, doveva partire per il servizio militare. Mio papà era preoccupato: Anziano, con le figlie tutte sposate, un figlio che andava militare e uno si imboscava in seminario. Si domandava come avrebbe fatto a lavorare i dieci ettari dei campi da solo. Ero tra “l’incudine e il martello” e dovevo fare una scelta, che in ogni caso sarebbe stata dolorosa. Il mio parroco mi disse: “ Se non ci vai adesso…non ci vai più”. Non so chi da Lassù mi diede un sonoro calcio di “incoraggiamento” e sono partito deciso. Ecco il calcio: Tutti i coscritti di mio fratello partirono sotto le armi, mentre mio fratello rimase a casa in attesa e a novembre arrivò il foglio di “congedo illimitato”, con la motivazione: “Abbiamo troppe reclute e non c’è posto per te!” Un miracolo? Non so, ma un Segno certamente si.

Come è andata entrando a Crema tra le “vocazioni adulte”?
Nel 1961, a sedici anni sono entrato dai comboniani a Crema, con le cosiddette “vocazioni adulte”. In due anni feci le medie, continuando poi con il ginnasio e il liceo classico. Rimasi a Crema sette anni e fui il primo ad poter concludere questa prima parte degli studi con la Maturità Classica. Tra i superiori aleggiava la mentalità che chi concludeva gli studi con la maturità sarebbe poi uscito. Un titolo di studio da’ più libertà di scelta, ma giustamente da’ anche una “maturità” maggiore nella risposta vocazionale. Il nostro superiore P. Giovanni Riva, ci voleva bene, ma era esigente con noi. Andando avanti nel cammino formativo, per i famosi “contropiedi” di Dio, ho sempre dovuto fare il contrario di ciò che mi aspettavo. Mi proposero di andare a fare il noviziato in Inghilterra a Sunningdale, ma p. Riva si oppose perché avevo ancora in corso gli esami di maturità. Con la maturità classica poi, mi aspettavo di andare a Firenze per il noviziato e iniziare la teologia con professori di spessore, e invece mi spediscono a Gozzano (NO).
Nel primo anno di noviziato eravamo dieci novizi, tre provenienti dalle “vocazioni adulte di Crema” e sette dal turbolento liceo di Carraia (Lu) (Tutti e sette poi ritornarono alle loro famiglie). Era il “68 che con i movimenti studenteschi avevano messo in crisi anche le istituzioni di formazione ecclesiastiche. Il nostro povero Padre Maestro si sentiva in croce e decise di lasciare il difficile compito. Come nuovo Padre maestro, venne P. Giovanni Ferracin, sant’uomo pieno di fede e pazienza da vendere. Era appena rientrato da Khartoum. Lo accompagnò Padre Giuseppe Gusmini, superiore Provinciale, con la decisione che i novizi fossero spostati subito a Venegono, mentre noi tre venuti da Crema restammo “a fare il fieno” nei prati per tutta l’estate perché la nostra destinazione era il Noviziato oltre Manica di Sunningdale. Quando avevo chiesto di andare a fare il noviziato in Inghilterra mi fu detto di no, ora che non lo chiedevo mi ci spedivano con un altro contropiede.

Come è andato lo “sbarco”in Inghilterra?
Passaporto nuovo “di questura”, clergyman uguale da gemelli, valigia di cartone “tipo emigranti italiani anni trenta”, ci hanno imbarcati su un volo charter, e siamo stati spediti per posta ordinaria nel Regno Unito senza sapere una sola parola di inglese. I confratelli di lassù erano stati avvertiti del nostro arrivo, ma non era stato precisato in quale aeroporto. Siamo sbarcati a Gatwick e di confratelli neanche l’ombra dell’ombra. Il Padre maestro, a conoscenza delle vicissitudini dei noviziati d’Italia, perché fossimo “ben accolti” dai novizi, ha detto loro: “Arrivano tre rivoluzionari, nessuno parli con loro o chieda spiegazioni…” Non potevamo aspettarci una miglior accoglienza. Nonostante questo ci siamo sentiti subito a nostro agio, e i quattordici mesi trascorsi nel noviziato di Sunningdale sono stati i più belli del periodo della mia formazione.
Prima dei voti il Provinciale dell’Inghilterra mi chiese se dopo la Professione Religiosa ero disposto a fare la Teologia in Inghilterra. Era quello che desideravo e ne ero felicissimo, perché sarebbe stata un’ottima preparazione. Dopo un mese il Padre Maestro, tanto per rompere le uova nel paniere, mi comunica che dovevo rientrare in Italia per la Teologia. Cerco di dire: “Ma il Provinciale…” lui taglia corto e ribadisce che devo partire. Nel “70 veniva aperto lo “scolasticato internazionale” di Roma… dovevano trovare i formatori e gli scolastici “collaudatori”. Ero convinto di restare in Inghilterra…quanta fatica e quanti pianti per accettare questa nuova decisione. Mi domandavo se era un “contropiede” di Dio o dei superiori… Rientrai in Italia assieme a Pizzi e ci fermammo un mese nel nuovo noviziato di Carraia per la nostra Professione religiosa, che facemmo nelle mani di P. Ernesto Malugani, Provinciale d’Italia. Mandai i bagagli a Roma. Toh che, pochi giorni dopo, arriva una chiamata di P. Malugani: “Avrei bisogno di te per il seminario di Brescia. Seguirai i seminaristi e farai lì la teologia”. Mi catapulto da P. Ferracin, il Padre Maestro e lo informo. Mi dice : “E allora ?”. E io: “A Brescia non ci voglio andare”. E lui: “Diglielo al provinciale, no…”. E io: “Ho appena fatto il Voto di Obbedienza, come faccio???…” Bel contropiede, con tiro a rete… anzi …a dir il vero la pallonata mi è arrivata dritta nello stomaco. Andai a Verona per incontrare il Provinciale, che mi disse: “Ho bisogno di uno che vada a Brescia per seguire i seminaristi…non è difficile… vedrai ti piacerà…”. Aprii la bocca : “ Padre posso dire la mia???…preferirei andare a Roma”. Risposta: “ Non ho bisogno della tua opinione. Tu vai a Brescia e basta!” P. Malugani era buono e comprensivo e addolcì la botta con incoraggiamenti e promesse. Andai a Roma a recuperare i bagagli, sostenendo gli sguardi pietosi e commiserevoli dei miei compagni.

Come è iniziata la tua carriera come formatore dei seminaristi a Brescia?
Arrivai a Brescia il sabato e ho trovato subito buona accoglienza. La domenica mattina, con i Padri Cailotto, Passerini, Franceschini, a bordo di una macchina piuttosto “male in arnese” siamo partiti alla volta di Venegono dove partecipammo alla storica e vivace prima “Assemblea dei formatori” della Provincia italiana:una realtà post-sessantottina che cambiò il sistema e lo stile di formazione nei nostri seminari. Fui ordinato il 6 ottobre del “73, per aver la possibilità di un anno di pratica pastorale prima di partire per la missione. L’ultimo anno di teologia fu intenso: dovevo terminare gli studi, seguire i ragazzi seminaristi e andare a fare ministero e apostolato nelle parrocchie di teologia. Tra l’altro erano gli anni della crisi del petrolio: bisognava utilizzare le macchine a targhe alterne e non si poteva viaggiare la domenica, fino alla mezzanotte. Dovevo rientrare alle ore piccole della notte per poi andare a scuola il lunedì…roba da addormentarsi sui banchi.Come programmato,pensavo di partire per la terra di Missione nel 1974 e invece mi bloccarono li per altri quattro anni fino al “78. Finalmente fui destinato al Malawi dove ci volevano mesi per ottenere il permesso di entrata. Ne approfittai per andare in Inghilterra per “rinfrescare” il mio inglese nelle acque del Tamigi, e fare altri corsi di preparazione alla missione. Prima di partire feci brevi vacanze a casa così potei celebrare i l quarantacinquesimo anniversario di matrimonio dei miei genitori. Ero lassù da poche settimane che arriva l’ordine di partire subito per il Malawi perché, chissà come, mi avevano già concesso il permesso di ingresso. Se fosse scaduto il permesso sarebbe stato difficilissimo ottenerne un altro. Feci di nuovo le valige e rientrai in Italia la vigilia del giorno di Natale, così potei trascorrerlo in famiglia prima della partenza per l’Africa. Il 10 febbraio del “79 partii per l’Africa.

Finalmente in Africa!
L’11 febbraio 1979 arrivai finalmente in Malawi (Africa) e un mondo totalmente nuovo si apriva davanti a me. Avevo viaggiato insieme a Fratel Andrea Cagna e per entrambi era la prima volta che mettevamo piede in suolo africano.
Alla sera del nostro arrivo celebrammo la messa della memoria della Madonna di Lourdes nella chiesa parrocchiale della missione che ci ospitava. A parte il caldo umido che mi faceva sudare continuamente, l’illuminazione era ottenuta da un motore che azionava un generatore di elettricità per il tempo che era acceso. Altrimenti bisognava arrangiarsi con torce, candele, lampade a petrolio. Gli insetti, incluse le zanzare della malaria, erano attratti dalla luce delle lampadine e mi giravano attorno famelici.
Ma ciò che mi colpì di più furono i due vasi di fiori sull’altare e quelle che dovevano essere le due candele accese per la celebrazione della messa. I due vasi erano stati ottenuti barattoli vuoti con tanto di scritta “olio-diesel” bene in vista e con dentro qualche fiore di carta di giornale. Le due candele erano due lumi a petrolio con il classico stoppino che oltre ad illuminare producevano un filo consistente di fumo nero e puzzolente.
Ad allietare la celebrazione c’erano i pipistrelli che svolazzavano a caccia di insetti e certe volte si avvicinavano un po’.
Il giorno dopo il mio arrivo in Malawi era domenica e partecipai alla celebrazione della messa domenicale nella chiesa parrocchiale strapiena di gente che cantava e pregava ovviamente nella lingua locale che io non capivo. Verso la fine della messa il Padre che aveva celebrato mi ha presentato alla gente e tutti hanno voluto stringermi la mano con grande entusiasmo e gioia. Mi sentii a casa!!!
Dopo la messa andai con il Padre a visitare alcune capanne vicine alla missione. Rimasi senza parole a vedere la povertà, per non dire la miseria, di quella gente, contenta nonostante tutto. Non mi fu facile metabolizzare ciò che vidi perché non mi aspettavo di vedere tali condizioni di vita.
Dopo alcuni giorni, l’allora Delegato dei comboniani mi accompagnò a incontrare il primo arcivescovo malawiano di Blantyre, l’arcivescovo James Chiona, che fu molto contento di accogliermi a lavorare nella sua diocesi.
Il giorno dopo, P. Giuseppe Gusmini mi accompagnò alla nostra prima missione in Malawi, la missione di Phalombe nel distretto di Mulanje. Qui avrei trascorso qualche mese per imparare la lingua locale del Malawi insieme ad altri tre comboniani arrivati prima di me.
In pochissimi giorni dal mio arrivo in Malawi mi trovai catapultato in un luogo totalmente nuovo per me, in mezzo a gente che parlava una lingua a me sconosciuta, in un mondo tutto nuovo e diverso da quello da cui provenivo. Dovevo rinascere una seconda volta!
Luigi Casagrande, che era allora parroco della missione, mi spiegò, in due o tre incontri, la struttura della lingua che dovevo imparare e poi mi disse: “ ora vai a imparare la lingua dalla gente”.
Quelli furono giorni, settimane, mesi molto difficili. Oltre a memorizzare la nuova lingua, dovevo adattarmi al clima tropicale caldo umido, alle piogge torrenziali e conseguente strade fangose, aprire bene gli occhi a non pestare qualche serpente, stare attento a proteggermi dalle zanzare e ad abituarmi all’odore e presenza rumorosa dei pipistrelli sopra il soffitto della mia stanza.
Parallelamente allo studio e pratica della lingua locale, incominciai ad avvicinarmi anche alla cultura del Malawi e alla metodologia dell’evangelizzazione, aiutato moltissimo dai miei confratelli in comunità. Avevo così iniziato un processo di acculturazione che sarebbe continuato per tutti gli anni che ho speso in Malawi: Non si finisce mai di imparare!
Soprattutto ho imparato che il vero linguaggio compreso dalla gente ovunque è il linguaggio della fraternità e della solidarietà e che ogni missionario altro non è che un testimone di una PRESENZA misteriosa ma reale di DIO AMORE.
La conoscenza della lingua locale mi fu di grande aiuto nel mio lavoro di evangelizzazione. Ho trascorso in Malawi 27 anni in due turni: li considero il dono più bello che ho ricevuto da Dio, il dono della MISSIONE.

A cura di fr Duilio Plazzotta