Padre Vincenzo Percassi

 

Il libro della Sapienza parla di Dio come colui che giudica. Non semplicemente nel senso che applica la legge ma più profondamente nel senso di colui che agisce continuamente nella realtà per mettervi ordine. Per questo Dio ascolta ogni supplica, non disprezza il balbettio del bambino o il pianto della Vedova. Dio è uno che risponde a tutti ma è irresistibilmente attratto dalla preghiera dell’umile che penetra le nubi, che penetra cioè il mistero di Dio e colma qualsiasi separazione tra noi e Dio. La missione potremmo dire che fa in orizzontale quello che la preghiera fa in verticale. Essa porta Dio e la sua misericordia ad ogni creatura, soprattutto ai più piccoli ed abbandonati, cerca di far incontrare la giustizia di Dio con quella degli uomini e educa tutti, nello stile di dio, a dare attenzione a chi non riceve attenzione. Sia la preghiera che la missione, dunque, hanno come fondamento l’umiltà.  La parabola del Vangelo di oggi, dunque,ci presenta due persone che salgono al tempio, cercando appunto la relazione con Dio. La situazione è volutamente paradossale perché deve mettere in luce un contrasto che non è semplicemente esteriore – quello tra il giusto ed il peccatore – ma appunto interiore, e quindi non cosi ovvio ed evidente: quello tra la preghiera dell’umile e la preghiera del superbo. Tale contrasto, inoltre, vuole chiarire che tra questi due atteggiamenti opposti non ve n’è un terzo. Se non impariamo ad incontrare Dio e gli altri nell’umiltà, inevitabilmente cadiamo nell’atteggiamento opposto di colui che essendo sicuro di sé stesso finisce per dimenticare Dio e disprezzare gli altri. In effetti, propriocome il peccato può rendere ciechi di fronte alla virtù, così la virtù, introducendo nel cuore un sottile compiacimento con sé stessi,può rendere ciechi di fronte al proprio peccato. Il fariseo della parabola, recandosi al tempio per la preghiera, non si apre veramente a Dio per appoggiarsi a lui, ma ritorna su sé stesso e attribuendo le cose di cui crede di essere capace alla propria virtù, disprezza l’umanità in generale perché fatta di avari e adulteri e giudica in particolare il pubblicano che è accanto a lui. Purtroppo, questo scivolamento subdolo dalla presunzione al disprezzo e finalmente al giudizio è più facile e frequente di quanto si pensi. La parabola ci ricorda che se nella nostra vita vi fosse anche una solo un’unica persona che reputiamo peggiore di noi – a torto o a ragione come nel caso del pubblicano – probabilmente siamo rimasti vittime dello stesso accecamento del fariseo. Un sano atteggiamento spirituale è piuttosto quello di “temere che colui che stiamo disprezzando posso essere in realtà migliori di noi” (G. Bossis). Diversa è la situazione del pubblicano. È vero che egli vive nell’ingiustizia e nel sopruso. Tuttavia, umiliandosi, riceve la grazia di tornare a casa sua giustificato. Egli sperimenta cioè un cambiamento nel suo cuore che gli permette di affrontare la vita in maniera nuova, sentendosi sostenuto è orientato dallo Spirito Santo nel suo quotidiano e non solo al tempio. In effetti più ci svuotiamo di noi stessi davanti a Dio più diventiamo accoglienti ai suoi doni, in particolare la sua giustificazione, l’esperienza cioè Che Dio guardando il nostro vuoto non lo disprezza mai ma lo colma con il dono dello Spirito Santo e quindi con la pienezza della sua giustificazione. In questo senso la stessa vita del pubblicano diventa missione – anche rimanendo a casa sua e facendo le sue cose – perché con la sua stessa vita Egli diventa portatore del Vangelo che può cambiare ogni “ingiustizia” se mai lo accogliamo con sincerità. La celebrazione della giornata missionaria mondiale vorrebbe rinnovare in ogni credente proprio questa consapevolezza: ognuno di noi, ogni vita è una missione e questa missione si riassume nel dare testimonianza di come l’amore e la misericordia di Dio cambiano il nostro cuore e ci portano a vivere le relazioni in maniera sempre più gratuita a partire dalla nostra casa per poi arrivare al mondo intero. Ripensando ai tanti che lo hanno deluso ed abbandonato San Paolo dira con molta pace: non se ne tenga conto.  Anzi ripensando alla sua vita egli riconosce che è stato liberato dalla bocca del Leone. Riconosce cioè che la salvezza della sua vita e stata un’opera che superava le sue forze. Chi è stato salvato dalla bocca del leone può essere lamentoso, giudicate o presuntuoso, ma semplicemente grato. Non è che Paolo non abbia lottato. Egli dice di aver combattuto la buona battaglia. Ma non considera la sua battaglia una vittoria. Egli dice di aver corso fino in fondo la gara. Ma non considera la sua corsa una vittoria. Sarà invece il giusto giudice a consegnargli la corona, cioè la vittoria. Non solo a me-conclude San Paolo- ma tutti coloro il cui cuore non è colmo di pretese ma è colmo di attese.