Padre Luigi Consonni
Commento alle letture: XXVI DOMENICA DEL T.O. -C-
(25/09/2022)
Prima lettura (Am 6,1a-4-7)
Guai agli spensierati di Sion
e a quelli che si considerano sicuri
sulla montagna di Samaria!
Distesi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani
mangiano gli agnelli del gregge
e i vitelli cresciuti nella stalla.
Canterellano al suono dell’arpa,
come Davide improvvisano su strumenti musicali;
bevono il vino in larghe coppe
e si ungono con gli unguenti più raffinati,
ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano.
Perciò ora andranno in esilio in testa ai deportati
e cesserà l’orgia dei dissoluti.
“Guai agli spensierati di Sion”. Il profeta si riferisce ai ricchi, alle loro condizioni di vita e alla spensieratezza di cui godono, in contrasto con la povera gente che non ha di che mangiare e vive nella più grande precarietà, insicurezza e sofferenza. Non solo, ma in quelle condizioni, i ricchi “si considerano sicuri sulla montagna di Samaria!”
Il profeta è profondamente sconcertato e annuncia l’imminente castigo del Signore ai ricchi, la cui condizione di vita scandalosa è in radicale contrasto con le esigenze dell’Alleanza e l’avvento del regno di Dio. L’indignazione del Signore è che loro, “della rovina di Giacobbe – il popolo d’Israele – non si preoccupano”, ma vivono spensierati, sicuri, anche se la loro vita offende la dignità dei poveri privandoli del necessario per vivere degnamente.
Il riferimento a Sion e alla montagna di Samaria fa pensare al luogo del culto che, celebrato con devozione e correttamente, declina la sicurezza di stare con Dio e averlo dalla propria parte. Fra l’altro la ricchezza è ritenuta benedizione e protezione divina. Ebbene, il profeta ammonisce che il loro vivere nell’ingiustizia rende insignificante la celebrazione religiosa e illusorio l’incontro con Dio, perché il loro comportamento svuota il senso del culto e priva il coinvolgimento nella causa del diritto e della giustizia a favore di tutti.
Il lusso e la corruzione rendono il ricco insensibile alle condizioni di chi soffre la povertà e l’indigenza disumana. Non si preoccupano della sofferenza e meno ancora dell’infelicità dei poveri, degli esclusi e degli oppressi. Sono preoccupati solamente di sé stessi e pensano a godere la vita fra loro: “Distesi su letti d’avorio (…), mangiano gli agnelli del gregge (…) canterellano (…) bevono vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati”.
La ricchezza, accompagnata dall’avarizia, chiude il cuore, uccide la sensibilità umana, distrugge i sentimenti di solidarietà e cancella i rapporti di fraternità. Con altre parole, allontana e distoglie non solo dal rapporto umano ma anche dal rapporto con Dio.
I ricchi vivono in un mondo chiuso su sé stessi, schiavizzati dai propri beni, come lo è il dipendente dalla droga. Essi sono come in una gabbia d’oro ma, nonostante il fascino della ricchezza ed i vantaggi corrispondenti, è pur sempre la gabbia della solitudine, del vuoto e della povertà interiore, da colmare attraverso l’apparenza esterna che il lusso e il denaro sostiene.
Il profeta annuncia il castigo imminente di Dio: “Perciò ora andranno in esilio in testa ai deportati e cesserà l’orgia dei dissoluti”. La storia registra che ciò accadrà con l’occupazione del territorio da parte dell’Assiria e la conseguente deportazione. Il profeta vede nell’evento il compimento della profezia, l’irrompere di una grande rovina e lo sconcerto di tutti loro.
L‘evento è disgrazia che tocca le persone nelle loro stesse condizioni e con gli stessi atteggiamenti. Non si tratta di fatti storici analoghi, ma della condizione di “esilio” e disfacimento dovuto al vuoto interiore, alla condizione d’insipienza, superficialità e fragilità del rapporto fra essi. Vivono di apparenza, che costituisce l’esilio da sé stessi, dalla gioia duratura che si genera e rigenera nel profondo del cuore.
Mi diceva una persona, conoscitore dell’ambiente dei ricchi, che nei rapporti fra loro fingono di essere felici. Nell’“l’orgia dei dissoluti” non ha spessore né consistenza nella vita e, appena manca il denaro o alle prime difficoltà, mancano loro le condizioni per sostenere l’apparenza e il rapporto di amicizia viene meno. È quello che tutti sanno: quando c’è denaro sono tutti amici ma, nel momento del bisogno, sorgono mille scuse o motivi per girare le spalle. È l’esilio personale e l’isolamento sociale.
Il rispetto dell’Alleanza, e la conseguente pratica del diritto e della giustizia, sostiene un livello di vita sociale e personale per il quale il povero è nelle condizioni di donare o condividere qualcosa in fraternità e il ricco di rispondere, con cuore generoso e grato a Dio, al bisogno dell’umile, del povero. È sintonizzare con i termini dell’Alleanza nel sostenere rapporti sinceramente umani e fraterni, in attenzione alle condizioni di vita personali e sociali specifiche di ogni caso.
Tuttavia, la ricchezza continua a esercitare seduzione e fascino. Cosa fare per non cadere nella tentazione? È ciò che indica la seconda lettura.
Seconda lettura (1Tm 6,11-16)
Tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni.
Davanti a Dio, che dà vita a tutte le cose, e a Gesù Cristo, che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato, ti ordino di conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo,
che al tempo stabilito sarà a noi mostrata da Dio,
il beato e unico Sovrano,
il Re dei re e Signore dei signori,
il solo che possiede l’immortalità
e abita una luce inaccessibile:
nessuno fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo.
A lui onore e potenza per sempre. Amen.
Nei versetti precedenti Paolo espone a Timoteo vari aspetti di ciò che deturpa e devia l’azione pastorale del discepolo. Fra essi menziona l’avidità del denaro come radice di tutti i mali. Perciò raccomanda: “Tu, uomo di Dio, evita queste cose”. Egli parte dal presupposto che Timoteo abbia assimilato un buon grado di identificazione con l’evento Gesù Cristo e indica due comportamenti da assumere.
Il primo riguarda la cura del proprio mondo interiore, nel coltivare il necessario per rafforzarlo e consolidarlo in virtù dell’identità con Cristo: “tendi invece alla giustizia, alla pietà alla fede, alla carità, alla pazienza e alla mitezza”. Ognuna di queste indicazioni ha un contenuto importante e conseguenze molto rilevanti per sé stesso, per la qualità dei rapporti interpersonali e sociali: la causa del regno.
Quanta letteratura è stata, e sarà elaborata su ognuna di esse! Nel loro insieme le caratteristiche offrono un quadro articolato e organico del vissuto cristiano che, in una parola, si riassume in “amore”, o meglio, nella “carità”. La virtù della mitezza – un insieme di fermezza delle proprie convinzioni e docilità nell’esporle e sostenerle – catalizza tutte le altre nello svolgimento dell’azione pastorale, anche nelle consistenti difficoltà della circostanza.
Il secondo riguarda il fine dell’evangelizzazione: “Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato”. Le difficoltà personali e sociali, dentro e fuori della comunità, sono tali da richiedere il combattimento; il che significa non demordere, non lasciarsi andare ma, in virtù del coinvolgimento nell’amore per Gesù Cristo e la causa del regno, incontrare in esso la necessaria tenacia e perseveranza.
Paolo raccomanda a Timoteo attenzione e impegno nell’accogliere la vita eterna nel presente, in attenzione alla causa del vangelo e dell’avvento del regno. Con esso è sempre più profonda e cosciente la crescita nella comunione con Dio, nella fede in Gesù Cristo e, particolarmente, negli effetti dell’evento pasquale.
La vita eterna è dono della fede operosa che motiva e sostiene la buona battaglia. È l’esercizio dell’attività per la quale la testimonianza, accompagnata dall’argomentazione di vita, morte e risurrezione, è comparabile alla battaglia affrontata con lo stesso metodo di Gesù, con le caratteristiche e gli atteggiamenti di cui sopra.
Per incoraggiarlo ricorda a Timoteo quel che egli è, e quello che la gente si aspetta da lui come responsabile della comunità, davanti alla quale “e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni”. Paolo, che conosce per esperienza da dove provengono la forza e il motivo per trovare in sé stesso le virtù di cui si necessita, afferma: “ti ordino di conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento”.
Penso si riferisca a quello di amare come Gesù ha amato, o meglio, con lo stesso amore con cui ama nel donare sé stesso, per fare di te stesso una nuova creatura. La coscienza di tale dono è la condizione che sprigiona le energie e l’intelligenza per crescere nella tradizione creativa e innovativa della comunità. In tal modo essa costituisce il bagaglio personale e della comunità, continuamente arricchito.
Tale processo continuerà “fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo, che al tempo stabilito sarà a noi mostrata da Dio (…) che nessuno fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo”. In quel tempo l’attesa del ritorno del Risorto era ritenuta prossima. L’integrità e la fede di Paolo sono motivo dell’inno di lode: “A lui onore e potenza per sempre”, manifestazione della gratitudine per la causa del regno e per la persona di Cristo, del quale ricorderà costantemente che “mi ha amato e ha consegnato sé stesso per me” (Gal 2,20).
È proprio per l’apertura del cuore e della mente alla Parola che la sua vita è trasformata da persecutore in apostolo. Non è un colpo di fulmine ma l’evento in cui l’integrità e perseveranza nella Parola, pur coltivata costantemente nel cammino opposto a quello di Cristo, ha fatto sì che in lui si manifestasse la portata del mistero di Dio alla porta di Damasco.
Paolo era ed è la persona profondamente coinvolta dalla Parola. Con l’incontro con Gesù in Damasco aderisce ad essa con tutto sé stesso. Il vangelo riprende la necessità di tale adesione in ogni credente.
Vangelo (Lc 16, 19-31)
In quel tempo, Gesù disse ai farisei:
«C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe.
Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”.
Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”.
E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».
Gesù è burlato dai farisei per aver affermato l’incompatibilità di servire Dio e il denaro. E risponde con questa parabola. “C’era un uomo ricco che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo”. È risaputo che la ricchezza si esprime e si riveste nel lusso esteriore. Ebbene non dice – come a volte si pensa – che il ricco sia malvagio o cattivo. È un uomo, secondo la tradizione biblica ebraica, benedetto da Dio perché questi premia i buoni con la ricchezza e maledice i cattivi con la povertà.
“Un povero, di nome Lazzaro” (il nome significa ‘Dio aiuta’) “stava alla sua porta, coperto di piaghe”. Le piaghe sono ritenute un castigo di Dio verso un uomo colpevole della sua miseria, “Bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco”. Allora si mangiava con le mani e si asciugavano le dita con la mollica del pane che, poi, si buttava via. Di questa Lazzaro bramava sfamarsi.
I cani, considerati animali impuri, “venivano a leccare le sue piaghe”. Lazzaro è impuro e vive fra impuri. La concezione teologica di allora stabilisce l’insuperabile barriera fra il ricco e il povero e, di conseguenza, l’esclusione del povero dal regno con l’avvento del messia.
Sorprende gli ascoltatori che nell’altra vita Lazzaro stia accanto ad Abramo. Nella regione dei morti il punto più luminoso è stare con Abramo e, certamente, non poteva starci l’impuro Lazzaro che, al contrario, doveva trovarsi nel punto più oscuro.
Il ricco non è condannato per malvagità nei confronti del povero, né di maltrattamento, ma semplicemente perché non si è accorto della sua esistenza. Solo adesso, quando è nel bisogno, finalmente se ne accorge.
Ebbene questi chiede ad Abramo “di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente”. La risposta: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. Il ricco insiste e pensa di avere ottimi argomenti di replica: “No, Padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”.
La fede del ricco è fondata sulla forza dirompente del miracolo. Molti, e non solo i ricchi, pensano allo stesso modo e si sorprendono di non trovare riscontro alle loro richieste. Con un miracolo di tale portata come non credere? Nella grande maggioranza dei credenti la fede nell’autorevolezza divina della persona si fonda su atti come quello richiesto dal ricco, al punto che, nel caso in cui la richiesta non venga esaudita, si sentono defraudati e viene meno la fiducia.
La risposta costituisce la finalità della parabola: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”. La fede procede dalla Parola dei Profeti, che richiamano il popolo e le autorità alla fedeltà all’Alleanza, codificata nella pratica della legge di Mosè e poi sostituita da Gesù con la propria: la nuova Alleanza.
È ingannevole fondare la fede in Gesù sul miracolo, anche con l’evento sconcertante e ammirevole della risurrezione, dato che la risurrezione non è un super-miracolo ma la manifestazione sorprendente, inaspettata e sconcertante della sua consegna, per amore, alla causa del regno di Dio. È la faccia nascosta della radicalità e fedeltà nell’amore al punto da consegnare tutto sé stesso.
L’amore che lo porta alla consegna qui, è la forza della risurrezione là, dopo la morte. Non è un miracolo nei termini comunemente inteso. Propriamente, il miracolo è la capacità di amare tutti indistintamente, anche il nemico, come Gesù ha amato.
È possibile credere nella risurrezione non per vedere rianimato un morto, ma per l’amore che Gesù ha per ognuno di noi, coinvolti da esso, e che ci rende capaci per la causa del Regno: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore “(Gv 15,9). Quel che salva non è il miracolo, ma la fede che si fa dono di sé, amore per la causa dell’avvento del regno di Dio.
Ciao, p.Luigi, mi sei stato compagno amabilissimo per sette anni a Rebbiò e a Crema. Che il Signore ti abbia…
Mi è piaciuto moltissimo e concentra tutto il senso della vita dell' uomo
L'ho incontrato più volte a Firenze, negli anni prima del sacerdozio, ci siamo scritte delle lettere, sono andata a trovarlo…
Ciao, padre Graziadio. E’ giunta l’ora per te, di riscuotere per l’eternità, il giusto compenso per quel granfe amore che,…
Ciao Santina, perdona il ritardo nel risponderti. Sarebbe bello potersi conoscere. Ti lasciamo qui scritti i contatti in modo da…