Padre Luigi Consonni

Commento alle letture: XXIV DOMENICA DEL T.O. -C-
(11/09/2022)

 

Prima lettura (Es 32,7-11. 13-14)
In quei giorni, il Signore disse a Mosè: «Va’, scendi, perché il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto, si è pervertito. Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicato! Si sono fatti un vitello di metallo fuso, poi gli si sono prostrati dinanzi, gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: “Ecco il tuo Dio, Israele, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto”».
Il Signore disse inoltre a Mosè: «Ho osservato questo popolo: ecco, è un popolo dalla dura cervìce. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione».
Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio, e disse: «Perché, Signore, si accenderà la tua ira contro il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto con grande forza e con mano potente? Ricòrdati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: “Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo, e tutta questa terra, di cui ho parlato, la darò ai tuoi discendenti e la possederanno per sempre”».
Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo.

Mosè è alla presenza del Signore sul monte Sinai per stabilire l’Alleanza dopo la liberazione del popolo dalla schiavitù dell’Egitto. Con il popolo è in cammino verso la terra promessa nella quale, secondo i termini dell’Alleanza, dovrà instaurare un nuovo ordine sociale di pace e armonia, condizioni indispensabili per la realizzazione personale e sociale di ognuno e dell’intera comunità. È in tale processo che si manifesta l’avvento del Regno di Dio, o meglio, l’accoglienza della Sua sovranità.
Il prolungarsi dell’assenza di Mosè fa sì che la debole e inconsistente fede del popolo sconcertato dia spazio alla sfiducia nei riguardi di Dio, e al dubbio sulla fedeltà di questi alla promessa. Il comportamento conseguente è rilevato con amarezza da Dio che afferma: “Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicato!” e si rivolge a Mosè: “Va, scendi, perché il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto, si è pervertito”.
Di conseguenza il popolo opta per dare a Dio sembianze e caratteristiche in sintonia con il suo modo di pensare; “Si sono fatti un vitello di metallo fuso”, attribuendo all’immagine la forza e il potere del Dio che li liberò dall’Egitto, nella convinzione che rendendogli il culto appropriato Egli risponda nel tempo e nei modi ritenuti convenienti e opportuni.
È l’intento di avere dalle loro parte il Dio d’Israele esecutore della loro volontà. La visibilità dell’immagine dà loro maggiore certezza e sicurezza di essere esauditi. Non si tratta, quindi, di sostituire Dio liberatore con un altro dio; è lo stesso Dio, ma “modellato” sui propri criteri.
L’idolo, prima di concretizzarsi nell’immagine del vitello di metallo fuso è prodotto nel loro intimo, incapace e impossibilitato a mantenere la fiducia nella promessa a causa delle difficoltà e dei rovesci lungo il cammino verso la terra promessa. Fiducia che viene meno nel ritenere che Dio, davanti al quale Mosè sta inaspettatamente prolungando la sua presenza, eluda il rapporto di reciprocità per il quale “Lui è il nostro Dio e noi il suo popolo eletto” e, di conseguenza, venga meno al rapporto che si aspettano.
Quanto successo allora accade anche oggi, nel senso di modellare, nella propria mente, un’immagine di Dio secondo le proprie attese e convinzioni. Come allora, il vero idolo è elaborato nell’intimo della persona stessa. In tal caso è particolarmente difficile da individuare e distruggere perché modella e sostiene il proprio punto di vista che blinda ogni alternativa. E il Signore constata: “Ho osservato questo popolo: ecco è un popolo di dura cervice”.
L’elaborazione di un’idea di Dio è inevitabile e necessaria, ma occorre evitare di trasformarla in un idolo. Le circostanze della vita, la pluralità e la singolarità degli avvenimenti, spingono a rielaborare l’idea di Dio, tenendo presente il significato ultimo dell’alleanza, i presupposti basilari del regno, la qualità di vita per tutti, il rispetto delle circostanze e delle diversità, in modo da personalizzare l’evento della conversione nell’orizzonte della comunione fraterna, espressione del mistero d’amore che proviene da Dio e a Lui conduce.
Dio, nella sua bontà, suscita avvenimenti o persone che distruggono l’idolo, ben sapendo che la costruzione di un altro idolo può ripetersi in altri modi e con nuovi contenuti. Quest’ultimo aspetto è un pericolo costante che esige, da parte del credente, di non abbassare la guardia e sostenere la creatività e l’audacia nel processo di conversione, in attenzione al contesto e alla circostanza.
La vita in Dio è una costante lotta per abbattere gli idoli che costruiamo nell’intimo, avvicinandoci e addentrandoci sempre più nell’amore di Lui e in Lui stesso. La conversione permanente, prima di essere un evento di carattere etico, è di ordine teologico e riguarda l’idea di Dio che non può essere “imprigionata” in nessuno schema o sintesi elaborata dal credente.
Dio dice a Mosè: “Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione”. Solo una persona che ama molto reagisce con tanta determinazione quando si sente defraudato e deluso dalla persona amata. Tuttavia la promessa rimane valida, per cui Egli manifesta l’intenzione di costituire un altro popolo che corrisponda a ciò che gli è dovuto.
Mosè intercede efficacemente: “Ricordati di Abramo di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto (…)”. Ricordare è attualizzare la promessa di fedeltà anche nella circostanza così sconcertante e sofferta. È la testimonianza della gratuità dell’amore misericordioso, vittorioso sulla profonda amarezza. In tal modo Mosè rende evidente l’essenza di Dio, la sua identità che la collera del momento sembra appannare, ma che in realtà è, dal punto di vista umano, lo sfogo di un amore deluso e defraudato.
Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo”. Dio non può non essere sé stesso, e il carattere distintivo è la fedeltà alla promessa. Tale identità e fedeltà è donata anche al credente come sostegno nelle difficoltà.
È l’argomento di Paolo nella seconda lettura.

 

Seconda lettura (1Tm 1,12-17)
Figlio mio, rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù.
Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna.
Al Re dei secoli, incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen.

Paolo fa riferimento alla sua conversione ed a quello che ne è seguito: “Mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede”. Dopo l’evento pasquale – circa quattro anni – Dio si è chinato sul di lui e manifesta il suo amore per mezzo di Gesù Cristo. Con esso Paolo prende coscienza della sua ignoranza, dovuta alla sfiducia nella persona e nell’insegnamento di Gesù. È noto che egli è un uomo eticamente corretto quale fariseo osservante e, probabilmente, è questa condizione etica che ha giocato un ruolo significativo di apertura alla conversione.
L‘evento alla porta di Damasco è il punto di partenza del processo per il quale “la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù”. Si è sentito avvolto e partecipe della fede e della carità di Cristo per la causa del regno. Fra l’altro, anche in lui, la conversione non è solo un evento momentaneo – puntuale – ma un processo continuo, in attenzione allo svolgimento della missione nel contesto e nella circostanza in cui si trova. Probabilmente essa è vissuta come qualcosa di smisurato, esorbitante, che porta con sé la crescita nella fede e l’approfondimento dell’amore in Gesù Cristo e della causa del Regno.
Ne è prova il suo grande impegno e le molte sofferenze che testimoniano l’alto grado d’identificazione in Cristo, per cui può affermare a cuore aperto: “rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Gesù Cristo Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento”. Lo ringrazia perché si è fidato di me – al di là dei trascorsi – mi ha reso capace e mi ha confidato questo servizio, la missione.
Paolo, guardando in retrospettiva il proprio cammino, afferma che il suo comportamento, prima della conversione, fu “per ignoranza, lontano dalla fede” e come la grazia del Signore ha aperto la sua comprensione e il suo cuore all’accoglienza della misericordia di Dio.
Dio l’ha reso capace di testimoniare quello che Gesù Cristo ha operato in lui e di argomentare, con intelligenza e chiarezza, la plausibilità, la convenienza e gli effetti della fiducia Lui. Condizione per la quale il Signore gli ha affidato il servizio di evangelizzare tutte le genti; incarico che ha assunto con responsabilità segnata dall’audacia, dalla creatività e dal coraggio dentro e fuori la comunità, come testimoniano gli scritti del nuovo testamento.
Ecco, allora, la solidità dell’esperienza e dell’impegno nell’affermare: “Questa Parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Gesù Cristo è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io”. È la manifestazione del cammino e dell’azione salvifica per tutta l’umanità, per la salvezza che lui stesso ha ricevuto e per la quale è cominciata, in lui, una nuova vita che offre come esperienza e patrimonio a favore di tutti.
L’esperienza non è fine a sé stessa ma è il cammino di crescita verso la pienezza nella gloria di Dio, con la presenza/ritorno del Risorto. Il cammino si consolida nel coinvolgere e rivolgersi a tutti: “appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere vita eterna”. La salvezza ha il suo inizio nell’atto di riceverla gratuitamente, e il suo termine nel trasmetterla altrettanto gratuitamente. È il processo che non finisce mai.
Paolo incontra il senso vero, pieno e soddisfacente della sua esistenza, che motiva la lode a Dio con la preghiera: “Al re dei secoli, immutabile, invisibile e unico, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen”.
In cosa consista la grandezza, la forza e la salvezza dell’amore è indicato dal vangelo.

 

Vangelo (Lc 15,1-32)
In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

Il rapporto fra Gesù, i farisei e i loro scribi – i teologi – è molto teso. Frequentemente Gesù è interpellato riguardo al suo comportamento e alla pretesa messianica che non corrisponde a quella che loro aspettano. Mentre “tutti i pubblicani e i peccatori” si avvicinavano per ascoltarlo, al contrario i farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”.
Secondo l’intendimento di questi ultimi il Messia doveva separare i peccatori dai giusti, condannare i primi al fuoco eterno e accogliere i secondi con l’avvento del regno di Dio. Mai e poi mai pensano che il Messia sedesse a tavola con i peccatori. Fra l’altro ritenevano che condividere la tavola è come dichiarare di appartenere allo stesso gruppo e vivere nello stesso modo. Pertanto è impensabile che Gesù, in quanto Messia, pretenda che credano in lui come instauratore del Regno e, allo stesso tempo, si comporti in quel modo.
Tutto il vangelo testimonia che Gesù deve difendersi riguardo al suo comportamento. Nel testo Gesù lo fa con queste notissime parabole. Le prime due, quelle della pecora perduta e della moneta smarrita, mettono in risalto la gioia del Signore per aver ritrovato l’uomo peccatore (la pecora smarrita), e l’allegria della donna – che è poi l’allegria del cielo e degli angeli – che, con tenacia e determinazione, ha ritrovato la moneta persa.
Le due parabole descrivono la sollecitudine e l’attenzione di Dio alla conversione di chi si è allontanato da Lui. Esse manifestano il sentimento di compassione e l’azione misericordiosa propria di chi ha a cuore la miserabile condizione di colui che si è perso, con l’intento di riscattarlo dal pericolo e dalla tristezza in cui si trova.
È importante rilevare, e soprattutto credere, che ogni singola persona, nonostante l’allontanamento e la caduta a livelli morali infimi, non è lontano dallo sguardo e dall’attenzione di Dio. Anzi, è importante sapere che Dio gli rivolge lo sguardo, gli va incontro, in modo da riammetterlo e ristabilirlo nella comunione con Lui.
La persona allontanata, una volta percepito l’errore, capisce il motivo della chiusura in sé stessa e dell’isolamento dagli altri. Non gli è difficile comprendere e pensare cosa significhi la certezza che qualcuno ti cerca per darti animo, speranza, accoglierti come amico, più ancora se questi è Dio. È come una risurrezione.
La conosciutissima parabola del figlio prodigo rivela la condizione di padre di Dio stesso. Come autentico padre, Dio non vuole la morte del figlio peccatore ma la conversione; vuole che viva nella pienezza della gioia che solo lui può donare, gioia rappresentata dal banchetto e dalla festa.
Percepire la portata e la profondità di Dio come Padre richiede la conversione sia da parte del figlio minore, che ha lasciato volontariamente la casa, sia del fratello maggiore che vi è rimasto. Sono due conversioni a livelli diversi, ma indicano e comprendono il perché del sorprendente, sconcertante e inaspettato comportamento di Dio.
L’accoglienza di Dio come Padre, nei termini della parabola è vita per il discepolo nel quale emerge la vera condizione di figlio. Più ancora, il desiderio, l’aspirazione ad essere “come Dio” (Gen 3,5) – abilmente usata dal serpente per sviare i progenitori dal cammino di Dio – è propria del destino del discepolo, di ogni persona, la cui realizzazione avviene per la pratica dell’amore misericordioso del Padre nei suoi confronti. In tal modo, il discepolo, la persona, si divinizza e, allo stesso tempo, Dio si umanizza.
Raggiungere tale livello di spiritualità presuppone lasciarsi coinvolgere dall’amore di Dio, che Paolo sperimenta alla porta di Damasco e per l’evento della morte e risurrezione di Gesù. Accogliere tale amore, oltre ogni umana attesa, è distruggere la tentazione di costruire un’immagine falsa di Dio – l’idolo – che, pazientemente e costantemente, Lui corregge con infinito amore paterno.