Padre Tonino Falaguasta Nyabenda
In questa Domenica siamo invitati a scoprire chi è Dio, come dobbiamo definirlo. Cominciamo con Mosè che ha con Yhwh (= Dio) una discussione fortissima. E’ vero, il popolo ebraico aveva peccato gravemente di idolatria, adorando il vitello d’oro (Esodo 32, 3-6). Aveva avuto il via libera da Aronne, fratello di Mosè. Dio allora voleva sterminare questo popolo dalla dura cervice e farne sorgere un altro, più fedele all’Alleanza, che avrebbe avuto come capostipite Mosè, al posto di Abramo. Mosè si sentì inorgoglito dalla scelta di Dio; ma superò la sua soddisfazione personale, dicendo al suo Signore due cose. Prima di tutto, gli Egiziani lo avrebbero preso in giro, perché, dopo aver liberato il suo popolo, lo avrebbe fatto perire nel deserto del Sinai. Il secondo motivo riguarda il giuramento che Dio stesso aveva fatto ad Abramo. “Sarai – gli disse Dio – il padre di un popolo sterminato”.”Allora Dio non è più di parola? – commentò Mosè – Dio inoltre non sarebbe il vero autore della Pasqua del popolo d’Israele?” La risposta dell’Altissimo a questi ragionamenti: “il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo” (Esodo 32, 14). Dio dimenticò la colpa. Perché perdono’. E questo è il grande insegnamento di Mosè: Dio è perdono!
E’ quello che il Vangelo di oggi ci insegna (Luca 15, 1-32). Perdonare infatti è il vero mestiere di Dio. Gesù infatti preferiva la compagnia di pubblicani e di peccatori. Sono essi, i malati spiritualmente, che hanno bisogno del medico. Gesù aveva detto infatti: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati” (Luca 5, 31).
Siamo invitati in questa Domenica a scoprire chi è Dio. Per la Bibbia Dio è il perdono, perché la sua natura è l’amore, la carità (1Giovanni 4, 8). Noi abbiamo in genere una cattiva opinione su Dio, che è Padre e ha anche i sentimenti di una madre (come diceva Papa Giovanni Paolo I). La parabola del padre che ha due figli è fondamentale per capire questa definizione di Dio. E’ stata presentata come “il Vangelo del Vangelo”. Se non capiamo il messaggio di questa parabola, cadiamo nel ribellismo, nel nichilismo, nell’alienazione atea, nella ricerca del piacere come unico scopo della vita, nel vittimismo, nel legalismo, nella dissolutezza totale. I due figli della parabola sono l’esemplificazione di tutto questo. La radice di ogni peccato è la cattiva opinione sul Padre (cioè su Dio). Dio sarebbe un padre-padrone. E se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo, come insegnava il celebre filosofo francese e padre dell’Illuminismo Voltaire (1694-1778), per tenere gli uomini sottomessi come schiavi. Oppure secondo Mikhail Bakunin (1814-1878), filosofo e rivoluzionario russo, questo Dio padre-padrone bisognerebbe distruggerlo, per dare la vera libertà agli uomini. Sia Voltaire che Bakunin, e tutti i filosofi atei e anticristiani, manifestano la loro ignoranza. Dio non è così. Basta leggere la Bibbia. E il Vangelo di oggi è una pagina stupenda. Gesù, parlando ai pubblicani e ai peccatori che lo ascoltavano (Luca 15, 1), racconta prima due parabole: quella della pecora smarrita e quella della dracma perduta. Spesso ci si ferma sulla prima, quella della pecora amata e perduta che il pastore, abbandonando le 99 altre, va alla ricerca fin che la trova e ne gioisce. Ma allora perché Gesù racconta anche la parabola della dracma perduta? Non è una ripetizione inutile? La ripetizione invece ha la sua importanza nella tradizione della preghiera. La ripetitività (dice il biblista Silvano Fausti) fa parte della struttura dell’uomo, che vive nel tempo. Cessa solo con la morte. Considerare la ripetitività come inutile sarebbe come dire: “Ho già mangiato. Perché andare di nuovo a tavola?”. E’ invece necessaria per mantenerci in vita. Lo stesso vale per la vita spirituale.
Ma passiamo alla parabola del padre misericordioso. Ha due figli, perché due indica la totalità, e cioè noi tutti. Hanno due caratteri diversi. Il più giovane, irruento e desideroso di novità, vuole staccarsi da suo padre ed esige “la sua parte” (Luca 15, 12). Secondo la legge poteva pretendere solo un terzo del patrimonio liquido. E poi se ne va lontano, dopo aver tolto non i beni, ma la “vita” del padre, come dice il testo greco: ousia (= vita). E dilapidò tutto, restando nell’indigenza. Il ragazzo, dopo una vita spericolata (come diceva Vasco Rossi), si accorse che l’emancipazione dal padre è come l’umanesimo ateo. E’ cioè una schiavitù dell’idolatria (l’idolo è il piacere fine a se stesso e la vita dissoluta). L’alternativa a Dio (cioè l’amore del padre) non è l’ateismo, ma l’angoscia del nichilismo. Infatti la vuotezza del peccato, dice san Paolo, è il pedagogo che ci conduce al Cristo (Galati 3, 24). Allora si torna di nuovo verso il padre, di cui si resta sempre figli. Il celebre quadro di Rembrandt (1606- 1669), pittore olandese, raffigura il padre che abbraccia il figlio, buttandogli al collo le sue braccia: ma una mano è maschile e l’altra è femminile. E’ un’interpretazione corretta di questa parabola. Dio (= il padre) ci è Padre e ci ama di un amore totale (= amore paterno e materno). Accogliendo il figlio che torna, il padre si mette a correre. In oriente la corsa non è degna di un adulto. Ma fa si fa festa; si mette l’anello al dito, i sandali ai piedi. Il figlio vine riammesso all’eredità del padre come un uomo libero e si manifesta la gioia, con l’immolazione del vitello ingrassato con grani di frumento (= allusione all’Eucaristia!). Il figlio maggiore non vuole far festa, perché il figlio minore non lo considera suo fratello. Invece la riconoscenza del padre passa attraverso l’amore del fratello. Il suo peccato infatti è quello di non accettare il fratello minore come figlio del Padre. Rifiuta il Padre pertanto. La festa allora consiste nel rallegrarsi della gioia del Padre per il figlio ritrovato. E questa festa, per noi, si compie nell’Eucaristia, nella quale celebriamo la Pasqua del Signore Gesù, che non si vergognò di chiamarsi nostro fratello (Ebrei 2, 11). Noi infatti siamo come il figlio minore e come il figlio maggiore, tutti immersi nel peccato, ma perdonati e travolti dalla misericordia di Dio, che ci ama come un padre e anche come una madre (dixit: Giovanni Paolo I).
P. Tonino Falaguasta Nyabenda