Padre Luigi Consonni
Commento alle letture: XXIII DOMENICA DEL T.O. -C-
(4/09/2022)
Prima lettura (Sap 9,13-18)
Quale, uomo può conoscere il volere di Dio?
Chi può immaginare che cosa vuole il Signore
I ragionamenti dei mortali sono timidi
e incerte le nostre riflessioni,
perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima
e la tenda d’argilla opprime una mente piena di preoccupazioni.
A stento immaginiamo le cose della terra,
scopriamo con fatica quelle a portata di mano;
ma chi ha investigato le cose del cielo?
Chi avrebbe conosciuto il tuo volere,
se tu non gli avessi dato la sapienza
e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?
Così vennero raddrizzati i sentieri di chi è sulla terra;
gli uomini furono istruiti in ciò che ti è gradito
e furono salvati per mezzo della sapienza».
“I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le sue riflessioni (…) A stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a portata di mano”. Il testo riflette la condizione umana riguardo alla limitata capacità delle persone di comprendere, in modo esauriente, le cose a portata di mano, nonostante tutti gli sforzi. L’autore riconosce il limite umano e, con esso, l’umiltà che sostiene il cammino per ottenere risultati soddisfacenti.
È proprio della persona chiedersi e indagare sul senso, sul mistero della vita e trovare risposte alle domande sul perché e la finalità di ciò che accade in essa, nella società e nel creato. Nella maggioranza dei casi si rapporta a persone che hanno competenza nel settore indagato, pieni di fiducia nei risultati ritenuti attendibili e nelle azioni corrispondenti.
È vero che l’impegno del ricercatore percepisce il limite del proprio lavoro, la provvisoria e parziale conoscenza di ciò che indaga. È altresì cosciente che il risultato è il punto di partenza per ulteriori approfondimenti, necessari per accrescere o modificare tutto ciò a cui si è pervenuto. La scienza è aconfessionale, ha un metodo di indagare proprio, e le sue conclusioni si avvalgono della razionalità, dell’esperienza e della verifica.
È noto che strutturalmente ogni ricercatore, seriamente impegnato nella ricerca, è sinceramente umile e percepisce la portata dell’affermazione: “ma chi ha investigato le cose del cielo?”, perché la verità completa sfugge o è occulta alla comprensione umana.
Tuttavia il senso e la volontà di potere e di dominio, per i risultati positivi della ricerca, suscita ottimismo riguardo al mistero che coinvolge l’origine della vita, l’esistente e il progresso. Il fascino che attrae la ricerca stimola la tenacia e la perseveranza nello sfidare, giorno dopo giorno, le barriere ritenute invalicabili.
Chi crede in Dio, presente nella storia e nel cammino degli uomini, sulla soglia del mistero e al limite del conoscibile è interpellato dalle seguenti domande: “Quale uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?”.
L’umiltà non mortifica, non scoraggia né sottomette passivamente al sapere superiore, ma apre l’intelligenza e il cuore alla sapienza di Dio: “Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?”.
Umiltà che prende lo spunto dalla cultura greca, il “corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla opprime una mente piena di preoccupazioni”. È noto che Dio va oltre la prova scientifica; tuttavia si fa esperienza di Lui per la fiducia nella sua auto-rivelazione nella storia, registrata dalla scrittura, dal vissuto individuale e comunitario dei discepoli e dei testimoni.
La fede in Dio immerge nel suo mistero, come il pesce nell’oceano. Essa è propria di chi si dispone, con umiltà, alla “sapienza che viene dall’alto”, che viene dal Suo “santo spirito”. La persona creata a immagine e somiglianza di Dio sintonizza con la sua presenza e con la sua azione, valicando i criteri razionali dell’umano.
La sapienza di Dio non nega i criteri umani di ricerca; semplicemente non si esaurisce in essi, ma va ben oltre. Li attraversa come la luce fa con il diamante o il fuoco con il ferro, li illumina, li purifica dall’ambiguità in cui sono avvolti, e offre la giusta comprensione per il bene personale e della società.
È l’opera dello Spirito Santo nell’umile, spazio della nuova comprensione: “Così vennero raddrizzati i sentieri di chi è sulla terra”. La sapienza collabora con l’uomo nel raddrizzare ciò che è storto, vince l’autosufficienza, l’orgoglio, l’ebbrezza del potere e del dominio che offuscano l’intelligenza, bloccano la volontà sui propri punti di vista e rende il cuore insensibile e restio al cambiamento.
In tal modo “gli uomini furono istruiti in ciò che ti è gradito e furono salvati per mezzo della sapienza”. La finalità della sapienza è la salvezza dell’uomo; essa indica il cammino, il farsi, giorno dopo giorno, dell’amore del Signore nel creato a favore degli uomini, chiamati con Lui a trasformare e perfezionare la vita individuale e i rapporti sociali nell’ambito dell’avvento del regno di Dio e il raggiungimento della finalità dell’alleanza del Sinai.
La sapienza prende forma umana nella persona di Cristo, nel quale mostra tutta la sua sorprendente dinamica e forza nell’evento pasquale. Paolo, trasformato da essa mostra l’applicazione nella seconda lettura,
Seconda lettura (Fm 9b-10. 12-17)
Carissimo, ti esorto, io, Paolo, così come sono, vecchio, e ora anche prigioniero di Cristo Gesù. Ti prego per Onèsimo, figlio mio, che ho generato nelle catene. Te lo rimando, lui che mi sta tanto a cuore.
Avrei voluto tenerlo con me perché mi assistesse al posto tuo, ora che sono in catene per il Vangelo. Ma non ho voluto fare nulla senza il tuo parere, perché il bene che fai non sia forzato, ma volontario.
Per questo forse è stato separato da te per un momento: perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo, in primo luogo per me, ma ancora più per te, sia come uomo sia come fratello nel Signore.
Se dunque tu mi consideri amico, accoglilo come me stesso.
È il testo più breve di Paolo, un biglietto scritto a Filèmone riguardante lo schiavo Onèsimo, che era fuggito dalla casa di Filèmone per stare con Paolo, che ora è agli arresti. Questi lo ha accolto e tra loro si va formando il rapporto di figliolanza, non solo per il battesimo – “figlio mio, che ho generato nella catene” –, ma per la sintonia e il coinvolgimento affettivo.
Paolo fa leva sulla sua condizione di vecchio, di prigioniero, e rivolge un’accorata esortazione a Filèmone affinché lo accolga non “come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo”. L’esortazione è una caratteristica della vita e della spiritualità di Paolo, per la qualità del rapporto con Filèmone e Onèsimo.
Per l’apostolo il legame tra fede e vita ridisegna il rapporto sociale che svuota dall’interno lo stato giuridico della schiavitù. È la circostanza dell’accoglienza dell’avvento del regno di Dio che attiva il processo per il quale l’imperfetto umano entra nella dinamica di continua perfezione. Il processo è come quello del germoglio che diventa albero pieno di buoni frutti, secondo il progetto e la volontà di Dio.
Ebbene, Paolo manifesta il suo sentimento verso Onèsimo e il desiderio che fosse rimasto con lui, perché “mi sta molto a cuore (…) avrei voluto tenerlo con me perché mi assistesse al posto tuo, ora che sono in catene per il vangelo”. Tuttavia sente l’imperioso moto interiore di perorare l’attenzione di Filèmone, per la stima e la fiducia nell’amico: “non ho voluto fare nulla senza il tuo parere, perché il bene che fai non sia forzato, ma volontario”.
È notevole, in Paolo, il distacco dal proprio tornaconto a favore del bene dei due. Nella sua azione si rivela l’identificazione con il Signore e la profonda comunione con lui e, pertanto, non desta me
aviglia che affermi: “non sono io che vivo ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).
Paolo rispetta la condizione giuridica di Filèmone sullo schiavo ma, allo stesso tempo, confida nella forza della fede che motiva il bene autentico, non costretto ma volontario. L’intervento di Paolo ristabilisce il rapporto di Filemone con Onèsimo a ben altro livello: “Per questo forse è stato separato da te per un momento: perché tu lo riavessi per sempre”.
Il “per sempre”, non è costrizione o diminuzione dell’autorità e potere di Filèmone, ma per la nuova condizione: “non più come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo, in primo luogo per me, ma ancora più per te, sia come uomo sia come fratello del Signore”. L’evento stravolge l’ordine umano e sociale. È la nuova realtà, allo stesso tempo umana e divina, che si configura nella circostanza, anticipo e partecipazione di quella che sarà con il ritorno di Cristo per tutta l’umanità.
La comune fede nella persona di Gesù permette a Paolo di affermare: “Se dunque mi sei amico, accoglilo come me stesso”. È il culmine del vincolo d’amicizia, non sorretto da legami familiari o dalla sintonia con alcuni punti d’interesse comune: è la fraternità e la solidarietà generata dalla fede in Gesù Cristo. Ma, soprattutto, dal destino che emerge dal profondo dell’essere.
Per raggiungere tale obiettivo Gesù, nel vangelo odierno, ne mostra il cammino sconcertante, e a prima vista paradossale.
Vangelo (Lc 14,25-33)
In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro:
«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.
Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.
Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”.
Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace.
Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».
Gesù è in cammino verso Gerusalemme ed è seguito da “una folla numerosa…”. Non deve ingannare l’apparente adesione, perché la folla pensa che Gesù sia il glorioso messia, il figlio di Davide, che va a restaurare il defunto regno di Israele. Non ha compreso che, invece, è il Figlio di Dio che va a scontrarsi con le autorità in Gerusalemme per la causa del regno di Dio.
“Egli si voltò”, come per rendersi conto della quantità di gente che lo seguiva. Gesù, percependo l’equivoco della gente, rivolge loro con chiarezza parole di grande impatto, senza mezzi termini e senza lasciare dubbi. E pone tre condizioni a chi sceglie di seguirlo.
La prima: “se uno non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo”. Si tratta del distacco da tutti loro e, cosa ancora più dura, dalla propria vita. Con altre parole, è la liberazione del cuore dalle schiavitù affettive verso altri, e anche da sé stesso. Solo la comprensione dell’insegnamento, della pratica di Gesù, del coinvolgimento affettivo per la sua persona e per la causa genera una carica interiore capace di motivare e sostenere il distacco.
Si tratta di riconoscere l’evento dell’Amore, per il quale l’amato sperimenta in sé stesso il fascino, l’attrazione di seguire Gesù, e determina di staccarsi dagli affetti familiari e da sé stesso prendendo atto che la propria vera identità non è in sé stesso, ma in Lui.
Non si tratta d’ignorare o non dare la dovuta attenzione al padre, alla madre, alla famiglia, ai congiunti, soprattutto se sono nel bisogno, ma di chiara identità e adesione alla causa che ridisegna i rapporti secondo le circostanze, volta per volta.
Gesù sa, perché lo sperimenta su di sé, che questa condizione non avrà buona accoglienza come anche la causa del regno. E aggiunge la seconda condizione: “Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo”. Specificamente fa riferimento alla crocifissione, al momento di maggior disprezzo della gente, quando il condannato carica sulle spalle la traversa sulla quale sarà crocifisso e cammina verso il luogo dell’esecuzione, circondato da ali di folla con l’obbligo religioso di insultarlo e malmenarlo.
Tuttavia, nella maggioranza dei casi, la croce è la sofferenza generata dalla sfiducia, dall’incomprensione e dal rigetto, dall’isolamento anche da parte delle persone più care ma, tuttavia, bisogna continuare, perseverare nel cammino fino a dire come san Paolo: “sono stato crocifisso con Cristo” (Gal 2,19).
Le prove e le difficoltà possono essere così grandi e intense da indurre a riflettere e valutare le condizioni e le capacità di far fronte ad esse, senza retrocedere o sviare, altrimenti il discepolo si espone al fallimento, oltre che alla derisione, alla critica tagliente e distruttiva: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”.
La seconda parabola del re, che “siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila”, spinge a non fare scelte insensate e buttarsi allo sbaraglio, magari confidando che qualsiasi cosa accada Dio interverrà secondo le proprie attese, per poi rimanere delusi. Per seguire Gesù è necessario sintonizzare, nell’intimo, con il dono della vita, affrontare il maggiore disprezzo e la radicale solitudine. E credere, come lo è stato per Gesù, che l’amore che motiva la consegna è lo stesso che risuscita alla vita indistruttibile.
Ecco, allora, la terza condizione che non può essere accolta dalla sola volontà o da un momento di entusiasmo interiore, ma dall’accogliere il dono del rappresentante – l’effetto della sua morte e risurrezione – associato alla coscienza delle proprie condizioni umane valutate, purificate e sostenute dallo Spirito del Risorto, in modo da rendere efficace l’avvertenza: “chiunque di voi non rinunci a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”.