Padre Luigi Consonni

Commento alle letture: XXII DOMENICA DEL T.O. -C-
(28/08/2022)

Prima lettura (Sir 3,19-21.30-31)

Figlio, compi le tue opere con mitezza,
e sarai amato più di un uomo generoso.
Quanto più sei grande, tanto più fatti umile,
e troverai grazia davanti al Signore.
Molti sono gli uomini orgogliosi e superbi,
ma ai miti Dio rivela i suoi segreti.
Perché grande è la potenza del Signore,
e dagli umili egli è glorificato.
Per la misera condizione del superbo non c’è rimedio,
perché in lui è radicata la pianta del male.
Il cuore sapiente medita le parabole,
un orecchio attento è quanto desidera il saggio.

Figlio, compi le tue opere con mitezza, e sarai amato più di un uomo generoso”. Erroneamente si ritiene che la mitezza riconduca alla difficoltà di interloquire, alla tendenza a sottostare al giudizio altrui, a non ribattere e non replicare, alla sottomissione e soprattutto al timore alla propria affermazione. È porsi in un angolo come una persona inesistente, una nullità.
Ma la mitezza è ben altro. È l’intelligenza di comunicare con dolcezza, con calma, con pazienza e serenità. Tuttavia essa comprende che le parole profferite in modo diverso, con un contenuto innovativo, potrebbero essere ritenute come affronti o rimproveri. Quindi la mitezza è sinonimo di mansuetudine paziente e benevola.
È altresì la capacità di unire la fermezza alla delicatezza. Con altre parole, è manifestare il pensiero con garbo, senza superiorità, anche quando, indiscutibilmente, c’è. Essa sostiene rapporti interpersonali fatti di un insieme di attenzione e di sincera accoglienza, elementi che creano l’incontro nel quale emergono sentimenti di benessere, di soddisfazione e di comunione fraterna.
Condizione previa è coltivare nel proprio intimo la chiara identità di sé stesso, la consapevolezza della qualità del rapporto interpersonale e sociale, la finalità e il destino della vita – ciò che è – e l’accettazione dei propri difetti e pregi, delle attitudini e delle incapacità.
Il mite è un soggetto piuttosto completo, sempre perfettibile – proprio della condizione umana – in pace e serenità con sé stesso. Ascolta tutti, cerca la comunione fraterna, non dipende da nessuno, ha una buona autonomia e gestione di sé. Il vangelo afferma che i miti “avranno in eredità la terra” (Mt 5,5), e si capisce bene in che senso: non certamente per spadroneggiare e dominare.
La generosità dona il necessario nel momento del bisogno, segno di amicizia e di stima. È attenzione verso persone disagiate moralmente, fisicamente o economicamente, in situazioni di grande disagio e sofferenza. Essa è frutto del sentimento di condivisione e di solidarietà insito nella mitezza
C’è un modo di esercitare la generosità, che coinvolge profondamente il donante e il ricevente, quando la mitezza e l’umiltà procedono di pari passo: “Quanto più sei grande, tanto più fatti umile”. Il mite è anche umile perché sa che non sa… L’umiltà non è negare o diminuire le proprie virtù e capacità, ma assumerle e gestirle con gratitudine e intelligenza. È dono del Signore e, pur essendo anche frutto del proprio sforzo e merito, lo trasmette, lo condivide per il bene altrui e della collettività, con lo stile appropriato della fraternità e della giustizia.
Per l’esercizio dell’umiltà “troverai grazia davanti al Signore”. Ai miti “Dio rivela i suoi segreti”, nell’intimità e familiarità con Lui. La persona cosciente e coinvolta dal dono condivide la vita, la gioia e la pratica dell’amore vicendevole con il destinatario. Nella circostanza emerge il segno della sua presenza nell’accogliere l’avvento della sovranità di Dio – il Regno – “perché grande è la potenza del Signore (…)” che instaura, motiva e favorisce la crescita di un mondo giusto, umano, fraterno e solidale.
Pertanto, “(…) dagli umili egli è glorificato”. L’autore riconosce la grandezza e il potere di Dio, gestito dall’umiltà del mite con parole e atteggiamenti opportuni, per la gloria e santità del Signore presente in lui. All’umile si addice la celebre espressione di S. Ireneo (II secolo d.C.): “l’uomo vivente è gloria di Dio e la vita dell’uomo è la lode a Dio”; vivente per l’amore ricevuto e trasmesso, fonte di vita in abbondanza
Il contrario dell’umile è l’orgoglioso: “Molti sono gli uomini orgogliosi e superbi (…) per la misera condizione del superbo non c’è rimedio, perché in lui è radicata la pianta del male”. L’orgoglio è la caratteristica della persona che fa del proprio sapere, della propria attività, il riferimento irrinunciabile e indiscutibile della propria competenza e professionalità. Ne fa questione di dignità, d’onore, presumendo che nessuno e niente la possa intaccare. Diventa impermeabile a ogni osservazione o contributo che non rientri nei propri parametri. L’amor proprio è così grande da sentirsi ferito e infastidito da ogni diversità o contrarietà.
Generalmente è così sicuro di sé stesso che guarda gli altri dall’alto verso il basso. Di conseguenza, il seme del male va crescendo nel sostenere l’impossibilità di comunicare e crescere nel rapporto fraterno, sincero e trasparente, in modo da qualificare l’autenticità di sé stesso. Al contrario, si involve su sé stesso, in un certo sensi si isola, vittima del proprio inganno.
Perciò il testo esorta: “Il cuore del sapiente medita le parabole, un orecchio attento è quanto desidera il saggio”. Per quanto profonda sia la conoscenza e ampia l’esperienza della propria vita, l’umiltà del saggio permette di sapere che molto ancora ha da imparare. E molte volte, quando e dove meno se l’aspetta, arriva una luce, un’intuizione che mai avrebbe immaginato.
Il desiderio di crescere in sapienza è così intenso da dare senso e sapore alla vita giornaliera, in ogni circostanza. Punto di riferimento importante del processo è l’immersione nel mistero di Dio, che apre orizzonti inediti, come afferma la seconda lettura.

Seconda lettura (Eb 12,18-19. 22-24a)

Fratelli, non vi siete avvicinati a qualcosa di tangibile né a un fuoco ardente né a oscurità, tenebra e tempesta, né a squillo di tromba e a suono di parole, mentre quelli che lo udivano scongiuravano Dio di non rivolgere più a loro la parola.
Voi invece vi siete accostati al monte Sion, alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a migliaia di angeli, all’adunanza festosa e all’assemblea dei primogeniti i cui nomi sono scritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti resi perfetti, a Gesù, mediatore dell’alleanza nuova.

L’autore allude all’esperienza di Mosè, alla teofania sul monte Sinai accompagnata da fenomeni spaventosi. Evento impressionante e sconvolgente non solo per Mosè ma anche per coloro che non sono presenti ma stanno ai piedi del Sinai. Questi sono colpiti e impressionati al punto che “scongiuravano Dio di non rivolgere più a loro la parola”.
L’autore prende lo spunto dall’avvenimento per evidenziare ai destinatari le differenze con la nuova teofania: “Non vi siete avvicinati a qualcosa di tangibile né a un fuoco ardente né a oscurità, tenebra e tempesta, né a squillo di tromba o suono di parole”. In quella circostanza Dio si manifestò come il “tre volte santo” (Is 6,3), l’assolutamente “altro”, trascendente, intangibile e inaccessibile.
Ora invece è tutt’altra realtà. Dio si rivela nella persona di Gesù, uomo comune, che si fa prossimo, si avvicina o accoglie tutti indistintamente, nell’assumere il ruolo di “mediatore dell’alleanza nuova”. Questo perché Egli rappresenta davanti al Padre ogni singola persona e l’umanità intera di ogni tempo e luogo.
In quanto rappresentante svolge il ruolo di mediatore, la cui azione e gli effetti di essa è accolta per la fede del rappresentato; è come se fosse quella del rappresentato stesso. Questo unico e singolarissimo rapporto è da non perdere di vista, è come il ponte che collega il divino con l’umano, e viceversa.
Nel rapporto, l’umano e il divino mantengono la propria identità e autonomia; tuttavia, si instaura un rapporto simbiotico e di comunione per il quale l’umano si divinizza e il divino si umanizza. (Vale specificare che quest’ultimo aspetto riguarda la “natura conseguente” di Dio in virtù dell’incarnazione del Verbo, non quella “primordiale”, trascendente e inaccessibile). In altre parole, Gesù media la nuova alleanza in comunione con la volontà del Padre e la dinamica dello Spirito.
La finalità riscatta la comunione del popolo con Dio, interrotto dal popolo per il mancato rispetto dei termini dell’Alleanza. Nel ripristinare il rapporto di familiarità, la gloria di Dio declina l’autenticità della comunione, verificata nella pratica della giustizia e dell’amore fraterno, in modo che ognuno, nella sua individualità, abbia vita in abbondanza per assumere correttamente la causa dell’avvento del regno, di un nuovo mondo di armonia e pace.
La nuova alleanza si sostiene per quello che Gesù ha insegnato e praticato negli eventi giornalieri con il suo stile di vita, caratterizzato dal modo e dal contenuto dei suoi rapporti interpersonali, dall’audacia e dal coraggio di reinterpretare la tradizione scontrandosi con chi la riteneva intoccabile, dalla pazienza per l’incomprensione dei discepoli e l’opposizione di chi lo riteneva il contrario di quel che diceva essere. E infine, per l’evento della sua morte e risurrezione.
La condizione del credente che accoglie l’insegnamento e assume la causa del regno, ridisegna radicalmente, una volta per sempre, il rapporto con il Padre nello Spirito Santo; aderisce alla nuova alleanza stabilita dal rappresentante e fatta propria per la fede dal rappresentato.
Questi, oltre a percepire un nuovo orizzonte di comprensione di sé stesso, prende coscienza del rapporto con Dio in modo ben diverso da quello precedente: “Voi invece vi siete accostati al monte Sion, alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste” perché introdotti nell’ambito del regno di Dio.
Lo stare in Cristo, vivere con Lui e camminare con Lui nelle diverse circostanze, come maestro e compagno di viaggio, e agire per la causa del regno, oltre alla familiarità e alla comunione, permette di percepire il destino ultimo della città terrena (dell’umanità), purificata dalle ambiguità e trasformata nella casa di Dio, la città del Dio vivente.
Il credente, in essa, entra in comunione con “migliaia di angeli, all’adunanza festosa e all’assemblea dei primogeniti i cui nomi sono scritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti resi perfetti”. Queste ultime parole, riguardo al giusto reso perfetto, tracciano il cammino di costante crescita che sarà completato dall’azione di Dio, in considerazione delle inevitabili debolezze e limiti umani.
Il giusto non è tale in questa terra per la perfezione, ma per la costante e permanente accettazione degli effetti del mistero pasquale, che lo stimola alla crescita nella perfezione. Quest’ultima si manifesterà alla fine, nella gloria della Gerusalemme celeste, come indica il vangelo.

 

Vangelo (Lc 14,1.7-14)

Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo.
Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».
Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».

Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capo dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo”. Il giorno e l’invito non sono casuali perché, dopo la celebrazione nella sinagoga, secondo i farisei era motivo di merito invitare a pranzo il predicatore. Probabilmente Gesù deve aver detto qualcosa riguardo al regno – il suo tema fisso! – che li ha lasciati per lo meno perplessi, se non sconcertati. Fin dall’inizio della missione Gesù è sotto la loro attenta osservazione.
Gesù prende lo spunto da ciò che sta accadendo riguardo all’accaparramento dei posti, “notando come sceglievano i primi posti”. Ha di mira espressamente i farisei, molto impegnati e preoccupati per i primi posti nel regno, per l’accumulo di meriti acquisiti con le proprie azioni e la condotta conforme alla Legge, specchio delle esigenze dell’Alleanza. Costoro sono molto rigorosi nel compiere tutte le prescrizioni della Legge e della tradizione, il che rafforza il diritto di occupare i primi posti.
Il loro affanno è acquisire meriti, con attitudini e opere in sé stesse valide; ciò li ha tratti in inganno, spinti dall’auto-giustificazione e dal ritenersi i primi destinati al regno con l’avvento del messia. La certezza di compiere fedelmente le esigenze dell’alleanza e dei comandamenti li rende sicuri di acquisire tale diritto, ma così facendo trascurano lo spirito e la finalità della Legge, la pratica del diritto e della giustizia a favore dei poveri, dei deboli, degli emarginati, nella prospettiva di una società fraterna e solidale.
Gesù vuole liberarli dall’inganno, ma i farisei sono lontani dall’accettare ciò che non entra nei loro schemi. Gesù li mette in guardia per cambiare il loro criterio di valutazione, passando dall’acquisizione del merito alla pratica dell’amore, come Lui stesso insegna e pratica. E si rivolge loro affermando: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia in contraccambio. Al contrario, quando (…)”.
La motivazione dell’intervento è la gratuità, il cui sostegno è l’amore sincero e disinteressato. Questo perché il partecipare al banchetto del Regno non è questione di maggiore o minore merito, ma della gratuità, prima e fondamentale caratteristica dell’amore. Le opere inique che il Signore condanna sono quelle sostenute dalla furbizia, dalla capacità di raggirare, dalla disonestà e dalla menzogna per il vantaggio personale o del gruppo di appartenenza e non la dignità, il rispetto, il bisogno di umanità fraterna del destinatario.
La gratuità è la porta d’entrata nel Regno. La maggiore o minore intensità di tale pratica determina, da parte del Signore, l’indicazione del posto del giusto. In ogni caso la gratuità è gestibile da chi l’ha ricevuta, “assaporata” e coinvolto dall’amore che costituisce la sua essenza, e sostenuto “dalla potenza di una vita indistruttibile” (Eb 7,16).
Per mezzo di essa il regno è già alla portata oggi. E afferma Gesù: “sarai beato perché non hanno da ricambiarti”. Nella gratuità dell’amore emerge il divino, il senso alla vita che gratifica il donante e il ricevente.
È la prospettiva che pochi accolgono e comprendono, cosicché nell’evento finale – alla fine del tempo – nella risurrezione dei giusti, i primi saranno ultimi e gli ultimi i primi. E Gesù si premura di assicurare che nel regno “Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti”, ossia la pienezza del dono, quando Dio sarà “tutto in tutti” (1Cor 15,28).