P. Rambo: Combattivo e vulcanico difensore dei pigmei.

Per obbedire al p. Tesfaye Tadesse, superiore generale dei Comboniani, p. Franko Laudani è ritornato tra noi, a Isiro, nella Repubblica Democratica del Congo. Il Gran Capo gli ha chiesto di mettere per iscritto la sua esperienza nella pastorale per i pigmei perché non vada persa.
L’apostolato tra i pigmei è stato per lui una vita dura senza risparmio né di energie né di salute. Viaggiare in moto in foresta con enormi difficoltà gli ha massacrato la schiena. Ha dovuto subire degli interventi alla colonna vertebrale e ora cammina leggermente piegato a destra. Ma nonostante le grane fisiche e l’età non più primaverile, resta con una grinta da “Rambo” (da cui l’affettuoso soprannome affibbiatogli dai confratelli) che fa invidia ai giovani. P. Vittorio Farronato che ha vissuto qualche tempo con P. Franko (che è un siciliano DOC), da vero artista, con una rapida pennellata di poche parole ne ha tracciato un bel ritratto dicendo che: “E’ stato sputato dall’Etna e non si è ancora raffreddato”!

Pur avendolo ascoltato diverse volte, non potevo perdere l’occasione di intervistarlo.

Come mai Franko con la “K”?
In comunità nella missione di Gombari eravamo in tre padri tutti con nome François (Francesco o Franco). P. Francesco Rinaldi Ceroni visto che era il più anziano aveva diritto di tenersi il suo nome. Io per distinguermi presi il nome di Franko con la “K”, e il più giovane scelse di farsi chiamare “Sisko”. La “K va bene perché da un tono più combattivo al mio nome e mi descrive meglio.

P. Franko come è nata la tua vocazione missionaria?
Mio papà si chiamava Antonio, e mia mamma Giuseppina. Ero il primo dei figli, seguito da mio fratello Placido, poi una sorella e infine un fratello. I miei genitori e Placido sono già in Cielo.
A Biancavilla (Catania) il mio paese ero ben conosciuto come un ragazzino discolo, diventando la favola del paese. A scuola in prima media, persi un anno appunto perché troppo impegnato nelle marachelle. Mio papà, visto il risultato, passò alla cura radicale e mi disse: “Devo sprecare le mie fatiche e i miei soldi, per questi risultati? Da domani basta con la scuola e vieni con me a lavorare nei campi. Vedrai che ti tornerà la voglia di studiare”. Fu una lezione salutare.
Eccomi dunque a faticare a fianco del papà nei campi. In quel periodo mio fratello Placido è entrato in seminario. Mantenere i figli a scuola non era facile, così dopo aver irrigato con il sudore i campi di papà, seguii Placido in seminario. Una brava signorina raccoglieva aiuti per aiutare diversi seminaristi tra cui ci fui anch’io.
Fui colpito da quanto scriveva P. Enrico Bartolucci (missionario Comboniano, poi Vescovo in Equador) che commentava l’Enciclica Fidei Donum del Papa sulla rivista per ragazzi “il Piccolo Missionario”. Diceva che: Con i cambiamenti politici ci sarebbero stati solo venticinque anni di lavoro missionario prima che i missionari fossero cacciati dai vari Paesi. Ho calcolato che avrei avuto bisogno di tredici anni per essere ordinato prete, e ho pensato che me ne restavano dodici per poi “conquistare l’Africa a Cristo”. Questo è stato il primo barlume di vocazione. Non è che la vita di seminario mi avesse cambiato molto e restavo il discolo di sempre, e ho rischiato spesso di essere rispedito in famiglia. I pianti di mia mamma, commuovevano il rettore che, per merito di lei, mi sopportava con pazienza. Sono prete proprio grazie ai pianti di mia mamma.
A vent’anni mi sentivo chiamato a essere missionario. Lo manifestai a mio padre che mi disse “No!” Mia mamma che era più religiosa e direi coraggiosa mi benedisse. L’anno seguente con la maggior età anche mio padre capì che non poteva più opporsi. Il nostro Vescovo che aveva gran bisogno di sacerdoti, ai seminaristi che chiedevano di lasciarli partire come missionari diceva “Si, si…”, ma poi cincischiava. Così prima che mi mettessero il “bollo” sulla testa (tonsura) io sono partito con grande sollievo dei formatori del seminario.
Sono stato subito accolto nel noviziato dei Missionari Comboniani a Firenze dove ho anche fatto il primo anno di teologia, poi sono passato a Verona per i seguenti tre anni di Teologia. E infine nel 1968 (entrando a far parte dei sessantottini della rivoluzione) ordinato a Catania con altri miei amici della diocesi. In seguito fui inviato a Troia (FG) come educatore nel seminario. Sono contento di quei tre anni perché almeno cinque dei ragazzi sono diventati comboniani.

Quale è stata la tua prima missione?
Dopo questo periodo come formatore finalmente i superiori mi destinarono alla Missione nell’allora Zaire. Come di regola avevo bisogno di imparare il francese, come lingua base, prima di partire e trascorsi un anno a Parigi. Nel 1972 eccomi infine a Kinshasa dove ho studiato la lingua Lingala. Nel gennaio del “73 a Mungbere, la prima missione…il primo amore. Il consiglio che davano i superiori a chi arrivava novellino in missione era: “ State zitti, vedete, imparate…per almeno due anni”. E proprio a Mungbere, con l’avvallo di padre Pasquale Palermo il parroco, che ho iniziato il servizio pastorale per i pigmei. Abbiamo accolto in missione una trentina di giovani pigmei per il catecumenato. I pigmei hanno uno spirito libero, e diversi andavano e venivano a loro piacimento. Giovani e vivaci gradivano mangiare bene tanto da darci problemi nel trovare il cibo sufficiente. Ma alla fine diversi di loro sono giunti a essere i primi pigmei battezzati nella parrocchia.
Trascorsi i due anni di lavoro, osservando, imparando e facendo silenzio…, fui spedito nella missione di Nangazizi a fare il viceparroco. Pensavo mi lasciassero tranquillo e invece arriva il provinciale a “rompere le uova nel paniere dicendomi che aveva bisogno di un “broussard”  per la missione di Rungu (la missione contava a quel tempo quasi un centinaio di cappelle le più distanti a oltre cento chilometri) perché andasse per i villaggi in foresta o savana per animare e seguire i cristiani. Siccome con mio padre ho imparato e mi sono allenato alla vita dura del lavoro nei campi, mi sentivo pronto a questo nuovo compito, ma ho chiesto che per almeno quattro anni fossi stato “lasciato in pace” a lavorare.
I superiori sono esperti a rompere le uova nel paniere. Toh che, solo dopo due anni, arriva P. Agostoni (P. Generale) in visita ufficiale. Ci si aspettava che prendesse qualcuno per il servizio in Italia, per cui cercavo di stargli alla larga ché non si ricordasse di me. Non sentendo il mio nome tra quelli che dovevano rientrare, ho avuto la cattiva idea i digli: “Grazie Padre!!!”, Non l’avessi mai fatto…. Mi disse: “Ancora non hai messo il cuore in pace???” Fregato… e meravigliato perché non avevo sentito il mio nome tra i predestinati.…. Sono finito a Messina per cinque anni a sostituire p. Pietro Lombardo al GIM (giovani impegno missionario). Molti ragazzi che abbiamo seguito sono entrati in vari istituti e ovviamente anche tra i comboniani. Tengo i contatti con molti di questi giovani che ora hanno vari impegni , ma sono tutte persone che lavorano con spirito missionario nel mondo di oggi, impegnandosi per i più poveri, per cui sono contento anche di questo periodo lontano dalla missione. Nel 1983, dopo qualche corso di formazione a Parigi anche per rinfrescare il francese, e nell’84 rieccomi nello Zaire come parroco nella Missione di Gombari, ultimo dei parroci missionari perché nell’88 la parrocchia è stata consegnata al clero diocesano.
Dopo essere andato per breve tempo a aiutare P. Romano a Tadu e le vacanze in Italia, ho saputo che P. Pietro Lombardo, che era impegnato tra i pigmei era partito lasciando il vuoto. Mi sono subito offerto ed eccomi con P. Guarda Lwanga a Bangane (diocesi di Wamba) per continuare l’opera di P. Pietro. Avevamo deciso di fare la nostra abitazione in stile povero vicino alla strada principale per renderci visibili.
Per ventisette anni mi sono occupato dei pigmei. Già dal ’93 ho fatto capire ai pigmei che la cosa principale per i loro bambini era la scolarizzazione. Mi rendevo conto che la scuola tradizionale con classi nei villaggi non avrebbe funzionato. Ho pensato che la cosa migliore da fare per aiutare veramente i bambini a seguire le lezioni era fare un collegio dove i bambini fossero assieme, fossero controllati, avessero un letto, vestiti, cibo e cure. I Pigmei si dissero d’accordo per lasciare che i loro figli venissero in missione. Ho detto che era loro compito fare le capanne per accoglierli. I pigmei sono stati esemplari nel collaborare e nel fare le prime costruzioni, umiliando tutti i bantu di Mungbere; un primo gruppo di pigmei ha procurato diversi camion di materiale per la costruzione: tronchi, corde, canne, paglia per i tetti, poi con un altro gruppo di oltre 200 pigmei in due settimane abbiamo costruito e completato tutti i locali delle capanne pronti per accogliere i bambini. Al collegio venne dato il nome di Internato Bakanja.

La gente bantu cosa pensava dei pigmei e che rapporti ha con loro?
La gente comune considerava i pigmei come animali della foresta (nyama), da sfruttare per il lavoro. Ciò vuol dire che per la gente i pigmei non sono uomini. Questa mentalità non è stata ancora eradicata. I pigmei fuori dal loro ambiente hanno bisogno di appoggio, e per le famiglie che li sfruttano per i lavori, li considerano “cose” che appartengono alla famiglia. I pigmei non rifiutavano queste situazioni perché per loro importante era per prima cosa avere di che mangiare. I lavori pesanti erano quindi scaricati sulle spalle dei poveri pigmei che come paga ricevevano o “masanga” (bevande alcoliche), o con “bangi” (droga), o con qualcosa da mangiare (banane, riso, manioca…). In quegli anni non c’era pigmeo che avesse un nome, che avesse importanza davanti allo Stato. Pur dichiarando i pigmei come primi cittadini (cioè primi abitanti di questo Stato) nessuno si era preoccupato di fare un censimento e registrarli con i dati anagrafici.

Chi ha iniziato un lavoro serio in questo senso?
Il merito va senza dubbio a P. Pietro Lombardo, che dopo essersi ben preparato con dei corsi a Parigi per conoscere la realtà dei pigmei, e aver acquisto le tecniche necessarie per valutare la cultura e iniziare delle azioni concrete per dare dignità e rispetto a questo popolo, si è impegnato da vero bulldozer vivendo con i pigmei, aiutandoli a superare la paura nei confronti dell’uomo bianco e facendoli uscire dalla foresta. Così nel 1984 ha dato inizio a una battaglia per far si che la gente locale riconoscesse dignità, rispetto e diritto a un posto nella società, per il popolo pigmeo.
P. Pietro insisteva su: Primo i pigmei sono figli di Dio come noi (e questo ci fa fratelli tra noi). Secondo: Voi non avete diritto di sfruttarli , di strozzarli, di imbrogliarli e avvelenarli con l’alcool e la droga. P. Pietro ha iniziato una guerra vera e propria per scuotere i differenti gruppi bantu, una guerra che è lontana dall’essere finita. Lui poi partì verso un’altra missione tra i pigmei nella diocesi di Butembo.

E tu come hai condotto la battaglia?
Da Mungbere il mio impegno tra i pigmei si spingeva verso Est fino e oltre Socopa (missione di Gombari da cui ottenni l’accordo del parroco). Aprii delle scuole per i bambini pigmei, poi mi diressi a sud verso la missione di Nduye. I pigmei apprezzavano la mia presenza sia perché scolarizzavo i bambini, sia perché garantivo le cure mediche e soprattutto perché li difendevo con grinta dalle ingiustizie. Diversi pigmei scappavano da situazioni di ingiustizia e si rifugiavano negli accampamenti di altre collettività dove li difendevo. Il capo di collettività di Nduye visto questi esodi, mi accusava dicendo: “Tu hai rubato i nostri pigmei”. Fui difeso dal Commissario di zona di Mambasa che disse al capo: “ Il lavoro che sta facendo P. Franko è formidabile, dovete aiutarlo”. Così le lotte del capo contro di me sono sfumate. Il capo di Socopa, mi accusò dal Commissario di Distretto di Isiro, dicendo che: “Affamavo i pigmei riunendoli in accampamenti”. I pigmei che non avevano più i padroni bantu si sentivano liberi e non avendo il senso della proprietà privata andavano a rifornirsi di prodotti nei campi altrui. Mi sono presentato per difendermi dicendo che stavo facendo il censimento dei pigmei e fornendo loro delle Carte di Cittadino (carte d’identità anche se non legalizzate). Appoggiò la mia iniziativa mandando una lettera al capo di Socopa, dicendogli di aiutarmi, di non ostacolare la mia azione e di legalizzare la carta d’identità apponendo il timbro della collettività. Il capo, che perdeva manovalanza gratuita, dovette abbassare le orecchie e finire di mettermi i bastoni tra le ruote.
C’è stata poi una difficoltà con i superiori, che vanno si rispettati ma “cum grano salis”. Nel 1996, l’internato (collegio, convitto) per i pigmei di Mungbere funzionava da tre anni. Arriva il Padre Provinciale fresco di nomina, che su due piedi mi dice alla Manzoni : “Questo matrimonio non s’ha da fare… pardon… questo internato va chiuso!”. Gli domando di dirmi le ragioni. Mi risponde: “Tu strappi i pigmei dal loro ambiente, e poi l’internato costa troppo”. Gli ho detto:” Ritengo la scuola fondamentale per dare avvenire e dignità ai pigmei. Senz’altro non saranno più come i loro genitori, perché la scuola cambia la testa, apre gli occhi, fa vivere in modo nuovo la situazione sociale dei pigmei oggi. Hanno diritto alla scuola, altrimenti resteranno le bestie della foresta come molta gente li considera. In quanto al “costa troppo”, amici sensibili e benefattori hanno sempre sostenuto anche economicamente questa iniziativa. Non ho creato questo di testa mia senza l’accordo della comunità e della provincia, ho un lettera con l’accordo formale per la creazione dell’Internato del precedente Padre Provinciale”. Ma non è che le mie osservazioni abbiano cambiato le sue idee, tanto che nell’ottobre di quel anno ci arrivò l’ordine di chiudere l’internato.
Maestri e pigmei erano decisi a continuare e avrebbero incontrato loro stessi il Provinciale, (che doveva arrivare in visita ufficiale in dicembre 1996) per manifestare il loro disaccordo sulla sua decisione e la necessità di continuare con questa importante iniziativa. Intanto era scoppiata la guerra che avrebbe scalzato definitivamente il presiedente Mobutu. E proprio in dicembre arrivarono fuggendo l’avanzata delle FDL di Kabila padre, i primi militari di Mobutu in ritirata, quelli terribili della “banda rossa”. Per mantenerli calmi e evitare danni alla gente e alla missione, abbiamo fornito carburante per i mezzi che dovevano trasportali verso Isiro. Erano circa quattro mila. Poi le retroguardie hanno saccheggiato anche la missione e l’ospedale. Questi primi militari in fuga hanno creato il finimondo a Isiro. Il provinciale ovviamente non è più potuto venire a Mungbere. Molti missionari sono stati evacuati verso la capitale. Noi, come altri confratelli di altre missioni ci siamo detti: “Noi restiamo!”
Verso aprile 1997 sembrava che la situazione si stesse calmando, i missionari erano di ritorno. Nel maggio del ’97 a Kinshasa c’è stata la presa di potere di Laurent Kabila, con la fine del regno di Mobutu. In quei giorni fu eletto il nuovo Vescovo della diocesi di Wamba, Mons. Janvier Kataka.
Mons Mbogha, Vescovo di Isiro e amministratore apostolico della Diocesi che veniva sostituito da mons. Kataka stava recandosi ad accoglierlo. Ho chiesto di accompagnarlo per salutare il nuovo vescovo di Wamba. La macchina della Diocesi inviata per andargli incontro, visto le “belle condizioni” delle strade ha rotto la barra di direzione. Perciò Mons Kataka ha dovuto essere trasportato in moto fino dove lo attendevo con la macchina di Mons. Mbogha. Arrivata la moto, è subito ripartita per andare a prendere il Vicario Generale. Per fare 20 chilometri tra andata e ritorno impiegò ben tre ore. Solo con mons Kataka, ebbi quindi la possibilità di fare una lunga catechesi sulla pastorale dei pigmei dicendo che era indispensabile fare una Pastorale d’insieme con bantu e pigmei perché siamo una sola famiglia (la Chiesa) e tutti figli di Dio con la stessa dignità. Mons Kataka rimase impressionato dalla mia catechesi. Giunti a Wamba, assieme a Mons. Mbogha, venuti a conoscenza della mia situazione di crisi col mio provinciale i due Vescovi si sono messi d’accordo per chiedere il sottoscritto P. Franko per organizzare la Pastorale Pigmei in tutta la Diocesi.
Ormai la situazione dopo la guerra era calma. Il provinciale per togliermi dai piedi mi inviò in vacanze e anche a Gerusalemme per un paio di mesi di studi biblici, sperando in una mia conversione… non credo che il suo intento sia riuscito. Al rientro sono andato in Camerun per incontrare un fratello che aveva creato un metodo magnifico per la scolarizzazione dei pigmei, e per tre mesi sono stato alunno tra gli alunni. Ho seguito il metodo ORA (osservare, riflettere, agire) per introdurlo poi in Congo. Ho stampato ben nove tonnellate di libri affinché almeno ogni due alunni potessero avere un testo in mano. E infine rieccomi non più in Zaire, ma nella Repubblica Democratica del Congo, sotto un’altra bandiera. Cambiano i tempi, cambiano i nomi, la realtà resta la stessa e i politicanti continuano a fare “in primis” i loro interessi. E dal 30 aprile 1999 eccomi a Wamba, incaricato come responsabile diocesano della Pastorale dei pigmei.

Da quanto so, in quel periodo sei finito negli artigli dei militari.
Nel 2001 è ripresa la guerra. I militari di Kabila padre sono partiti da Isiro per andare verso Butembo a combattere i soldati di Nyamusi, un forte contingente passando da Mungbere e un altro gruppo scendendo verso Wamba, Nyanya e Mambasa per riconquistare Beni dove si era installato un altro governo di congolesi. Era Natale. Il Vescovo ha pensato in occasione del Natale era bene cercare di consolare i Cristiani dopo il passaggio dei militari. Ha mandato due équipes di volontari, Una verso Nya-nya e l’altra con me e il mio coadiutore verso Nduye e Mambasa . Una nostra équipe è andata verso Nyanya senza trovare ostacoli. Io con il sacerdote collaboratore della Pastorale, siamo andati verso Nduye per scendere poi a Mambasa, credendo che i militari si fossero allontanati. Noi dovemmo percorrere alcune centinaia di chilometri. La strada tra Apodo e Mambasa era un disastro. Tanto per capire le difficoltà: per fare gli ottantacinque chilometri che separano Ndingbo da Nduye abbiamo impiegato tre giorni con le moto. C’era una infinità di alberi caduti e bisognava tagliarli e aprirsi un varco o cercare di fare delle deviazioni in foresta. Spingere la moto, sollevarla, farla passar sotto gli alberi trascinandola, una fatica da impazzire e rompere la schiena. Arrivati a Mambasa troviamo la missione dei padri Dehoniani tutta distrutta. Tutti erano scappati e non c’era più gente. L’abbé Justin è andato a cercare un po’ di riso e di olio per aver qualcosa da mangiare, e a cercare di trovare dei giacigli che ci permettessero di trascorrere la notte. Il povero abbè Justin incappò subito nei militari che lo fecero prigioniero e portato a quattro chilometri, alla sede del loro comando.
I militari poi sono giunti in missione e hanno fatto prigioniero anche me, e presa la moto mi hanno portato al comando. Era arrivato Natale e mi sono presentato al colonnello e gli ho detto;” E’ Natale, lasciateci andare a confessare e celebrare la Messa per i cristiani…”. Mi ha guardato storto e mi ha detto : “Di qui non si muove nessuno.” Così abbiamo trascorso il Natale senza Messa né per noi né per i cristiani che ancora c’erano in zona. Tutti i militari erano lì al campo con le loro donne o concubine che fossero.
Il 26 dicembre, tutti si sono messi in marcia, portandoci con loro. Le donne portavano in testa le casse di munizioni e bombe. Dopo sessanta chilometri siamo arrivati a Lwemba. Il Colonnello ci diceva: Voi non siete prigionieri. Vi abbiamo preso perché restare a Mambasa era pericoloso, ci sono i nemici che avanzano. Noi vi difendiamo”. Sapeva girare bene la frittata, fingendosi benefattore. Era un tipo meraviglioso tanto da essere comunemente chiamato: “il re degli imbecilli”. Mi hanno detto che, poveretto, è morto. Per fortuna dall’altra parte ha trovato Dio che è misericordioso. L’indomani altri venti chilometri in marcia a piedi verso Beni. Se lungo la strada c’era stata battaglia, al mattino camminando trovavamo i cadaveri abbandonati e con tagli sulla faccia e sulle cosce. Dicevano che i militari succhiavano il sangue dei morti per prendere il loro spirito. Oltre a tagliuzzarli in faccia e sulle cosce, li eviravano e di questi “aggeggi” ne facevano delle collane non per “questi militari” ovviamente…. peggio che al tempi di quel re Davide che collezionava i prepuzi dei nemici. In questa guerra e in quella successiva, ci sono state cose orribili e sconvolgimenti, che non racconto Una realtà schifosa, macabra, rivoltante, commessa verso altri fratelli congolesi. Non riesco a cancellare dalla memoria queste sconvolgenti immagini e l’odore della carne marcia. Mi rivoltava lo stomaco e l’anima. Non potevo insultarli. Bastava poco per fare la fine dei nemici. Arrivati nel villaggio di Makumu si fa sosta. Dicono che ci sono delle trattative a Gbadolite per accordarsi con i mobutisti. Restammo in attesa. I militari cominciavano a essere malcontenti e delusi perché sfumava la possibilità di saccheggiare Beni. In vista dei nuovi saccheggi, i militari avevano abbandonato lungo la strada tutte le cose rubate alla gente perché pensavao che a Beni avrebbero trovato di più e di meglio. Ma ora si prospettava un echec totale. Il due e il tre gennaio ci sono stati attacchi che hanno portato alla decisione di fare dietrofront, e ritornare verso Mambasa.
Bisogna dire anche che il colonnello era anche un pastore protestante e prima di ogni battaglia faceva pregare i suoi militari perché vincessero sui nemici che erano i suoi stessi fratelli congolesi. A sei chilometri dall’arrivo sono arrivati dei mezzi della Monusco (Onu) che ci hanno riportato nella missione distrutta. Qui a Mambasa arrivava di tanto in tanto il “signore” della guerra, Lumbala il quale un giorno mi disse: “Padre se vuoi venire ti riportiamo a casa in elicottero…”.gli ho risposto: “me ne frego del vostro elicottero, io rivoglio indietro la mia moto”. Non si sono fatti pregare e pur di togliermi dai piedi. mi hanno restituito subito la moto che era in condizioni pietose tanto che ci sono voluti due giorni per rimetterla in condizioni di riportarmi a casa. A Mambasa fui anche intervistato e mi chiesero se avessi visto tra i militari gente che ha “mangiato” i pigmei. Ho risposto che non avevo visto niente, ma ho detto che dal comportamento selvaggio che ho constatato tra di loro, può darsi che abbiano potuto fare anche questo (In effetti si parla di questo orrore nei villaggi di Andisende e Some).

P. Franko mi ricordo che quando un nostro confratello ha saputo che eri stato fatto prigioniero ha commentato: “Poveri militari non sanno che grana si sono tirati addosso…” . Rientrando immagino che tu ti sia messo al lavoro come un bulldozer per scolarizzare i pigmei…
Pensavo di ritrovare un po’ di calma ma nel 2003 i militari sono venuti di nuovo a tormentare la gente e a rubare. Sono entrati nella strada di Mulei che porta a diversi accampamenti dei pigmei con la scusa che c’erano dei bracconieri (cosa che di per sé era vera) e in questo villaggio di foresta distante da Mungbere trentacinque chilometri, hanno arrestato molta gente e li fecero camminare fino a Mungbere. Vedendoli passare li ho interpellati per sapere la ragione per cui venivano portati in prigione a Apodo (venticinque chilometri oltre Mungbere). Cerano anche donne e donne incinte che avevano fatto tutto il percorso a piedi. Ho chiesto ai militari che li giudicassero lì a Mungbere dove c’erano tutte le autorità, senza obbligarli a farsi a piedi i venticinque chilometri restanti. I militari scocciati mi risposero con un “No” che non ammetteva discussioni. Sono partito sparato dal Capo di Collettività (autorità tradizionale) chiedendogli di intervenire. E’ salito in macchina e siamo andati a prendere anche lo “Chef de Poste” (autorità statale). I membri della Società Civile erano già lì per protestare per i soprusi dei militari. I militari avevano rubato alla gente televisioni, moto, capre, galline e via dicendo. Nel frattempo una figlia “stupidotta” del capo era andata dal comandante dei militari per dire che P. Franko aveva sequestrato il capo. Sono subito giunti sei militari armati di tutto punto hanno circondato la capanna dove eravamo radunati, e sparato in aria. Tutti hanno panicato e sono scappati, mentre io solo restavo tranquillamente seduto. Un militare entra e mi intima di alzarmi. Gli dico: “perché dovrei alzarmi? Noi qui stavamo discutendo tranquillamente e tu arrivi con violenza a “romperci le scatole”. Si è avvicinato e con il calcio del fucile mi ha dato una legnata facendo saltare gli occhiali che si sono rotti, salve le lenti. E poi una botta sulla spalla e sul braccio. Mi dice: “Sei prigioniero, Sali in macchina!”. E io di rimando: “In macchina? Io da solo non ci entro: che il chef de Poste e il Capo di collettività salgano con me…” E’ entrato il Chef de Poste e qualche altra persona e siamo stati portati dal loro comandante militare, e con lui ci siamo diretti verso Apodo.
Sulla strada incrociando gli altri prigionieri, scortati dai militari con anche delle capre rubate, ci siamo fermati e tutta la gente, capre comprese, si sono “insardinati “ all’inverosimile nella macchina. Ad Apodo dopo una lunga attesa, arriva finalmente il comandante che da gran spaccone si siede sul tavolo e comincia a giudicarci con aggressività. Intanto qualcuno aveva avvertito il parroco della missione di Mungbere, padre Desiré, che ero stato imprigionato ed è venuto subito in nostro aiuto. Il comandante mi chiese il passaporto e cinquecento dollari. P. Desiré ritorna a Mungbere prende passaporto e dollari e ritorna. Dopo le trattative il comandante accetta duecento dollari e mi ritira il passaporto, ce la caviamo alle dieci di sera. L’indomani abbiamo fatto ricorso facendo messaggi a Isiro, da dove è arrivato l’ordine per il comandante di restituire il passaporto e i soldi. Per il passaporto non hanno fatto problemi ma i soldi erano già spariti.
Dopo alcuni mesi il comandante fu chiamato a giudizio per i soprusi che aveva fatto. Si sono raccolte testimonianze e accuse. Coloro che erano stati derubati chiedevano o la restituzione o il risarcimento. Ma il giudizio è stata una farsa, che si è ripetuta un anno dopo con un altro giudizio. Il comandate imputato era andato in un’altra città a ritirare il suo salario, sembrava quasi un premio per le sue malefatte. Io ed altre persone ci siamo rifiutati di dare altre testimonianze, dicendo che. “Ci prendete in giro. Mangiate i soldi dei finanziamenti della Monusco e di altre società per fare teatro”.

Se ricordo bene avevate organizzato una bella iniziativa per dare vissibilità alla società della realtà dei pigmei…
Il 21 Aprile del 2005, abbiamo organizzato una “Marcia Pacifica per i Diritti dei Pigmei” a Isiro. Sono venuti da diversi accampamenti duemilacinquecento pigmei, facendosi a piedi anche trecento chilometri e c’erano papà, mamme, scolari e bambini. Era la prima manifestazione del genere nel mondo. La gente ne era rimasta colpita. Direi che è stato un primo successo che ha scosso le coscienze a proposito dei diritti e della dignità di questo popolo.

Nel 2007 abbiamo poi partecipato al primo “Forum degli autoctoni” a Impfondo ( Congo-Braza). In quell’occasione due dei nostri pigmei sono stati ricevuti dal ministro dell’Educazione a Kinshasa.

Che consigli dai ai superiori per la pastorale per i pigmei?
La pastorale dei pigmei è una pastorale non adatta ai “signorini” debolucci di stomaco e con la puzza sotto il naso. E un servizio duro , in cui bisogna allenarsi, avere una buona schiena, una salute di ferro, una adattabilità fuori dal comune, una pazienza a prova di nervi e come dicevo, un buon stomaco. Non è riposante dormire nelle piccole e basse “huttes” dei pigmei, ti alzi al mattino più stanco di quando ti sei coricato. Spesso ti trovi in compagnia di topi e altri animalucci. Un esempio: Porto l’apparecchio acustico; la notte per evitare di perderlo lo infilo assieme agli occhiali negli scarponi. Toh che una mattina non lo trovo più. Ho capito subito che il topo, che avevo sentito far rumore vicino al pagliericcio, se l’era portato via. Ho messo sotto sopra la capanna, trovando molte tracce della sua incursione ma nessuna traccia dell’apparecchio. I pigmei mi sono venuti in aiuto scavando le gallerie del topo fino a trovare la sua tana, e anche qui niente apparecchio ma bensì una nidiata di piccoli topi. Ne hanno fatto una strage per vendetta. Addio apparecchio, mai più ritrovato. E poi le marce non facili tra i grovigli e i trabocchetti della foresta. Bisogna poi avere il coraggio di prendere le difese per combattere le ingiustizie, soprattutto contro chi ha potere e schiaccia la gente, rischiando la prigione, e mettendo a prova la salute ma restando sereni e decisi. Per cui ho detto ai superiori di non attendere che uno soccomba, ma di scegliere già qualcuno che possa affiancarlo e prendere poi “la relève”. Ma i superiori in “altre faccende affaccendati” e impantanati in altre preoccupazioni stentano a trovare giovani sostituti e sovraccaricano chi ha già altri impegni. La pecca che poi risulta dall’esperienza è che ognuno vuol fare di testa sua senza tener conto della esperienza passata, così non c’è una linea comune da seguire. Si passa al “bricolage apostolico”.

Quale è stata la tua politica per la scolarizzazione dei pigmei?
Dal “99 ho iniziato un lavoro sistematico per le scuole e nei primi sei mesi ho dato inizio a centoventicinque classi per i pigmei, arrivando poi a circa trecento classi con un numero di cinquemila bambini pigmei iscritti e venti direzioni scolastiche. Circa tremila arrivano alla fine dell’anno scolastico perché i pigmei hanno uno spirito libero e non vogliono costrizioni di sorta. I risultati andavano bene così, ci voleva tempo e pazienza. E tutto è andato avanti bene e nel 2009 ho consegnato l’impegno al sacerdote diocesano che aveva lavorato con me durante cinque anni, e che avrebbe continuato l’opera. Mi sono spostato nella parrocchia di Maboma dove potevo seguire altre comunità di pigmei. Dopo cinque mesi di lavoro senza risparmio, non riuscivo più a camminare a causa di danni alla colonna vertebrale. In Italia ho subito l’intervento alla colonna che ha liberato i nervi da tre vertebre che li schiacciavano. Da allora lavoro di nuovo tranquillamente ma con la clausola di non usare la moto, quindi ho dovuto lasciare Maboma dove gli spostamenti potevano essere fatti solo in moto. Ritornai quindi a Mungbere, la missione di partenza e qui lavorai ancora per i pigmei dal 2010 al 2018.

Quali sono i risultati che metteresti in risalto?
Quelli scolastici sono evidenti sia per il numero degli allievi che sono stati scolarizzati e che hanno completato la scuola elementare. Ci sono una quindicina di maestri pigmei che hanno ottenuto il diploma di stato e che insegnano. A livello sanitario tre sono tecnici di laboratorio e due infermiere. Abbiamo dei giovani falegnami, o meccanici e delle ragazze che hanno fatto corsi di taglio e cucito.
Dal collegio Bakanja a Mungebre sono passati 850 ragazzi pigmei che ora sanno leggere scrivere anche in francese. Sapranno difendersi e farsi rispettare. Il “”top” l’abbiamo raggiunto con uno dei nostri pigmei che è al quinto anno di Università a Kisangani, per la laurea in Sociologia.
Ne sia lode a Dio, e a chi generosamente ci ha aiutato, e Viva il popolo dei Pigmei.

E in questi giorni?
Ho avuto modo di visitare diversi accampamenti, ho visto che la situazione invece di migliorare è stata lasciata regredire, e mi è dispiaciuto molto. Tra i pigmei ce ne sono una quindicina, diplomati che insegnano nelle scuole e che nonostante siano state presentate domande e incartamenti perché siano riconosciuti e stipendiati dallo stato come insegnanti di ruolo, niente è stato fatto, la documentazione è sparita e anche i soldi di cui avevano diritto. Ritornato a Isiro sono andato dalle autorità scolastiche delle regione per protestare. Accolto con deferenza e ascoltato hanno iniziato a farmi le solite promesse condite di moine. Ho alzato il tono dicendo: “riporterò tutta la documentazione perché gli insegnanti siano riconosciuti e passino di ruolo con stipendio. Non aspettatevi che creda alle vostre belle promesse. Voglio vedere i fatti. Terrò il fiato sul vostro collo. Sarò ora nella Capitale e se ci sarà bisogno vi denuncerò presso i vostri capi e vedremo chi l’avrà vinta…”. Mi aspetto anche che i superiori prendano a cuore l’impegno per i pigmei e scelgano persone capaci di impegnarsi con grinta e dedizione in loro difesa.

P. Franko si avvicina agli ottant’anni, e pur essendo ora lontano dalla vita della foresta, conserva lo stesso spirito da guerriero con una carica vitale eccezionale . Non demorde, e ha molto da dire e insegnare. Tutti gli anni di esperienza tra le ingiustizie fatte ai pigmei lo hanno reso ancor più sensibile e combattivo. Ci possono essere diverse metodologie di fare l’apostolato tra i pigmei, p. Franko ne ha scelto una che a suo avviso era la migliore e spera che chi lo sostituisce continui a seguirla. Lui è stato e resta coerente con la linea pastorale scelta e confrontata con altre esperienze in altri paesi (Camerun, RCA), ha combattuto contro i soprusi della gente e soprattutto delle autorità contro i pigmei. Non ha alzato mai “bandiera bianca” e mai abbassato né occhi né orecchie, non si è conformato per “quieto vivere”, ha affrontato senza paura mille difficoltà e mille disagi. Un vero “Rambo” per i pigmei. Cosa ci racconterà nel libro che è obbligato a scrivere per obbedienza?

Fratel Duilio Plazzotta, comboniano