Omelie domenicali
P. Luigi Consonni
P. Luigi Consonni è stato missionario in Perù e Brasile. È in Italia (Como-Rebbio) dal 2009
Questa domenica
27ª domenica T.O. Anno B (06.10.2024) LC
Prima lettura (Gen 2,18-24)
Il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda».
Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse.
Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo.
Allora l’uomo disse:
«Questa volta
è osso dalle mie ossa,
carne dalla mia carne.
La si chiamerà donna,
perché dall’uomo è stata tolta».
Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne.
“Non è bene che l’uomo sia solo”. Dio desidera il meglio per l’opera delle sue mani. Lasciare l’uomo solo non è raggiungere l’obiettivo di vita piena e di gioia, pertanto: “voglio fargli un aiuto che gli corrisponda”, altrimenti rimane isolato e infelice.
La solitudine è parte della realtà umana, e condizione di comunione con altri. Solitudine e comunione sono due lati della stessa moneta. La solitudine – non l’isolamento – è necessaria per la vera e solida comunione, e quest’ultima esige l’accoglienza e la corretta gestione della solitudine.
Dio completa la carenza che l’individualità contiene in sé stessa e, dopo aver creato gli animali e gli uccelli, “li condusse all’uomo per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato degli esseri viventi quello doveva essere il suo nome”, e conferisce all’uomo superiorità e potere su di loro. Secondo la cultura di allora, conoscere il nome è condizione per dominare e disporre del conosciuto, secondo i propri criteri e la propria volontà.
Se da un lato Dio conferisce tale potere, dall’altro emerge l’impossibilità di raggiungere l’obiettivo perché “l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse”. Ne segue un principio fondamentale del corretto vivere umano: dominare e possedere non è il bisogno dell’uomo per vivere bene la solitudine. Quest’ultima, finalizzata a sé stessa, è isolamento.
Tuttavia, il dominio e il possesso segnano profondamente l’essere umano. Per molti sono l’elemento principale del vivere, motivo di seduzione molto forte, affascinante per la superiorità, il successo, il comando e sottomissione di persone alla propria volontà, per l’uso strumentale e l’averne a disposizione per scopi irraggiungibili. È il fondamento della falsa e ingannevole comunione.
Il rapporto fra chi possiede e l’altro che non ha nulla stabilisce il dislivello che rende impossibile il rapporto di complementarità e di fraternità, e instaura la dipendenza, la sottomissione e il dominio. La circolarità del rapporto si ripropone con la malsana relazione con altri.
L’antidoto al desiderio di possesso è costituito dal non perdere di vista il dono della vita, realtà gratuita, donata senza alcun merito. Il donante non richiede alcun ritorno perché, felice nel donare, gioisce nel trasmettere vita. Nel caso richieda la riconoscenza, perde il valore di dono e si declassa come scambio. Tale aspetto è poco preso in considerazione e facilmente messo da parte, anche perché l’affanno di sicurezza nel possedere suscita la gelosia, con conseguenze deplorevoli.
Dio procede su un altro piano e crea un essere di pari dignità. All’uomo “gli tolse una delle costole (…) e formò con la costola (…) una donna e la condusse all’uomo”, non per dargli il nome e dominare su di lei, ma per riconoscere ciò di cui ha bisogno. Non si tratta di una copia carbone, ma di un soggetto diverso con affinità molto grande, al punto che l’uomo esclama con entusiasmo: “Questa volta è ossa delle mie ossa, carne della mia carne”.
L’uomo è attenzionato a non farne un possesso perché svuoterebbe la dignità della donna e la propria. I due sono dono di Dio, dono uno per l’altro. Mantenersi nel dono è rimanere in Dio.
La crescente purezza del dono libera gradualmente dalla bramosia del possesso, dalle nefaste conseguenze, e rende sempre più evidente la qualità del rapporto. In altre parole, emerge nella purezza la trasparenza di Dio – come la filigrana del francobollo che in controluce (o meglio nella luce) ne conferma l’autenticità – e con essa, la pienezza di vita del rapporto. Nel momento in cui prevale il dominio, o il possesso, scompare la trasparenza e il rapporto in breve tempo è insostenibile.
Il dono fa sì che “Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne”. Esso è più forte dell’affetto profondo verso i genitori. Questi ultimi sono posti in secondo piano, pur non escludendo l’attenzione necessaria nel momento del bisogno. Nel donarsi reciprocamente, l’uomo e la donna realizzano l’unione singolare ed unica, che consente di sentirsi come una sola realtà, pur nella diversità. L’unione non sopprime le diversità, né cancella la solitudine.
È per la pratica del dono reciproco, nella libertà e gratuità – la dinamica dell’amore – che il dono si estende ai figli e, come una spirale in costante espansione, abbraccia l’umanità intera, come parte viva, fautrice di solidarietà e attenzione responsabile.
La dinamica propria del dono è partecipazione alla realtà di Dio: dono per eccellenza per l’umanità. Essa si manifesta nella persona di Gesù Cristo, come insegna la seconda lettura.
Seconda lettura (Eb 2,9-11)
Fratelli, quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti.
Conveniva infatti che Dio – per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose, lui che conduce molti figli alla gloria – rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza.
Infatti, colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli.
Il testo presenta Gesù come una persona comune. Il salmo 8 – “fu fatto di poco inferiore agli angeli” – evidenzia la sua condizione umana. Pertanto in Lui ogni essere umano trova il fratello e il compagno di viaggio.
Ebbene, l’autore afferma che ora “lo vediamo coronato di gloria e di onore”; un’esistenza pienamente realizzata, partecipe della gloria senza fine e onorata per aver introdotto la vita umana nella comunione trinitaria. Con queste parole indica la meta di ogni persona e l’obiettivo dell’umanità: la loro divinizzazione.
Ha raggiunto la meta “a causa della morte che ha sofferto” per la fedeltà e la determinazione all’obiettivo della missione. La causa della morte è la fedeltà all’avvento del Regno di Dio, cammino di verità e di vita, testimoniata con la consegna di sé stesso.
Il motivo di quanto successo è “perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti”. Non si tratta della morte in sé stessa, ma della manifestazione tenace e ferma dell’amore, della causa del Regno, che neanche la prospettiva della morte ha smosso o sminuito perché, quale rappresentante di tutti gli uomini di ogni tempo, il suo sacrificio è redenzione e rigenerazione per il fedele nel cammino all’insegnamento e alla pratica da lui tracciato.
Dopo matura riflessione dell’evento Gesù Cristo, l’autore sintetizza l’importanza e la profondità, con un’affermazione di grande respiro: “Conveniva, infatti, che Dio (…) rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza”. Quello che, in un primo momento, sembrava assurdo per lo sconcerto e lo scandalo, ora è percepito come conveniente. Un rovesciamento totale!
“Conveniva” a ogni persona e all’umanità di tutti i tempi che Dio manifestasse Gesù come Egli è, attraverso l’azione che “conduce molti figli alla gloria”, manifestazione della santità di Dio che coinvolge nella comunione con sé le persone che partecipano della dinamica dell’amore insegnata e vissuta dal Figlio.
Tutto ciò perché loro abbiano vita in abbondanza e consolidino il loro vissuto nell’avvento del Regno di Dio. La gloria di Dio è l’uomo vivente, e la vita dell’uomo è lodare Dio per partecipare di essa, come afferma la bellissima espressione di S. Ireneo.
Il popolo infedele all’alleanza abbandonò il cammino e si auto-condannò. La fedeltà di Dio, motivata dall’amore tenace e persistente nel compimento della promessa, ritiene conveniente che “rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza”. “Conveniva” – era opportuno, certo e giusto – per la salvezza dell’umanità che il Figlio, la cui incarnazione è inizio al processo di salvezza, consegnasse sé stesso “per mezzo delle sofferenze” generate dal ripudio.
Non si tratta di mera e inutile sofferenza, come se fosse necessario un castigo riparatore, ma della grandezza e profondità dell’amore che insegna il cammino della salvezza senza rinnegarlo o deviarlo per compiacere i destinatari. Anzi, per amore agli stessi, ritiene doveroso rimanere saldo e fermo a qualunque prezzo, anche della vita.
Non si tratta di orgoglio che non vuol cedere, ma della consapevolezza di rappresentare tutta l’umanità per cui, resistendo fino alla fine, riscatta dal falso cammino e dalla sfiducia nei suoi confronti chi lo condannava. Paradossalmente la sua morte diventa giustificazione davanti al Padre per costoro, e per tutti quelli che crederanno in lui.
Così l’umanità, davanti a Dio, è oggettivamente redenta. Soggettivamente lo è per la fede escatologica nel Figlio a favore della causa del Regno. L’elemento propriamente salvifico non è la sofferenza ma l’amore disinteressato, senza seconde intenzioni, che lascia completamente liberi i destinatari di accoglierlo o meno.
La convenienza è determinata dal fatto che, con l’evento, “colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli”. Dal punto di vista umano come può chiamare fratelli gli stessi che l’hanno crocefisso? Farlo comporta esporsi all’ironia e a considerazioni anche peggiori. Tuttavia, costoro sono nell’ambito Trinitario come giusti, non per i loro meriti, ma resi tali gratuitamente.
Risalta quindi che “la stessa origine” è causata dall’amore. Dio è amore, la stessa realtà che giustifica il crocifissore di Gesù. Il punto di osservazione è Dio stesso, quello che Lui è, e trasmette all’umanità il dono di sé: l’amore nella forma più elevata. È l’ottica nella quale leggere il vangelo.
Vangelo (Mc 10,2-16)
In quel tempo, alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie. Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla».
Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto».
A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento. E disse loro: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio».
Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono. Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro.
I farisei, nel mettere alla prova Gesù, gli domandano “se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie”, pur sapendo che il sì della risposta era scontata. Domandano perché Gesù parla di questo amore e non distingue tra uomo e donna. Costoro vogliono portare Gesù in questo ambito indiscusso del potere dell’uomo, del marito sulla moglie.
E Gesù non risponde, ma fa un’altra domanda. “Che cosa vi ha ordinato Mosè?”. È strano che Gesù non dica “cosa ci ha ordinato Mosè”, dato che Gesù era ebreo. Ma Lui prende le distanze dalla legislazione di Mosè dato che, per Gesù, non tutto quello che è scritto nella legge, a cui si attribuisce autorità divina, è realmente tale: in parte è un cedimento alle perverse inclinazioni umane.
Essi risposero: “Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla”. Gesù risponde loro: “Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma”. Il cuore, nel concetto del mondo ebraico, non è la sede degli affetti ma la testa, la mente, il progetto della società alternativa.
Cos’è che fa sì che il cuore umano diventi di pietra? È non ascoltare, o farlo superficialmente senza meditare, approfondire l’insegnamento e, meno ancora, assumere il comportamento adeguato e responsabile in ordine all’avvento del Regno di Dio.
Di conseguenza la persona gravita attorno a sé stessa, è autoreferenziale, pone come asse della propria vita le proprie idee, le conoscenze, le emozioni che formano un recinto invalicabile. La conseguenza diventa sorda e disinteressata alla voce del Signore e ai suoi precetti, nella misura in cui essi non corrispondono alle proprie attese.
Continuando la discussione, Gesù prende le distanze. Mentre i farisei si rifanno a Mosè e al Dio della legge, Gesù si rifà al libro del Genesi, quando all’inizio della creazione Dio li fece maschio e femmina: “Ma dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque, l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto”.
E Gesù omette il versetto del Genesi sulla fecondità. Per Gesù quello che importa è l’unione tra l’uomo e la donna, l’amore che li rende uno, in modo che: “i due diventeranno una carne sola”. Gesù parla di due persone che trovano l’una nell’altra la protezione, la sicurezza più grande di quella che il padre assicura, e l’amore incondizionato ancora più grande di quello della madre.
Su questo sfondo il rapporto fra uomo e donna rivela la presenza di Dio, che sostiene e afferma l’autenticità e la verità del loro rapporto. Pertanto la portata dell’affermazione – “Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto” – non riguarda semplicemente quello che si stabilisce nel momento cultuale del matrimonio.
Esso è solo l’inizio; l’unione si stabilisce nel camminare umilmente con Dio, partendo dal “non sono più due, ma una sola carne”. In tal modo il singolare rapporto cresce nella purificazione, integrando sentimenti, desiderio di autenticità nella diversità, e la volontà di contribuire positivamente nella verità di sé stessi. Esso trasmette serenità, fiducia e rispetto, non solo a familiari ed amici, ma a ogni persona e all’umanità della quale sono parte viva e integrante.
Questo processo non si può cancellare né distruggere: sarebbe mutilare il rapporto che consolida sempre più l’indissolubilità, l’eterno nel tempo e il senso ultimo dell’esistere. L’indissolubilità non deriva dall’imposizione di una legge esterna alla persona, ma raccoglie il punto alto e vero del cuore dell’uomo e della donna, uno di fronte all’altro, nel rapportarsi con passione, sincerità e fascino, con fiducia ed entusiasmo reciproco, nel cammino verso un futuro di speranza per sé stessi e per la società. L’indissolubilità rivela il dono del Regno di Dio, della sua sovranità, nello scoprire in loro stessi, con gli altri e con la società, atteggiamenti di fiducia, trasparenza, gioia e semplicità.
A nessuno sfuggono le difficoltà attuali del rapporto fra uomo e donna, e le cause sono molteplici. Importante è coltivare i topici che sostengono il cammino indicato da Gesù, che prende lo spunto dalla presenza dei bambini: “a chi è come loro, infatti, appartiene il regno di Dio”.
Attenzione che i bambini (gli ultimi della società) a quell’epoca erano esseri insignificanti, privati di ogni diritto. Gesù istruisce i discepoli, animati dal desiderio e dall’ambizione di essere i più grandi, che il Regno di Dio – la comunità dove Dio governa gli uomini – è proprio quella degli ultimi della società.
A casa, i discepoli lo interrogano di nuovo su questo argomento. E dice loro: “Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio”. Gli presentano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverano. Gesù, al vedere questo, s’indigna e dice loro: “Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro, infatti, appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso. E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro”.
In contrapposizione ai farisei, che credono nella loro santità per l’osservanza dei precetti il merito del Regno di Dio, Gesù contrappone gli ultimi del consesso sociale. È un invito ai discepoli, che continuamente litigano tra loro per sapere chi è il più importante, di farsi ultimi.
Dio, per amore, si è messo a fianco degli ultimi e chi vuole essere in comunione con Dio deve farsi ultimo. A loro, infatti, appartiene il regno di Dio.
E, ancora, Gesù assicura: “In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso”. Per entrare nel regno di Dio, la società alternativa di Gesù, occorre farsi ultimi.
Quindi Gesù si identifica con loro e li benedice, imponendo le mani su di loro. Egli benedice quelli che nella società si fanno ultimi, ossia quelli che sono i più vicini a Lui.