Prima lettura (Ger 31,7-9)
Così dice il Signore:
«Innalzate canti di gioia per Giacobbe,
esultate per la prima delle nazioni,
fate udire la vostra lode e dite:
“Il Signore ha salvato il suo popolo,
il resto d’Israele”.
Ecco, li riconduco dalla terra del settentrione
e li raduno dalle estremità della terra;
fra loro sono il cieco e lo zoppo,
la donna incinta e la partoriente:
ritorneranno qui in gran folla.
Erano partiti nel pianto,
io li riporterò tra le consolazioni;
li ricondurrò a fiumi ricchi d’acqua
per una strada dritta in cui non inciamperanno,
perché io sono un padre per Israele,
Èfraim è il mio primogenito».
L’agire del Signore nei confronti del popolo eletto è motivato dalla seguente considerazione: “perché io sono un padre per Israele, Efraim è il mio primogenito”. Il cuore di Dio è pieno di gioia nel rinsaldare la paternità e l’attenzione al popolo, ritenuto come figlio primogenito. È il momento finale del periodo di esilio del popolo.
Ora il popolo ritorna dall’esilio in terra straniera, causato dall’abbandono del cammino del Signore e dall’intraprendere altre vie, nonostante il forte e tenace richiamo del profeta alle autorità e al popolo al rispetto dell’Alleanza, alla pratica del diritto e della giustizia, preannunciando, in caso contrario, l’invasione che poi avverrà con Nabucodonosor.
Segue la deportazione in Babilonia, con grande sconcerto per l’occupazione di Gerusalemme e la distruzione del tempio; infatti, “erano partiti nel pianto”. Nell’esilio molti di loro si sono dispersi, ma è rimasto un “resto d’Israele”, un gruppo di persone che mantengono viva l’identità e la speranza, memori della tradizione, della promessa del Signore e fedeli all’alleanza che ha sostenuto e motivato l’insistente supplica per il ritorno alla terra promessa.
Dopo un lungo periodo in terra straniera – circa settanta anni – Dio risponde positivamente alla supplica, anche perché lo Spirito non li ha abbandonati ma, lasciato il tempio profanato dalla loro infedeltà all’alleanza e poi distrutto dall’invasore, è andato con loro in esilio e partecipa alle loro stesse sofferenze.
Ebbene, il ritorno non riguarda solo i deportati in Babilonia ma anche i dispersi in altri paesi: “Ecco, li riconduco dalla terra del settentrione e li raduno dalle estremità della terra”. Non si tratta soltanto di dispersione geografica, ma anche di smarrimento interiore e del cammino. E il Signore, fedele alla promessa, fa sì che il “resto d’Israele”, memore dell’alleanza e della fedeltà di Dio, intraprenda il cammino del ritorno in patria.
Con costoro, in virtù dell’azione misericordiosa e rigeneratrice del Signore, forma un nuovo popolo, rinnovato e trasformato, includendo “fra loro il cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente: ritorneranno qui in grande folla”, ossia le persone ritenute indegne, perché peccatori o impuri.
Il “resto” diventerà una grande nazione. Il Signore investe di nuovo nel sogno originario, reiterando la sua misericordia affinché il popolo, appresa la lezione dell’esilio, sperimenti l’efficacia dell’alleanza nel rispetto delle indicazioni e delle esigenze: “li riporterò tra le consolazioni; li ricondurrò a fiumi ricchi d’acqua per una strada diritta in cui non inciamperanno”.
Non è difficile immaginare la gioia di Dio, dopo la delusione e l’amarezza dell’allontanamento, nel riprendere con il nuovo popolo il cammino dell’avvento del Regno. L’entusiasmo è anche del “resto”, motivato ad esternarlo secondo l’indicazione del profeta: “Innalzate canti di gioia per Giacobbe, esultate per la prima delle nazioni, fate udire la vostra lode e dite: ‘Il Signore ha salvato il suo popolo, il resto d’Israele’”.
Il Signore fa del nuovo popolo “la prima delle nazioni”, quale riferimento e modello per le altre nazioni affinché, motivate nello stabilire a loro volta l’alleanza, entrino nel cammino corrispondente. L’effetto sarà la pace universale e la manifestazione piena della signoria di Dio sull’opera delle sue mani.
Il “resto” sarà segno di speranza per le nazioni; basterà che esse rivolgano lo sguardo e il cuore alla nuova realtà che sta sorgendo per il dono della fedeltà del Signore alla promessa. Allora gli sfiduciati, i disperati, quelli che hanno davanti a sé un futuro tenebroso e senza speranza incontreranno la luce, il nuovo senso e la felicità della loro vita. E l’esultanza del Signore sarà grande, per la comunione con Lui e la sincera fraternità delle nazioni.
“Erano partiti nel pianto, io li riporterò tra le consolazioni”. Il contrario della gioia non è la sofferenza ma la tristezza. Quest’ultima domina quando si perde l’identità per la deviazione, rinnegando il cammino nell’Alleanza e, con essa, la pratica del diritto e della giustizia. Si tratta dell’abbandono della compassione e della misericordia per il povero e il debole, e del cammino con il Signore indicato dal profeta: “Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la misericordia, camminare umilmente con il tuo Dio” (Mi 6,8).
Risorgendo dal profondo dell’animo la gioia e l’esultanza per l’azione misericordiosa del Signore con il rientro nell’alleanza e nella terra promessa, l’esperienza di salvezza è motivo di letizia senza fine, se le autorità e il popolo praticheranno la stessa misericordia nel gestire, con responsabilità, la vita sociale e i rapporti interpersonali, nella fraternità e nella giustizia delle pari opportunità.
Ma non sarà così. E malgrado le ripetute infedeltà del popolo, il Signore non desisterà dall’essere “padre per Israele”, nel fare di lui “il mio primogenito”. L’invio del Figlio nel mondo, affinché svolga la funzione di sommo sacerdote a favore di tutta l’umanità, sarà l’azione decisiva per raggiungere l’obiettivo. È il tema della seconda lettura.
Seconda lettura (Eb 5,1-6)
Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati.
Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza. A causa di questa egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per sé stesso, come fa per il popolo.
Nessuno attribuisce a sé stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. Nello stesso modo Cristo non attribuì a sé stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato», gliela conferì come è detto in un altro passo:
«Tu sei sacerdote per sempre,
secondo l’ordine di Melchìsedek».
Il testo si riferisce alla figura, insostituibile e di grande importanza per Israele, del sommo sacerdote dell’Antico Testamento. Egli è “scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio”. Di questa figura il brano pone l’accento sulla caratteristica fondamentale: egli è un uomo e rimane tale, pur nell’esercizio di funzioni, stabilite dalla Legge, che riguardano Dio.
Egli “è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza”. Non gli è richiesta la perfezione della condotta ma la compassione, per percepire gli effetti dell’ignoranza della Legge e l’errore nel compimento di essa, realtà quest’ultima alla quale nemmeno lui sfugge.
La comprensione degli sbagli e delle debolezze altrui suscita la “giusta compassione” e la partecipazione alla sofferenza di chi è cosciente del danno personale e sociale che esse comportano. Il sentimento di compassione traduce l’azione di misericordia nell’aiutare, con le proprie capacità e mezzi, ad uscire dalla palude e dalle sabbie mobili.
La consapevolezza della condizione di sommo sacerdote lo rende atto allo svolgimento di tale missione: “egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per sé stesso, come fa per il popolo”. Si tratta del sacrificio di espiazione per il quale, nella liturgia, l’aspersione del sangue di animali sacrificati – in sostituzione del sangue dei trasgressori dell’alleanza – perdona i peccati del popolo e i suoi, ottenendo la giustificazione davanti a Dio.
La condizione di sommo sacerdote è attribuita da Dio con la chiamata; lo fu per Aronne e la sua discendenza. Nessuno può appropriarsi del diritto di costituirsi autonomamente a tale ufficio: “nessuno attribuisce a sé stesso quest’onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne”. Presiedere la liturgia nel giorno del perdono è proprio, e solo, del sommo sacerdote.
Orbene, con l’invio del Figlio nel mondo, la missione del sommo sacerdote è assunta e reinterpretata da Gesù. Con il sacrificio della croce egli unisce nella sua persona la vittima e il sacerdozio. Non offre il sangue degli animali, ma il proprio; non sacrifica animali ma sé stesso. Non entra nel tabernacolo del tempio, ma lo svuota – il velo che separava il tabernacolo da tutti si squarcia con il suo sacrificio, segno che tale funzione è finita – ed entra nel tabernacolo del cielo alla destra del Padre.
L’evento è retroattivo fino ad Adamo, e per tutte le generazioni future. Si tratta del “ritorno” del Risorto, secondo l’affermazione di Gesù “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” Lc 28,20 (non si tratta, ovviamente, del ritorno del cadavere, ma della sua presenza).
Per la volontà del Padre e dello Spirito l’evento conferisce a Gesù la condizione di sommo sacerdote; “Cristo non attribuì a sé stesso la gloria di sommo sacerdote (…)” dato che si consegnò per compiere la missione fedele all’amore per l’umanità e in sintonia con la volontà del Padre e la dinamica dello Spirito. La forza e il potere salvifico dell’amore rigenerano a nuova vita con la specificità della risurrezione.
“(…) ma colui che gli disse: ‘Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato’”. La generazione non si riferisce all’incarnazione ma alla risurrezione sopra indicata. È la nuova vita nella quale l’umanità è oggettivamente e reiteratamente rigenerata. L’“oggi e ora” consacra la permanente azione di Dio nella storia che consegna il regno al Padre affinché Dio sia “tutto in tutti” (1Cor 15,28).
Gesù Cristo è prefigurato nella singolare persona di Melchìsedeck, sacerdote e re della pace che, presentandosi ad Abramo, lo benedice in nome di Dio: “Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di Melchìsedeck”. Egli non ha padre né madre, non ha discendenza, non ha inizio né fine, né apparirà più. Egli è unicamente ed esclusivamente rapportato a Dio altissimo.
L’unica e singolare figura di Gesù, in sintonia con la realtà di sommo sacerdote, suscita la fede nel cieco mendicante, superando gli ostacoli posti dalla gente, come racconta il vangelo.
Vangelo (Mc 10,46-52) – Adattamento dal commento di Alberto Maggi
In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!».
Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!».
Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù.
Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.
Quando leggiamo i vangeli dobbiamo sempre tener presente cosa sono. Gli evangelisti non intendono tanto trasmetterci dei fatti, ma delle verità; la loro non è una cronaca, ma una teologia. Quindi il racconto non riguarda la storia, ma la fede.
Questo è il motivo per cui i vangeli sono sempre attuali per la vita del credente e delle comunità. Ma se si vuole ricostruire, dai vangeli, il fatto storico veramente avvenuto, questo è pressoché impossibile. Ad esempio, nel brano del vangelo di Marco che oggi commentiamo l’evangelista ci racconta che Gesù guarisce un cieco. Ma nello stesso identico episodio, nel vangelo di Matteo, i ciechi sono due. Allora se vogliamo sapere storicamente quanti fossero questi ciechi, erano due come scrive Matteo o uno come scrive Marco? Non lo possiamo sapere, ma la verità che trasmettono sia Matteo che Marco è identica. Vediamola.
Marco scrive: Giunsero a Gerico. È l’ultima città prima di iniziare la salita a Gerusalemme, dove Gesù sarà assassinato. E mentre Gesù partiva da Gerico insieme ai suoi discepoli, e a molta folla, c’è una presentazione alquanto bizzarra di un individuo.
Marco scrive: il figlio di Timèo, Bartimèo. Bartimèo non è il nome del figlio di Timèo in quanto, in lingua aramaica, significa “figlio di Timèo”. L’evangelista per due volte ripete “figlio di Timèo”. Perché questa ripetizione? Gesù nella sinagoga di Nazareth aveva detto che nessun profeta è accetto in patria, ma è disonorato, disprezzato. Timèo significa “onore”, e “figlio” nella cultura ebraica non indicava tanto colui che nasce dal padre, quanto colui che gli assomiglia nel comportamento. Allora figlio di Timèo è l’onorato, colui che ambisce ad essere apprezzato dalla gente, mentre Gesù è disprezzato.
Il fatto che l’evangelista lo ripeta due volte indica che anche lui, come Matteo, nella figura del cieco intende raffigurare – simbolicamente s’intende – i due discepoli, Giacomo e Giovanni che, accecati dalla loro ambizione e dalla loro vanità (Gesù aveva detto in precedenza: Avete occhi e non vedete) avevano chiesto a Gesù i posti più importanti.
Pertanto, questo cieco è immagine dei due discepoli.
Sedeva lungo la strada. “Lungo la strada” richiama la parabola del seminatore e il seme gettato lungo la strada è quello che non arriva ad attecchire. Perché, commenterà poi Gesù, arriva il satana, che è immagine del potere, e subito lo toglie. Quindi, chi ha desiderio di supremazia, di ambizione per superare gli altri, è refrattario al messaggio di Gesù. Ascolta le sue parole, ma queste non arrivano nel suo cuore. Come Giacomo e Giovanni, che hanno ascoltato l’annunzio della passione di Gesù e, poi, gli vanno a chiedere invece i posti più importanti.
Bartimèo, sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare, come in questo vangelo grida il posseduto nella sinagoga, e a dire (ecco il motivo della cecità): “Figlio di Davide”. Per lui Gesù è il Figlio di Davide; ripetiamo che – “figlio” significa colui che assomiglia al padre -. Ebbene, l’attesa popolare del messia era che fosse il figlio di Davide e si comportasse come il re Davide, il grande re che, attraverso un bagno di sangue e con violenza, conquistò il potere e riunì le 12 tribù. Questa è l’attesa del popolo e, purtroppo, anche l’attesa dei discepoli. Loro non seguono il figlio di Dio, ma il figlio di Davide, ed è questo il motivo per cui sono ciechi.
“Abbi pietà di me”, vieni in soccorso alla nostra situazione di sottomissione ai romani. “Molti lo rimproveravano”, esattamente come posseduti dagli spiriti impuri, e sono coloro che collaborano con Gesù. Intanto egli gridava ancora più forte: “Figlio di Davide”. Ecco il motivo della sua cecità, lui non segue il figlio di Dio, ma il figlio di Davide.
Gesù si ferma, ma non si avvicina al cieco; deve essere il cieco ad avvicinarsi a Gesù e seguirlo nella sua strada. E, per ben tre volte, appare il verbo “chiamare” che significa che questo cieco, esattamente come Giacomo, Giovanni e gli altri discepoli, sono lontani da Gesù, lo accompagnano ma non lo seguono.
“Chiamatelo”. Chiamarono il cieco, dicendogli: “Coraggio! Alzati, ti chiama!”. E inizia la conversione dei discepoli raffigurata nelle azioni del cieco. Egli, gettato via il suo mantello (il mantello indica la persona e gettarlo indica la conversione, la rottura con l’ideologia che lo aveva animato) balza in piedi e viene da Gesù.
Non è Gesù che va verso il cieco, ma è il cieco che deve andare verso Gesù, e lo deve seguire nel suo itinerario verso Gerusalemme. Allora Gesù gli disse … e qui l’evangelista riporta la stessa domanda che Gesù ha fatto a Giacomo e Giovanni (quindi si vede chiaramente la relazione tra i due episodi): “Che cosa vuoi che io faccia per te?” A Giacomo e Giovanni Gesù aveva chiesto: che cosa volete che io faccia per voi?
E il cieco gli rispose: “Rabbunì”. Non lo chiama più figlio di Davide, ma gli si rivolge con un termine rispettoso con il quale ci si rivolgeva a Dio – Rabbunì – che è differente da Rabbi. Rabbi, maestro, veniva adoperato per le persone, Rabbunì soltanto per Dio.
Ecco che il cieco comincia a vedere. Capisce che Gesù non è il figlio di Davide, ma il figlio di Dio.
“Che io veda di nuovo!”. Quindi non era nato cieco, c’era un periodo in cui vedeva ma è stata l’ideologia che lo ha accecato. Allora chiede di tornare a vedere.
Gesù non compie nessun gesto, nessuna azione nei confronti del cieco ma gli dice soltanto: “Va’ la tua fede ti ha salvato”. Riconoscere in Gesù il figlio di Dio, anziché il figlio di Davide, è quello che salva l’individuo. E subito vide di nuovo: quindi è tornato a vedere, e lo seguiva nella strada mettendosi di nuovo al seguito di Gesù, come Gesù aveva invitato a fare ai suoi discepoli.
La strada è quella verso Gerusalemme, dove Gesù incontrerà la sua passione e la sua morte.