Abdallah è uno dei nostri scolastici di Kinshasa e per un paio di mesi si trova nella nostra parrocchia di Isiro Sainte Anne per scendere in campo e fare un primo assaggio di vita missionaria diretta. Alla fine del prossimo anno, ultimo anno di teologia, ripeterà questa esperienza, dove sarà inviato dai superiori, per un intero anno, a cui seguiranno l’ordinazione diaconale e poi quella sacerdotale. Viene dal Sud Sudan e ci racconta un po’ della sua vita…
Sono un Shilluk che è parte della grande famiglia dei Luwo, presente oltre che in Sudan anche in Kenya e Uganda. Parliamo quasi la stessa lingua.
Abdallah, da quanto so è un nome arabo, vieni da una famiglia musulmana?
Il mio nome di famiglia completo Changjwok Abdallah Nyker. In realtà nella mia lingua tribale il nome non sarebbe Abdallah ma Adulai, che è il nome del falco. All’inizio della scuola mio fratello si trovò a frequentare una scuola musulmana e quando disse di chiamarsi Adulai, gli insegnanti compresero Abdallah e lo registrarono con questo nome arabo, che significa “servitore o schiavo di Dio”. Un nome che ho ereditato ma io e i miei genitori siamo cristiani.
Com’è l’attuale situazione in Sud Sudan?
C’è mancanza di sicurezza. Si sono fatti veri tentativi di accordo tra i governanti e i ribelli di Hemiti che uccideva le persone nel Darfur, ma nessun accordo ha tenuto portando pace. Conclusa la guerra nel Sud Sudan è iniziata nel Sudan del nord. Durante la guerra nel sud, anche la nostra casa è stata distrutta e le persone sono fuggite come rifugiati nel nord e in altri paesi vicini. Per i rifugiati ora la situazione è penosa: non c’è lavoro, non c’è cibo, molte malattie e la gente muore. Di conseguenza parte della nostra gente pensa di rientrare al sud perché è meglio morire nel proprio villaggio. Diversi stanno ritornando sperando di trovare una situazione migliore, per ricostruire le loro case, riprendere a coltivare i campi. La situazione economica nel Sud Sudan resta difficile, e la vita per la gente è una continua tribolazione. Non si vedono grandi cambiamenti. Bisogna impegnarsi e pregare per la pace e per rendere la vita della gente più dignitosa.
Come è nata la tua vocazione missionaria?
Credo che sia nata quando il nostro vescovo ausiliare Daniel Adock di Khartoum è venuto in visita e durante la Messa ha cantato in arabo. E’ stato il suo canto che mi mi ha toccato. Era come un invito a cantare dello stesso modo. Ricordo bene il giorno in cui mi sono sentito chiamato a seguire il Signore nell’anno 2009, quando un catechista, nella nostra chiesa, ci parlo della storia dei missionari a Khartoum durante il regime islamico della Mhadia. Di come i missionari avevano sofferto, di come era stata profanata la tomba di mons. Daniele Comboni. Continuava facendo riferimento alle tribolazioni dei missionari e citava quello che aveva detto il Signore: che anche gli uccelli hanno un luogo dove riposarsi ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo per riposarsi. Mi ha sconvolto. toccato nel profondo. Uscendo dalla chiesa mi domandavo: “Signore cosa vuoi da me?” Mi sentivo chiamato come loro a seguire il Signore e essere suo testimone nel mondo. In un primo tempo desideravo solo entrare in seminario, la scelta di entrare tra i comboniani venne dopo. Non avevo ancora terminato le scuole secondarie.
Quale è stata la reazione dei tuoi famigliari?
In seguito a casa ne ho parlato con mio padre che non ha fatto problemi, tanto che mi domandavo se avesse capito bene le mie intenzioni.. Poi ne ho parlato con la mamma, che invece non era per niente d’accordo. Mi disse: “Se vuoi essere catechista va bene, perché devi avere la possibilità di sposarti e di avere dei figli”. Nel rifiuto era appoggiata dal mio fratello maggiore che mi diceva: “Tu devi studiare fino a frequentare l’università, devi diventare un buon medico”. Abbassai le orecchie. Dovetti dare le fotocopie dei documenti richiesti a mio fratello che si interessò per vedere che possibilità c’erano a Khartoum. A Khartoum gli dissero che per l’iscrizione erano necessari i documenti originali. Venne per prenderli e ritornò per l’iscrizione. Nel frattempo tutti i posti erano stati occupati. Fallì così ogni possibilità di iscrizione. Non si arrese e tentò in una università in Egitto, ma il mio nome non uscì. Ancora una volta dovette rientrare a mani vuote. Non si arrese e mi disse:” Bene! Vai in Kenya così impari l’inglese”. Mi impegnai e in nove mesi sapevo questa nuova lingua sufficientemente bene.
Tuo fratello era un osso duro. Come si è convertito?
Mio fratello, che non è cristiano, venne a trovarmi e per tre volte mi pose la domanda se ancora pensavo di entrare in seminario. Pur con la paura di avere un altro rifiuto gli dissi: “Si sento ancora questo desiderio!” Mi stupì perché mi disse subito: “Ok, vacci pure!” La sua risposta mi sorprese. Ma poi seppi che aveva consultato tutti nella famiglia e la parentela, che hanno appoggiato la mia scelta…convertendolo. Il Signore porta avanti i suoi progetti a dispetto di tutti e di tutto.
Penso sia stato naturale per te orientarti dai missionari comboniani.
La nostra parrocchia è gestita dai comboniani perché la nostra zona era stata evangelizzata dai comboniani, inoltre a scuola studiavamo la storia di Mons. Daniele Comboni, quindi era naturale che mi orientassi verso i comboniani. Ho scritto la lettera di domanda per essere ammesso e l’ho consegnata a P. Denima comboniano che le ha inviata ai confratelli di Juba. Mi chiamarono subito perché gli aspiranti avevano già iniziato il cammino del pre-postulato. Non avevo i soldi per il viaggio e per il necessario. Ricorsi al mio fratello maggiore che mi disse di attendere la fine del mese. Lui stesso mi accompagnò a Juba e così iniziai il cammino di formazione comboniano. Per il postulato scesi a Nairobi e poi i due anni di noviziato in Zambia, e ora mi ritrovo a Kinshasa per lo studio della teologia in scolasticato. Così ho dovuto imparare anche il Francese e un po’ di Lingala una delle quattro lingue ufficiali della RDC.
Quante lingue hai dovuto apprendere e quali sono le difficoltà che hai trovato nel passaggio nei vari paesi?
Beh in primo luogo la mia lingua materna, lo Shilluck, poi l’arabo obbligatorio per la scuola, l’inglese e lo Swahili in Kenya, il Chichewa dello Zambia, il francese e il Lingala qui in Congo. La prima difficoltà che si sperimenta nella vita nei diversi paesi, direi che è la grande differenza delle varie culture, con i rispettivi usi e tradizioni. Ho considerato queste difficoltà un grande dono che mi ha permesso d’imparare cose nuove, per essere attento alle persone e alle altre culture. E’ una scuola a cui bisogna adattarsi ed esercitare la pazienza per imparare facendo tesoro di tutto.
Sei approdato alla tappa dello scolasticato e ti trovi a Kinshasa. Quale è stato l’impatto con questa nuova realtà?
I primi tempi sono sempre molto difficili. Arrivai, ed ero l’unico sudanese e non sapevo le lingue, né il francese né il lingala. I miei compagni non sapevano né l’inglese e tanto meno l’arabo. Non riuscivo a spiaccicare una parola e restavo muto. Puoi arrivare allo scoraggiamento. Devi esercitare l’umiltà e la pazienza, poi piano piano le nuvole si diradano e scopri che il sereno esiste.
Ci sono altre vocazioni comboniane in Sudan?
Non molte, ma spero buone. Attualmente siamo in sette che stiamo andando avanti nel cammino di formazione. Cinque candidati al sacerdozio e due orientati ad essere fratelli comboniani. io sono al terzo e ultimo anno di teologia. Alla fine del terso anno, come di regola, farò un anno di servizio missionario nella missione scelta dai formatori.
Come hai vissuto questi due mesi di servizio missionaria qui a Sante Anne?
Questa esperienza missionaria a Isiro è molto importante per me perché ho visto come la comunità comboniana è impegnata nella pastorale, e questo è stato uno stimolo per me per uscire incontrando la gente. Nello scolasticato la vita è piuttosto chiusa per la vita comunitaria, per lo studio per i ritmi e la vita di contatto con la gente è un po’ sacrificata. Questa è una bella e profonda lezione di vita apostolica e ne ho approfittato molto, per la visita ai cristiani nei villaggi che richiede anche una buona dose di resistenza fisica. Per la gente la vita non è dolce e noi siamo chiamati a condividere le difficoltà. Vedendo ile loro pene, mi dicevo spesso: “Devo essere come loro. Farmi uno con loro”. Impegnativa anche la pastorale dei giovani con le loro sfide, una delle queste è quella delle ragazze madri ancora molto giovani. Bisogna riflettere su come è possibile aiutarli, Quello che ritengo importante come lezione è di “essere con la gente”, saperle ascoltare, condividere la loro vita e le loro attese. Con i confratelli ci siamo impegnati nella visita ai poveri e ammalati, trasmettendo e ricevendo la gioia del incontro fraterno.
Alla fine di questo cammino di formazione e all’inizio di uno nuovo, dove vorresti andare in missione?
Non faccio scelte e sono disponibile ad andare dove il Signore mi manderà attraverso l’invio dei miei superiori. E’ la missione, o meglio Dio Padre attraverso la missione, che sceglie i missionari. Sono pronto e disponibile a rispondere al bisogno, non importa dove il Signore mi porterà.
Ringrazio Abdallah per la sua bella testimonianza di disponibilità al piano di Dio su di lui e della fedeltà in questo cammino verso i più poveri e abbandonati.
Ringraziamo il Signore che nonostante tutto continua a chiamare e ringraziamo Abdullah che con coraggio risponde. Dio ti benedica e la madonna ti protegga per il tuo generoso “si”
Ringrazio il signore che nonostante tutto continua a chiamare e ringrazio Abdullah che generosamente risponde. Dio ti benedica e coraggio per continuare !
Bravo , giovane missionario ! ,,.
…
La gioia di dare ti colmi di
Forza
Saggezza
Coraggio .
Come diceva p Paolo Tabarell Mio carissimo amico.,,una goccia pulita nel mare .
Auguri di cuore !
E’ una testimonianza forte che interroga ogni cristiano che in qualsiasi stato vive deve saper mettersi in ascolto e a disposizione della Parola e vivere in coerenza. Grazie
Grszie per la bellissima testimonianza
Grazie per questa bellissima testimonianza