La parola di Dio di questa domenica mette in luce l’esistenza di una insanabile polarità o tensione dentro ciascuno di noi e dentro la realtà umana. Una tensione dice il libro della Sapienza, tra l’amore dello Spirito Santo che viene dall’alto e la passionalità che abita il cuore dell’uomo naturale ed inquina tutte le sue interazioni. Questo amore dello Spirito Santo, continua Giacomo, è poi in tensione con l’amicizia del mondo che è nemica di Dio. E tutto ciò, insegna Gesù nel Vangelo, genera una tensione tra la sua chiamata a farsi piccoli e l’ambizione dei discepoli a farsi grandi. Questa polarità o tensione che abita il cuore di ogni uomo e degli stessi discepoli ci ricorda che la radice di ogni conflitto e sofferenza relazionale vi è una sorta di disorientamento del cuore e dello sguardo, a causa del quale tendiamo a considerare l’umiltà una debolezza e l’affermazione di sé una forza. Diventiamo, allora, incapaci di accogliere l’amore di Dio come un dono che viene dall’alto e che, proprio perché “discende” verso di noi e’ fondamentalmente umile. Il salmista esprime bene questo disorientamento del cuore quando nota come il peccatore sia incapace di mettere Dio davanti ai propri occhi. Lo sguardo dell’uomo distorto dal peccato lo porta a centrarsi su sé stesso, a vivere preoccupato del proprio interesse, del proprio piacere e della affermazione di sé e del proprio volere. Non è facile uscire da questo dinamismo perché tendiamo a negarlo a noi stessi. I discepoli, interpellati, non osavano nemmeno rispondere alle domande di Gesù. In effetti ogni uomo, anche una persona che viva una vita giusta, dinanzi all’amore di Dio rivelato in Gesù Cristo ha soltanto due alternative: o si arrende all’evidenza che il proprio cuore è incapace di gratuità e di verità oppure si arrocca difensivamente sulle proprie ragioni e finisce per contestare l’amore di Dio come falso, come troppo esigente, come irrealistico. L’atteggiamento dei sapienti di questo mondo nei confronti del giusto, così come esso è descritto nel libro della sapienza, non e’ diverso dall’atteggiamento di qualsiasi persona mondana nei confronti della croce. Dinanzi alla mitezza, alla gratuità e all’umiltà indifesa del giusto, essi pretendono di metterlo alla prova, di verificare se davvero Dio libera i deboli, se la pretesa sincerità del giusto che mette in crisi la loro ipocrisia, possa reggere di fronte alla forza bruta del potere, all’umiliazione e ad una morte infamante. Il giusto, che, come Gesù sulla croce, rimane disposto ad amare nel dono di se fino alla fine, mette in crisi ogni nostra pretesa di poter o saper amare. Anzi, davanti alla croce, diventa chiaro che noi resistiamo – anche solo silenziosamente come i discepoli dinanzi alle domande di Gesù – ad accogliere la stessa logica di amore perché naturalmente orientati a salvare la nostra vita piuttosto che a donarla. Non solo. La croce rivela come senza questa disponibilità a donare la vita, l’amore non resiste al male e si estingue lasciando emergere il suo contrario: la tendenza, cioè a togliere la vita agli altri. La sconsolata affermazione di Giacomo rivolta ai primi cristiani circa il fatto che essi litigano e non riuscendo ad ottenere quello che vogliono “uccidono”, non si riferisce necessariamente a situazioni in cui vi sia stato spargimento del sangue. Giacomo allerta i discepoli circa il fatto che la loro naturale tendenza ad affermare sé stessi e ad ottenere ciò che vogliono per se stessi, alla fine non può che togliere la vita agli altri o almeno diminuirla. Anche questo è uccidere. Per tornare a “dare la vita” e quindi ad amare e lasciarsi amare occorre rimettere Dio davanti ai nostri occhi. È questo il senso del gesto di Gesù nel Vangelo. Egli chiamando a sé i discepoli ricorda loro che non ha senso litigare sul più grande quando vi è Lui al centro della comunità. Quindi prende un bambino tra le braccia e insegna ai discepoli che per rimettere davanti ai loro occhi la presenza del maestro, che sarà sempre con loro dopo la resurrezione, devono tenere la loro attenzione rivolta al più piccolo piuttosto che al più grande. E soprattutto ricorda loro che accogliendo lui nella sua umanità, e quindi qualsiasi piccolo che con lui si identifica, essi in effetti accolgono colui che lo ha mandato, cioè Dio. Dobbiamo reimparare ogni giorno a rimettere Dio davanti ai nostri occhi. Ogni volta che facciamo memoria del fatto che Dio ci ha rivelato il suo amore nell’umiliazione del figlio e nell’umiltà dei più piccoli, noi ricominciamo a vivere da discepoli e a chiedere ciò che il Padre è contento di darci: il suo Spirito Santo che assimila la nostra natura alla sua e la rende pacifica, cordiale, arrendevole, misericordiosa, piena di buoni frutti, senza parzialità, nemmeno verso i più piccoli e senza ipocrisie.