Padre Luigi Consonni
Prima lettura (Ez 18,25-28)
Così dice il Signore:
«Voi dite: “Non è retto il modo di agire del Signore”. Ascolta dunque, casa d’Israele: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra?
Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo muore, egli muore appunto per il male che ha commesso.
Il profeta risponde all’obiezione rivolta al Signore riguardo la rettitudine della sua giustizia: “Voi dite: ‘Non è retto il modo di agire del Signore’”. Sullo sfondo c’è la teologia della retribuzione, per la quale la salvezza dipende dal maggior peso delle opere buone rispetto a quelle cattive, e la giustizia è intesa come ricompensa per la prevalenza delle prime su quelle malvagie.
Ezechiele confuta questo criterio e contrappone un altro approccio. Non che svaluti il primo, perché è noto che l’abitudine al male diventa dipendenza e, addirittura, può trasformarsi patologicamente in necessità; al riguardo afferma Geremia: “Può un etiope cambiare la pelle o un leopardo le sue macchie? Allo stesso modo: potete fare il bene voi, abituati a fare il male?” (Ger 13,23).
“Se il giusto si allontana dalla giustizia (…) e se il malvagio si converte dalla sua malvagità…”. Il profeta considera l’ipotesi che né il giusto né il malvagio consolidano, in modo irreversibile, la loro condotta e condizione. Anzi, al contrario, essa si può trasformare nell’opposto. Di fatto, niente nella vita è acquisito una volta per sempre, nonostante il proposito e la determinazione di rifarsi a rifermenti irrinunciabili, capisaldi del cammino e delle scelte.
È nota la condizione di san Paolo, il quale afferma di vedere il bene, di desiderarlo e volerlo mettere in pratica, ma poi compie il contrario al punto che, angustiato afferma: “Me infelice! chi mi libererà da questo corpo di morte?” (Rm 7,14-25).
Il Signore, nei riguardi delle mutevoli condizioni del giusto o del malvagio nel presente, pone in rilievo l’importanza di vivere, ogni momento, come opportunità per verificare i criteri dell’alleanza e disporre le scelte e le azioni in sintonia con essa, in modo che siano efficaci e operative di giustizia.
Giusto non è semplicemente chi coltiva buoni propositi o afferma la corretta intenzione del fare, ma chi agisce in sintonia con l’avvento della sovranità di Dio, l’avvento del Regno. In tal modo la pratica dell’alleanza non solo sintonizza sempre meglio il popolo con Dio ma suscita, nel credente, il fare dell’alleanza lo spazio di accoglienza di altre realtà, di altri popoli e nazioni, affinché la promessa del Regno coinvolga tutti come evento credibile.
Le colpe commesse non sono solo di ordine etico, ma anche quelle del non disporsi all’apertura universale nel proporre i valori dell’alleanza e rimanere chiusi, bloccati in sé stessi. La gravità si deve al fatto che tale comportamento suscita e motiva un meccanismo che danneggia il popolo di Dio, con la perdita dell’identità che incentiva comportamenti e organizzazioni a vantaggio di pochi e a danno di molti.
Il Signore vuole che ognuno rimanga nel giusto cammino, sulla retta via, senza cadere nella seduzione di altre proposte devianti; così pure chi è nel cammino errato si ravveda: “Ha riflettuto e si è allontanato da tutte le colpe commesse”, ristabilendo la fedeltà all’alleanza e immergendosi nella comunione con il Signore.
La vita, cui si riferisce il profeta, non è solo quella fisica, ma abbraccia tutti gli ambiti dell’esistenza, per fare di essa la realtà autenticamente umana, etica, morale, sociale e spirituale, ogni giorno aperta al nuovo. Essa è l’ambito della fraternità, della solidarietà e della responsabilità per l’armonia e la pace universale, nell’accogliere l’avvento del Regno nel contesto, nella circostanza e nel momento specifico, come evento dell’ultimo e definitivo, la meta della vita eterna, il fine del tempo di ogni istante.
È ciò che auspica Paolo nella seconda lettura.
Seconda lettura (Fil 2,1-11)
Fratelli, se c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi.
Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a sé stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri.
Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù:
egli, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio
l’essere come Dio,
ma svuotò sé stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò sé stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!»,
a gloria di Dio Padre.
La comunità di allora, e quella di tutti i tempi, contiene un insieme di aspetti positivi e negativi. È a questi negativi che Paolo si riferisce, che lo preoccupa per la loro incidenza nella comunità, e di conseguenza afferma: “Non fate nulla per rivalità e vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a sé stesso”.
Competizione, vanità, ricerca di prestigio e di elogio sono tentazioni comuni a tutti, per l’impellente e smisurato consenso sostenuto dalla debole e insufficiente formazione o per l’incapacità di agire in modo soddisfacente ed efficace. Ma ancora più è la seduzione dell’elogio, del potere, che domina al punto da suscitare tensioni, divisioni e lotte intestine nella comunità stessa. Il che fa sì che la persona o la comunità stessa agisca in modo contrario a quello che l’apostolo esorta: “Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri”.
Tuttavia, Paolo, con cuore aperto, spera di ricevere “consolazione (…) conforto (…) comunione di spirito (…) e sentimenti di amore e compassione”. Pertanto, esorta le persone a “un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi” per entrare, con lui, nella gioia piena.
A tal fine indica il cammino e i topici adeguati partendo dall’esortazione: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù”. Sentimenti che accolgono la fede di Gesù che, con audacia, determinazione, coraggio, tenacia e perseveranza porta a compimento l’avvento del Regno a favore della singola persona e dell’intera umanità. Il che porta Paolo ad affermare: “Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,8).
L’inno che segue l’esortazione risale alle prime comunità cristiane e sintetizza la figura, il significato, la portata e il fine dell’opera di Gesù. Molto fu scritto per l’importanza e l’inesauribilità del contenuto.
I primi tre versetti si riferiscono allo svuotamento e all’umiliazione di Gesù nell’assumere la causa dell’avvento del regno. A tal fine è investito dal rifiuto, dal disprezzo delle autorità e del popolo che lo considera un falso profeta, senza Dio e meritevole di morte. Tuttavia, Gesù accoglie su di sé il loro peccato e le tragiche conseguenze, per sconfiggerlo e liberali dal peccato e introdurli nell’ambito del Regno.
In primo luogo Gesù mette, come tra parentesi, la sua condizione divina: non si avvale di prerogative, condizioni e onori che essa comporta. Paolo scrive: “pur essendo nella condizione di Dio”. (Vale rilevare che Mario Antonelli, teologo della diocesi di Milano, fa notare che nel testo originale non c’è il termine “pur”, il che rimanda alla condizione divina “svuotare sé stesso assumendo la condizione di servo”). Quindi è propria di Dio la condizione umana, e il vincere il peccato che lo assedia fino all’ultimo respiro.
Il popolo lo conosce come persona comune – “Dall’aspetto riconosciuto come uomo” – uno dei tanti comuni mortali della Galilea, luogo dal quale non ci si aspetta niente di buono. Tuttavia Gesù avanza pretese messianiche che contraddicono ogni attesa, e creano subbuglio e rifiuto nelle persone e nella società, con la pretesa dell’avvento del regno di Dio nell’oggi, ossia nel presente (Lc 4,21).
Come servo “umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce”. Ma ci si chiede: l’obbedienza fino alla croce è per il riscatto, il necessario tributo di sofferenza, di sangue e morte per l’offesa recata a Dio con il tradimento dell’alleanza? Certamente no. La figura di Dio “assetato” di sangue o vendicativo è fuori luogo, e non corrisponde alla sua realtà.
Nel vincere radicalmente la battaglia contro il peccato in virtù dello Spirito, il compagno invisibile della sua azione, l’obbedienza di Gesù è la risposta d’amore che non cede alla tentazione, alla lusinga e alle attese delle autorità e del popolo.
E così la vittoria declina la giustificazione davanti al Padre del peccatore, che Gesù rappresenta, con l’energia dello Spirito. Quale rappresentante della persona e dell’umanità trasmette loro la giustificazione per la fede in Lui, e la fede nel compimento dell’avvento della sovranità di Dio.
I tre versetti seguenti spiegano in che consiste la vittoria. Il termine “Per questo” è l’anello d’unione fra il precedente e quello che segue. Lo stesso Padre e lo Spirito soffrono con lui, e Dio (includendo anche il Figlio come persona attiva) “lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome”, nome che attiva l’essenza, l’autenticità di Gesù e l’amore trinitario.
Con la risurrezione emerge il mistero di Dio che, pur mantenendosi tale, manifesta l’umanità del corpo crocifisso e risorto immersa nella Trinità. L’umanità assunta con l’entrata nel mondo, e la consegna per amore, introduce nella gloria eterna del mistero di Dio.
Ora tocca al genere umano e a alla persona accogliere e coinvolgersi nel dono, in modo che “nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: ’Gesù Cristo è Signore’, a gloria di Dio Padre”.
La gloria di Dio è la vita in abbondanza che rende visibile l’avvento della sovranità di Dio nella fraternità, nella responsabilità e solidarietà per un nuovo mondo: la nuova società di pace e di giustizia.
La risposta del credente è l’accoglimento della giustificazione operata da Gesù Cristo, la cui ricaduta assume aspetti sorprendenti sulla condizione umana, come testimonia il vangelo odierno.
Vangelo (Mt 21,28-32) – adattamento dal commento di Alberto Maggi
In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo».
E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».
“Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: Figlio, va’ oggi a lavorare nella vigna (la vigna, rappresenta Israele), ma egli rispose: ‘Non ne ho voglia’. Ma poi pentitosi (preso dal rimorso), vi andò. Si avvicinò al secondo e gli disse lo stesso, ma quello rispose (con prontezza e ossequio): ‘Si Signore’. Ma non vi andò”.
La figura del secondo riguarda le autorità religiose denunciate da Gesù. Il loro ostentato zelo e devozione, in realtà serve solo a mascherare il niente. Gesù a loro aveva detto: “ipocriti, o teatranti, bene ha profetato Isaia, dicendo questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me”, come ha fatto con questo figlio. Il popolo lo onora con le labbra, “sì signore”, ma non ha pensato minimamente di andare a lavorare.
Gesù polemizza apertamente con la classe dirigente del popolo, i “capi dei sacerdoti e anziani del popolo”, ponendo un quesito cui essi rispondono nel modo più ovvio, e chiede loro: “Chi dei due ha compiuto la volontà del Padre?”, costringendoli a dare una risposta: “Il primo” che compie la volontà del Padre, pur avendo detto in maniera sgarbata e violenta “non voglio”, poi ci andò.
Non è difficile immaginare lo sconcerto, il ripudio del popolo e dei dirigenti alle parole di Gesù: “In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio”. Per costoro è ritenuta praticamente impossibile la conversione e la penitenza, imprescindibile per la riammissione nella comunità dei giusti.
Gli esattori delle tasse – il pubblicano – per il tipo di organizzazione riguardo alla riscossione, era ritenuto un ladro a causa del subappalto e la divisione del territorio di riscossione. Egli doveva consegnare all’appaltatore una quantità prefissata di denaro, e quel che raccoglieva in più rimaneva in suo possesso. Evidentemente ne approfittava, ed esigeva più del dovuto, pesando fortemente sulle spalle della gente. Per questo erano disprezzati per la trasgressione della Legge.
Il pubblicano, peccatore pubblico, nel caso si fosse ravveduto, doveva restituire a ciascun danneggiato la quota ingiustamente sottratta più il venticinque per cento. Condizione impossibile da rispettare, giacché avrebbe dovuto chiamare tutti i danneggiati e ricordare la quantità estorta. Neanche volendo avrebbe potuto soddisfare tale esigenza, per cui la conversione era impossibile.
Riguardo alle prostitute il disprezzo era generale, erano il massimo del degrado e dell’impurità. Non è che potevano cambiare mestiere. I rabbini dicevano che il regno di Dio tarda a venire per colpa dei pubblicani e delle prostitute.
Gesù dice: sveglia gente, le persone che voi pensate siano la causa del ritardo del regno di Dio vi hanno già preso i posti davanti. Le classiche prime file, dove dovevano esserci le autorità militari, civili e religiose, sono già occupate. Gesù non parla di precedenza: quelli che voi credete essere gli esclusi dal regno di Dio e, che per causa loro, esso tarda a venire, sono entrati e voi siete rimasti fuori.
È una denuncia clamorosa. L’evangelista calca la mano con questi termini, con queste immagini perché c’è, da sempre, la tentazione della comunità cristiana di erigersi come comunità di giusti e di santi che si arroga il diritto di entrare nel regno di Dio, e si sente autorizzata a giudicare le persone per la loro condotta. Gesù ha preso come immagine due categorie di persone che, anche volendo, non possono assolutamente più cambiare la loro vita né il loro mestiere.
Ciò che nei vangeli non finisce di sconcertare, e mette i brividi, è che Gesù dà il suo perdono e la sua pace alle prostitute e ai pubblicani che ha incontrato, ma non li invita mai a cambiare mestiere. È scandaloso che Gesù, incontrando la prostituta, non le dica: smettila con questo mestiere: ti perdono, ma smetti; cosa sarebbe andata a fare? Metto questo come ipotesi, poi ognuno ci pensi; è possibile continuare ad essere prostituta ed essere gradita a Dio? È possibile per Zaccheo e per gli altri pubblicani continuare a esercitare il mestiere impuro e ugualmente essere graditi a Dio? Lasciamo questa domanda, la grande domanda inquietante dei vangeli: perché Gesù non chiede a queste persone di cambiare mestiere?
Quando i pubblicani si avvicinano a Giovanni Battista, l’evangelista scrive che questi balbettano perché non sanno. Giovanni Battista era tremendo con i peccatori, metteva paura con le immagini: ogni albero che non porta frutto verrà tagliato; viene il Messia, brucia la pula… Arrivano questi poveri pubblicani e dicono a Gesù: e noi altri? Si sarebbero aspettati: pussa via, gentaccia; invece dice: non esigete nulla di più di quanto è stato fissato. Continuate a fare i pubblicani, ma (è sconvolgente!) fatelo onestamente; trasferito alle prostitute, sarebbe: continua, ma fallo onestamente.
Gesù continua: “Giovanni, infatti, venne a voi sulla via della giustizia (…)”, della fedeltà a Dio, “(…) e non gli avete creduto (…)”. Gesù dà la risposta: il battesimo di Giovanni è dal cielo o dagli uomini? È venuto Giovanni e voi non gli avete creduto. “(…) i pubblicani e le prostitute – cioè i più lontani da Dio – invece gli hanno creduto”. Pubblicani e prostitute hanno accettato l’invito alla conversione, al cambiamento di vita, mettendo nella propria vita, al primo posto, il bene dell’altro.
“Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli”. La risposta dell’autorità maschera il loro comportamento; coloro che dovevano insegnare al popolo la volontà di Dio sono i primi a non compierla, perché non hanno creduto all’invito di Giovanni il Battista. Il loro atteggiamento li associa al secondo figlio della parabola che, all’invito di lavorare nella vigna, rispose: “Sì, Signore, ma non vi andò”.
Chi, per la fede, è reso giusto davanti a Dio, per gli effetti della morte e risurrezione di Gesù Cristo; chi è cosciente del dono gratuito e dei suoi effetti rigeneratori; chi conserva e fa crescere il dono di lavorare nella vigna del regno di Dio, in modo da coinvolgere le persone nella pratica del comandamento dell’amore, a imitazione di quanto Dio ha fatto a suo favore, questi è il giusto gradito a Dio Padre.
In tal modo la giustizia di Dio, nei suoi confronti, è partecipata e trasmessa ad altri e rende estensibile l’avvento del regno di Dio.
“Venga il tuo regno”, ovvero si estenda e si espanda.