Padre Tonino Falaguasta Nyabenda

Di nuovo siamo invitati ad ascoltare il prezioso insegnamento del profeta Ezechiele (VI secolo prima di Cristo). Egli afferma, ispirato da Dio: “Se il malvagio si converte… e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso” (Ezechiele 18, 27). E’ questo un grande insegnamento ed è un grande passo in avanti della saggezza umana. Si passa infatti dalla responsabilità collettiva alla responsabilità personale. Anche il profeta Geremia (suo contemporaneo) aveva scritto: “I padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati: … ognuno morirà per la sua propria malvagità” (Geremia 31, 29).

Il principio della responsabilità collettiva, purtroppo, è sempre duro a morire. I discepoli di Gesù infatti hanno chiesto, nel caso del cieco nato: “Chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco? “ (Giovanni 9, 1).

Ma c’è un altro problema che sorge e a proposito del quale la saggezza antica si poneva delle domande. Basta leggere il libro di Giobbe (V secolo prima di Cristo). Cioè il giusto vorrebbe vedere ricompensata la sua giustizia, anche con i beni materiali, e con l’amicizia di Dio. Solo con Gesù si arriva a una vera risposta: la retribuzione del giusto arriva come una grazia, come un dono di Dio. Ma il Signore richiede sempre la conversione. Come leggiamo nel Vangelo di Marco: “Il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo” (Marco 1, 15). Il Vangelo di oggi (Matteo 21, 28-32) si situa sempre nel quarto discorso di Gesù riferito dall’evangelista Matteo e riguarda la comunità dei discepoli, ai quali si chiede la conversione. Particolarmente coloro che hanno responsabilità devono essere esemplari. I due figli, ai quali il padre rivolge l’invito di andare a lavorare nella vigna, ci danno un esempio significativo anche a noi oggi. Il primo dice sì e poi non va; il secondo dice no, poi si pente e va. Tutto ciò riguarda la nostra responsabilità. Infatti bisogna agire, illuminati dalla Parola di Dio, sapendo di essere responsabili delle proprie azioni. I profeti Ezechiele e Geremia sono stati chiari nel loro insegnamento: ciascuno è responsabile di quello che fa. Se facciamo il male, se disobbediamo all’invito di Dio, siamo invitati alla conversione. Lo richiede il regno di Dio, come Gesù stesso ha insegnato. Il regno di Dio è una realtà misteriosa che il Signore rivela solo agli umili e ai piccoli, non ai sapienti di questo Mondo (Matteo 11, 25). E’ un dono di Dio, ma per meritarlo ed entrarvi ci sono alcune condizioni, come spiega il biblista francese Raymond Deville (1923-2010). Certo, tutto è dono di Dio: egli infatti assolda liberamente gli operai per la sua vigna, secondo la parabola raccontata da Gesù (Matteo 20, 1-16). Ci vuole obbligatoriamente la conversione. Se tutto è grazia, bisogna rispondere alla grazia. I peccatori induriti non possono ereditare il Regno dei cieli. E’ raccomandato poi un animo di povero, il sacrificio di ciò che si possiede (Matteo 13, 44 ss), una perfezione maggiore di quella dei farisei (Matteo 5, 20). Finalmente può entrare nel Regno solo chi compie la volontà del Padre (Matteo 7, 21), in particolare quando si tratta di carità fraterna (Matteo 25, 31-46).

Il Regno di Dio infatti, secondo Gesù, è una società alternativa a quella attuale, dominata dall’odio, dall’egoismo, dalla violenza e da ogni male. Nella società proposta dal Signore si è invitati a vivere le Beatitudini (Matteo 5, 1-12). Per vivere le Beatitudini è necessaria sempre la conversione.

Nella parabola raccontata nel Vangelo di oggi c’è il caso di due fratelli: uno dice sì, ma poi non va; il secondo dice no, ma poi si pente e va nella vigna. E’ una storia paradossale, ma ci spiega chiaramente l’atteggiamento dei responsabili del popolo, come i sacerdoti del tempio e i notabili della società. Essi sono come l’albero di fico che ha tante foglie, ma non vi si trovano i frutti (Matteo 21, 18-19). Il tempio i Gerusalemme, inoltre, dove è assicurata la presenza di Dio, è stato trasformato in una spelonca di ladri, invece di essere una casa di preghiera (Luca 19, 45-48). Bisogna convertirsi, per essere degni del Regno dei cieli. Purtroppo i peccatori non si convertiranno mai, fino a quando si crederanno giusti. Ma se accettano la loro situazione di peccatori, anche perché sono pubblicamente indicati dalla società, hanno un vantaggio. Non possono fingersi giusti. Devono capire finalmente che la loro salvezza sta nel fare la volontà del Padre. Fare la volontà del Padre, dice il biblista Silvano Fausti, è il centro del Vangelo di Matteo. Ciò significa finalmente riconoscersi figli del Padre e vivere come fratelli e sorelle.

San Daniele Comboni (secolo XIX), dovunque andava, manifestava a tutti la fraternità di tutti i popoli della Terra. Tutti siamo figli del Padre e tutti sono fratelli e sorelle, secondo l’insegnamento di Gesù. Ma privilegiava gli abitanti dell’Africa Centrale, che erano, in quel tempo, i più poveri e i più abbandonati dell’universo, e che lui chiamava familiarmente la “Nigrizia”. A un suo amico, perché benefattore della Missione Africana, don Goffredo Nocker, così scriveva, il 9 novembre 1864: “L’Africa e gli Africani, che sono i più poveri e più abbandonati del Mondo, si sono impadroniti del mio cuore”.