Ho conosciuto P. Denima quando assieme a P, Bepi, P. Manolo e P. Giulio eravamo formatori alla Maison Comboni, postulati per futuri padri e fratelli comboniani. Era un bel gruppo di bravi ragazzi alcuni dei quali sono missionari seminati in molti paesi dei vari continenti. Ritrovo P. Denima al suo rientro in Patria per vacanze dopo ventisette anni di sacerdozio e di esperienza missionaria in Sudan. Ogni confratello ha delle stupende esperienze di vita e di fede che stuzzicano sempre la mia curiosità. P. Denima non fa eccezione e mi racconta:
Sono originario di Aba, della tribù Mondò e mi chiamo Denima Darama Emanuel. I miei genitori erano cristiani e sposati in chiesa, e noi nove figli tutti battezzati. Mio padre, che è già deceduto. si chiamava Kanito era un agricoltore agronomo, e produceva caffè che vendeva sul posto ai commercianti di varie società. Quando il mercato del caffè non ha più funzionato per scelte politiche, papà ha dovuto cercare altri sbocchi professionali. La mamma si chiamava Rustika ed era impegnata soprattutto in casa, soprattutto con noi figli. Donna di fede partecipava alla Legio Marie in parrocchia. Con gli alti e bassi delle produzioni agricole ci spostammo a Watsa, dove mio papà era stato assunto da signori belgi come agronomo: Visitava i villaggi per seguire i loro campi per la coltivazione del cotone e del tabacco. A Watsa inizio la mia formazione scolastica. In terza elementare traslocammo ancora più a ovest e ci istallammo definitivamente a Dingbo vicino a Mungbere, dove papà era richiesto dai padroni delle piantagioni. Per continuare il percorso scolastico andai dallo zio, fratello del papà, che viveva nel grosso centro di Mungbere “Nsuka na Rail”. (Fine della ferrovia). Mungbere era l’ultima stazione della linea ferroviaria che partiva da Aketi sul Fiume Congo verso nord est, passando da Isiro, ferrovia che da decenni è abbandonata e data in pasto alla savana e alla foresta. Sono il terzo figlio preceduto da due sorelle maggiori, la prima delle quali è già in Cielo, con papà e mamma e altri due fratelli. Siamo rimasti in sei tre maschi e tre femmine.
Com’è nata la tua vocazione missionaria tra i comboniani?
A Mungbere partecipavo molto alla vita della parrocchia, dove ho conosciuto i primi Comboniani, P. Romano Segalini, P. Renato Modonesi, P. Vittorio Farronato e via via. Nel 1981, c’erano le celebrazioni per il centenario della morte di Mons. Comboni, erano state organizzate varie iniziative: Ero ancora un ragazzino. P. Vittorio aveva preparato un teatro sulla vita di Comboni che mi ha colpito e mi è piaciuto. Nella rappresentazione, anch’io ero tra gli attori nel ruolo di Daniele Sorur, primo sacerdote sud-sudanese, amico del Comboni. Ho sentito che il Signore voleva che mi metessi al suo servizio per i Fratelli. Non dubito che la mia vocazione è nata proprio li ascoltando la storia della vita di Mons. Daniele Comboni.
Per continuare le superiori dovetti spostarmi prima a Bafwabaka e poi a Lingondo dove c’era un’ ottima scuola superiore. Venne a renderci visita Mons. Olombe, vescovo della nostra Diocesi di Wamba. Pose la domanda per sapere chi desiderava divenire sacerdote. Io dissi che volevo essere sacerdote missionario tra i comboniani. Un altro studente disse che sarebbe entrato tra i padri della Consolata. Rimasi stupito dalla sua reazione perché si arrabbiò moltissimo, dicendoci: Come volete diventare sacerdoti religiosi quando noi abbiamo gran bisogno di sacerdoti qui in Diocesi? Voi tutti dovete restare in diocesi!”
Sei dovuto andare controcorrente per essere fedele alla tua prima ispirazione, quella di essere comboniano. Che cammino di formazione hai fatto?
Ho terminato le scuole superiori sempre più convinto e deciso ad entrare dai comboniano. Ho chiesto di essere ammesso e mi sono ritrovato nel postulato di Kisangani,. Accolto dai formatori padri Bepi Simoni, Enzo Bellucco e dall’ottimo professore di Filosofia P. Giulio Mariani e tu Fratel Duilio formatore dei postulanti fratelli. Ci rimasi tre anni e fu una bella esperienza che mi rafforzò nella scelta vocazionale. Il noviziato lo feci a Isiro Magambe con P. Lorenzo Farronato come Padre Maestro. E infine per lo scolasticato fui inviato a Nairobi, scelta che avevo fatto anch’io per imparare l’inglese. Ho approfittato per imparare bene anche lo Swahili. Oltre che allo studio mi dedicai anche all’apostolato. Fui ordinato a Mungbere, mio villaggio di adozione, il 3 giugno 1990, ed ero subito pronto per partire in Missione. Alla fine, prima dell’ordinazione, domandai al formatore P. Francesco Pierli di farmi inviare in un Paese anglofono. Come capita quando si fanno delle scelte, i superiori ci pongono difronte alle loro necessità. P. Francesco mi disse c’erano bisogno di giovani missionari per il mondo arabo. La decisione mi ha sorpreso e scombussolato. Per questo fui inviato in Egitto per apprendere l’arabo e poi essere destinato al Sudan. Non ero molto caldo per i paesi arabi, ma poi mi trovai contento della scelta. Il mondo arabo è molto differente dal mio congolese in cui ho vissuto: Vengo da una realtà dove i cristiani sono in maggioranza. E mi trovavo in un Paese dove i cristiani sono in minoranza e marginalizzati. Un piccolo esempio: La domenica per gli arabi è giornata di lavoro, mentre i cristiani vorrebbero celebrare la festa.
Uno dei problemi fondamentali dei missionari è imparare bene le lingue: Vedo che il tuo bagaglio linguistico è ben rifornito: la tua lingua materna il Mondò, il Lingala, il Francese, Inglese, lo Swahili, lingue tribali sudanesi e ancora l’arabo.
Chissà cosa mi attende ancora?… Ho fatto due anni in Egitto e ne sono rimasto contento. L’arabo mi sembrava molto difficile, ma poi imparato il sistema, mi ci sono appassionato. Ora amo e gusto questa lingua. Probabilmente altre lingue come ad esempio il cinese sono ben più complesse. In un primo periodo in Sudan a Khartoum sono stato impegnato al “Comboni College”. Ho dovuto ancora studiare l’arabo parlato in Sudan che è diverso rispetto a quello dell’Egitto. Ho imparato anche un po’ di spagnolo perché ho fatto l’anno di formazione comboniana in Messico. Al termine dello studio della lingua mi fu chiesto se desideravo essere insegnante al Comboni College o essere impiegato nella pastorale diretta. Ho scelto la Pastorale per essere più vicino ai cristiani e alla gente. Mi ritrovai nella Missione di Kosti, tra Khartoum e El Obeid a quattrocento chilometri dalla capitale, assieme ai padri Bettini Ezio e Guido Zanotelli, entrambi già in Cielo.
P. Denima trovarsi in un gruppo minoritario, come quello cristiano, in un mondo arabo, cosa implica?
E’ evidente che i primi tempi sono difficili, in particolare per il problema della lingua. I cristiani, poi non sono liberi di praticare ed esprimere la loro fede. Per esempio in Egitto la nostra chiesa e la nostra casa erano sorvegliate da poliziotti per paura di attentati o azioni di disturbo da parte di estremisti radicali. Diverse persone arabe non amano e non apprezzano la presenza di cattolici, dei copti e di altre denominazioni religiose. Aldilà di tutto ero contento di essere sia in Egitto sia in Sudan, che sono luoghi storici per la presenza di Comboni e del nostro Istituto. In Sudan sento viva la presenza di Comboni.
Uno dei “carismi” dei missionari è di avere sempre le valige pronte. In quali altre missioni fosti spedito?
Dopo quattro anni sono stato inviato nel Darfur a Njala, capitale regionale del Sud-Darfur, dove rimasi altri sei anni. La parrocchia era enorme concento venti cappelle nei villaggi, il più distante a quasi 500 chilometri. Avevano diverse lingue locali benché l’arabo fosse la lingua comunemente parlata. La maggiorità delle persone erano dei Denka. Molto spesso celebravo in denka la loro lingua. Questa tribù era arrivata nel Darfur a causa della guerra del Sud Sudan.
Finché sei in missione lontano dallo sguardo dei superiori maggiori stai tranquillo, ma ci sono sempre i…”ma”… Quale “ma” caduto addosso?
Dopo la pausa per le vacanze in patria, pensavo e chiesi di ritornare in Sudan, ma come succede quando siamo “nel mirino dei superiori”, fui deviato in Congo come formatore dei nostri studenti nel Postulato di Kisangani. Ci rimasi solo due anni poi mi fu chiesto di andare a Kinshasa per aprire un nuovo postulato. Altri tre anni come formatore, “assesonés” (conditi) con lo studio della filosofia. Poi il Postulato è stato riunito a Kisangani, e mi trovai libero.
Nel frattempo il Sud Sudan aveva ottenuto l’indipendenza. Per le autorità ecclesiastiche locali fu l’occasione per riaprire il seminario maggiore, che a causa della guerra era stato spostato al nord. Per il nuovo impegno avevano bisogno di formatori e insegnanti di filosofia e teologia. Si rivolsero ai Comboniani. Con mia gioia mi ritrovai nella lista e fui richiamato in Sud Sudan come insegnante di Filosofia. Ci sono da otto anni.
Così sei diventato prof. di Filosofia? Qualcuno a torto dissacrava la filosofia dicendo: “Che è quella scienza che, con la quale o senza la quale il mondo resta tale quale”. Beh ovviamente non è vero perché il pensiero dei filosofi cambia il modo di pensare e di vivere degli uomini. Cosa mi dici della tua esperienza filosofica?
La filosofia è utile e importante per tutte le realtà. Siamo in un’epoca di grandi cambiamenti. Lo studio da come base le tecniche della filosofia universale, che insegniamo anche ai seminaristi. Per loro diventa un allenamento, una scuola di pensiero, che li abitua a pensare con la loro testa Poi per noi va approfondita la riflessione filosofica africana, nei campi del sociale, della cultura, della morale e della politica, e anche dell’economia. Ho fatto degli studi e ho scritto a proposito della democrazia in rapporto alle varie situazioni africane. La filosofia è molto importante anche per la gente, che spesso non ha il tempo di riflettere, e si ferma ai problemi quotidiani: il cibo, la salute, il vestiario. Le sfide sono tante e fermarsi e riflettere per sapere cosa dobbiamo fare in questa o in quell’altra situazione, su quale linea possiamo andare avanti. Come prendersi a carico e cosa dobbiamo fare per trasformare l’Africa: La politica è caotica, l’economia peggio, la gente è spesso disorientata. Non possiamo continuare in questa maniera. Su quali possibilità e condizioni possiamo far conto? Questa riflessione interessa anche la Chiesa europea che in molti paesi agli inizi era minoritaria, poi maggioritaria e sa ricadendo nel minoritario. Le sfide sono tante e la nostra fede può aiutarci nella riflessione e nell’impegno, contando anche sulla riflessione filosofica.
Hai vissuto diverse situazioni di conflitto sia qui in Patria sia nei paesi di missione.
Mi sono trovato in situazioni di guerra sia in RDC sia in Sudan. Si vive nell’insicurezza Spesso nelle notti sono stato svegliato da concerti di colpi di fucile, e il mattino si viene a conoscenza dei morti Per noi le uscite erano un continuo rischio. Quando sono arrivato a Khartoum i rifugiati fuggiti da zone di guerra erano molto numerosi. Nel Darfur dei villaggi erano stati bruciati e chi si era salvato, era fuggito cercano rifugio nei campi dei rifugiati creando altre situazioni penose. Essere la e condividere le sofferenze della gente sono sempre state delle scelte importanti per noi missionari. Spesso nei quartieri e nei campi, ci siamo trovati in situazioni di pericolo per la presenza di bande formate da sbandati malavitosi. Anche se non potevamo fare gran cosa, la nostra presenza dava coraggio, consolazione e fiducia alla gente.
Il messaggio cristiano in un mondo musulmano che impatto può avere?
Quello che è importante e apprezzata non solo dai cristiani, è la nostra presenza al loro fianco in tutte le situazioni. senza far chiasso. I confratelli stanno facendo un ottimo lavoro, in particolare per la formazione e educazione dei giovani. Basti pensare all’impatto che ha il nostro Comboni College di Khartoum: una scuola apprezzata sia dagli studenti sia dai parenti senza problemi di religione. Purtroppo, nonostante sia una grande scuola, non aveva mai sufficiente posto per rispondere a tutte le richieste di ammissione. Lo stesso problema si ripeteva con le suore che dirigevano una Maternità, dove tutti i musulmani inviano le mamme per il parto, e anche lì i numerosi posti erano sempre insufficienti.
Non è facile trovare gente disponibile per il mondo musulmano sia per l’impatto religioso e culturale che per la lingua, che non è né appetibile né digeribile. Normalmente chi è opera nei paesi musulmani non viene “toccato” dai superiori, che devono però rispondere alle esigenze di altri paesi e di ricambio delle persone. Cosa si prevede ora per te?
Tenendo conto celebravo il venticinquesimo di ordinazione sacerdotale, mi fu chiesto di fare uno stop, partecipando all’Anno Comboniano in Messico, un anno di studio preghiera e riflessione sul nostro fondatore e sulle nostre esperienze in terra di missione. Fu la scoperta del mondo latino-americano, un altro mondo socialmente culturalmente e anche cristianamente differente da quello in cui vivo ancora oggi. Alla fine dell’anno comboniano era in programma un viaggio di due settimane in Terra Santa, ma le autorità Israeliane hanno negato il visto a tutti gli africani del corso… siamo persone indesiderate… (anche in altri paesi). Il mio passaporto, pieno di visti arabi dell’Egitto e del Sudan, non era certo tanto gradito…la frittata era fatta. Sono andati solo i confratelli che erano ebraicamente in regola. Dopo questa pausa, in questi ultimi tempi sono in RDC per il breve periodo di vacanze. Avevo chiesto di ritornare nel Sud Sudan, ma ancora una volta il gran capo, il Superiore Generale, mi disse che ero stato richiesto ancora in Congo per un altro periodo di servizio, ma che la cosa sarà decisa nella Consulta di questo mese. Sono quindi in sospeso come un equilibrista sulla corda tesa a dieci metri dal suolo, spero che sotto ci sia una buona rete e di cadere di nuovo in Sudan.
Com’è il Congo comboniano che ritrovi dopo anni di assenza?
Innanzi tutto sono rimasto colpito dal fatto che le suore comboniane abbiano ormai lasciato le loro missioni nella nostra zona dell’Alto Congo. La diminuzione e l’invecchiamento sono senza dubbio i fattori principali, Ritengo che sia importante restare e continuare con fedeltà, soffrendo assieme alla gente. Anche per noi le sfide sono molte, abbiamo la grazia di avere molte vocazioni. Il rischio di chiuderci è presente ed è indispensabile internazionalizzarsi sempre di più accogliendo missionari che vengono da altri Paese e da altri continenti, dando vitalità e volti nuovi alle nostre missioni e parrocchie. Nel Sud Sudan quella dell’internazionalità è una realtà che ho apprezzato e in cui mi sono trovato a mio agio. E’ un vero dono del Cielo che apre a una testimonianza di fraternità più viva e ricca.
Grazie P. Denima, e ti auguro dopo questa probabile nuova pausa di lavoro in Patria di ritornare in Sudan dove la nostra presenza è un Dono per i cristiani e per i musulmani.