Padre Luigi Consonni
Prima lettura (Sir 27,33-28,9)
Rancore e ira sono cose orribili,
e il peccatore le porta dentro.
Chi si vendica subirà
la vendetta del Signore,
il quale tiene sempre presenti i suoi peccati.
Perdona l’offesa al tuo prossimo
e per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati.
Un uomo che resta in collera verso un altro uomo,
come può chiedere la guarigione al Signore?
Lui che non ha misericordia per l’uomo suo simile,
come può supplicare per i propri peccati?
Se lui, che è soltanto carne, conserva rancore,
come può ottenere il perdono di Dio?
Chi espierà per i suoi peccati?
Ricòrdati della fine e smetti di odiare,
della dissoluzione e della morte e resta fedele ai comandamenti.
Ricorda i precetti e non odiare il prossimo,
l’alleanza dell’Altissimo e dimentica gli errori altrui.
“Rancore e ira sono cose orribili”, perché generano lo stato d’animo distruttivo della persona e del rapporto interpersonale e sociale, suscitando separazione, divisione, isolamento. Sono ritenuti “cose orribili” a seguito di l’offesa o torto e suscitano avversione, rabbia e violenza vendicativa.
“il peccatore le porta dentro”, per gli effetti appena accennati e la devastazione del proprio mondo interiore. Rancore e ira creano nel peccatore dipendenza, schiavitù, vuoto e non senso, sconvolgimento, disagio e insicurezza, inefficacia, sterilità e insoddisfazione delle proprie azioni e comportamenti.
Il brano indica le conseguenze negative nel rapporto con il Signore – “Chi si vendica subirà la vendetta del Signore, il quale tiene sempre presenti i suoi peccati” – che sostengono e promuovono condizioni disumane, contrarie alla volontà e al progetto di Dio. Perciò l’autore esorta al perdono: “Perdona l’offesa al tuo prossimo e per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati”.
Sorgono alcuni interrogativi. Se l’uomo mantiene il suo mondo interiore prigioniero del rancore e dall’ira, “Come può chiedere la guarigione (…) come può supplicare per i propri peccati (…) come può ottenere il perdono? Chi espierà i suoi peccati?”.
L’antidoto è la memoria: “ricordati della fine e smetti di odiare (…) resta fedele ai comandamenti”. La memoria è un riferimento inalienabile di vita per tenere saldo, e rendere attuale nel proprio mondo interiore, il dono della compassione e della misericordia di Dio per liberare il popolo, e la persona stessa, dalla schiavitù del male, ovvero dal peccato. Pertanto, “ricordati della fine” della vita, e appunta alla pratica del diritto e della giustizia nell’accogliere l’avvento della sovranità di Dio nei rapporti interpersonali e sociali, in modo da conseguire il fine del dono di Dio.
Celebrare la memoria non è ricordare le azioni di Dio nel passato ma, per la fede, attualizzare la forza che rigenera, libera e riscatta la libertà interiore e la capacità di donare la misericordia, esperienza diretta del dono dell’amore del Signore.
Ciò anche in considerazione della fedeltà ai termini dell’alleanza e la conseguente promessa di un futuro “di vita in abbondanza” (Gv 10.10), che vince la morte nel presente con l’innestare nella persona la vita senza fine, anticipo della gloria futura.
È innegabile che chiunque è dominato dal rancore, dall’ira e dalla violenza soffra lo sconvolgimento del proprio mondo interiore, la perdita della serenità d’animo, il controllo delle emozioni, la possibilità di riflessione ponderata e il corretto procedere a causa del malessere, del senso di ingiustizia in cui è trascinato. La ricaduta coinvolge non solo il rapporto con sé stesso, ma anche i rapporti interpersonali, famigliari, professionali e sociali.
Solo la memoria di quel che Gesù ha fatto per ognuno, e per l’umanità intera, chiude la ferita e fa sì che si possa “dimenticare gli errori altrui”, nel senso che il ricordo della ferita non attualizza il rancore e il risentimento e non intralcia il rapporto di fraternità nell’accogliere l’avvento del regno.
Paolo, per esperienza personale, ne è un esempio.
Seconda lettura (Rm 14,7-9)
Fratelli, nessuno di noi vive per sé stesso e nessuno muore per sé stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore.
Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore.
Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi.
Paolo, memore dell’esperienza del Risorto alle porte di Damasco, e degli effetti della morte e risurrezione di Gesù Cristo in lui e a favore di tutta l’umanità, afferma: “nessuno di noi vive per sé stesso e nessuno muore per sé stesso”.
Rivolgendosi ai componenti della comunità di Roma, che condividono la stessa fede in Gesù Cristo, egli dà per scontato che l’esistenza di ognuno, il vivere quotidiano, i progetti dell’oggi e il futuro pieno di speranza non rimangono circoscritti nel proprio ambito.
Questo perché ha davanti a sé, o meglio, è immerso nell’orizzonte infinito del mistero di Dio, che declina in lui il dono dell’amore per la comunità e l’intera umanità. Con esso acquisisce, per esperienza diretta, la conoscenza dell’amore di Dio e come operare, nell’ambiente e nella circostanza in cui vive, con i corretti criteri di vita e di condotta per coinvolgere, nella stessa esperienza, i destinatari dell’evangelizzazione.
Da ciò l’affermazione generale dell’esistenza e del vivere di ogni giorno: “… se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore”, fondata sulla constatazione che “Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore”.
Paolo argomenta a partire dal consolidato e forte senso di appartenenza, in virtù del quale afferma: “questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato sé stesso per me” (Gal.2,20b), facendo sua la fede escatologica (l’ultimo e definitivo della vita del credente e dell’umanità), impiantata da Gesù per l’accoglienza dell’avvento del Regno.
La consegna di Gesù per la causa del Regno, motivata e sostenuta dall’amore trinitario di cui egli è portatore per natura, ma soprattutto per la sua immensa fede (avendo messo tra parentesi la condizione divina) che insegna a ogni uomo, e all’umanità intera, come procedere nella fedeltà all’alleanza testimoniando la grandezza, la profondità, la magnanimità del dono-per, ossia del perdono, in chi lo accoglie con fiducia, non in virtù dei propri meriti ma per la compassione, la misericordia e la magnanimità di Dio.
È tutt’altra cosa la disposizione e l’atteggiamento per il rancore e l’ira, probabilmente sostenuta dall’infedeltà all’alleanza, dall’inconsistenza della fiducia in Lui e la strumentalizzazione della promessa per interessi, personali e sociali, che non nulla hanno a che vedere con l’insegnamento e la pratica di Gesù.
Sorprende che il perdono di Dio è sempre a disposizione ed efficace. Esso è attivo, per la fede, particolarmente quando la sopraffazione del peccato domina la buona intenzione e la volontà di resistergli. Lo stesso Paolo fa esperienza della fragilità e del dominio del male in lui, al punto di chiedersi: “Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?”. E subito aggiunge: “Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!” (Rm 7,24).
“Per questo, infatti, Cristo è morto ed è risorto alla vita: per essere Signore dei morti e dei vivi”; dei morti, riferendosi non solo a coloro che hanno terminato l’esistenza terrena, ma a coloro che, pur in perfetta salute e forza fisica, sono morti dal punto di vista umano, psicologico, morale e sociale per il venir meno alla Parola e allo Spirito. I vivi, al contrario, sono coloro che accolgono il dono del Regno e camminano, sempre più speditamente, verso la pienezza di vita, la vita in abbondanza fonte di gioia.
Il perdono ricevuto e donato occupa un posto centrale nel discepolo del Regno di Dio, come testimonia il vangelo odierno.
Vangelo (Mt 18, 21-35)
In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.
Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.
Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.
Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto.
Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».
“Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: “Signore, se mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?”. Pietro con questa domanda fa capire che l’unica cosa che gli interessa approfondire riguarda il perdono: vuole mettere un limite oltre il quale non si può concedere il perdono, vuole una regola precisa perché è un insegnamento che va contro la sua mentalità e contro la propria tradizione.
I rabbini dicevano che si può concedere il perdono fino a tre volte, ed era una cosa già di grande generosità, di grande apertura. Pietro aumenta di molto, sette volte, e crede di abbondare. Usa una cifra tonda, il sette, come per dire che non si può passare oltre. Vuole il limite massimo, superato il quale si è esonerati dall’obbligo del perdono.
“E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette”. Gesù va molto oltre, ossia sempre! La cifra – settanta volte sette – non costituisce il numero, di per sé limitato, che contraddistingue il perdono, ma la qualità del perdono, che deve essere illimitato. Gesù presenta la misura che adopera Dio quando concede o condona i debiti. Pertanto bisogna cambiare mentalità riguardo al perdono, capire l’insegnamento di Gesù per cambiare il modo di intendere il rapporto con Dio e con gli altri.
È un’esigenza senza limiti, per chi accoglie la sovranità di Dio, l’avvento del suo Regno. E ne spiega i motivi attraverso la figura del sovrano citato nella parabola.
Ebbene, la sovranità di Dio Padre (come per il sovrano), e l’esercizio della sua regalità, ha come forza propulsiva la compassione davanti alla scelleratezza di chi ha contratto un debito così enorme che sa di non poter mai restituire, neanche con la vendita “di lui con la moglie, i figli e quanto possiede”. Più ancora, essa non viene meno neppure per la supplica sostenuta dalla falsa promessa: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”.
È sorprendente che la compassione non venga meno nei confronti del servo che mente spudoratamente, con il probabile intento di farla franca per poi eclissarsi, come succede in persone radicalmente corrotte e difficilmente rigenerabili. Tuttavia il Padre declina la compassione in misericordia: “lo lasciò andare e gli condonò il debito”, probabilmente come ultimo tentativo di riscattarlo a nuova vita.
A causa della propria fragilità e vulnerabilità, ogni essere umano ha bisogno, per sopravvivere, del perdono che Dio dispensa in modo totalmente gratuito, e senza preclusione alcuna. Dio è disposto a perdonare, in qualsiasi momento, qualsiasi errore.
Mettendo all’origine di tutto il perdono di Dio, la parabola dà la giusta interpretazione della quinta richiesta del Padre nostro: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” (Mt 6,12). Non è Dio che subordina il suo perdono a quello dell’uomo nei confronti dei suoi simili ma, al contrario, è l’uomo che, coinvolgendosi nel perdono di Dio, non può non praticarlo a sua volta nei rapporti con gli altri.
La radicale corruzione del servo è manifesta nell’atteggiamento inflessibile e senza sconti verso chi gli doveva un debito che, sicuramente, avrebbe potuto restituire. Il proposito del re di redimerlo è andato a vuoto come, nell’ultima cena, fallisce il tentativo di Gesù di intingere il boccone e darlo a Giuda; si tratta di un gesto di profonda considerazione, associato alla pura gratuità e all’invito ad essere sé stesso: “Quello che vuoi fare, fallo presto” (Gv 13,26-27).
“Così anche il Padre mio celeste farà a voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello”. Con il termina “cuore” non si riferisce al sentimento, all’affetto, all’emozione, ma alla nuova mentalità, intrisa di compassione e misericordia, che sostiene ed elabora il progetto di conversione e rigenerazione.
Quando al perdono si oppone l’intransigenza degli uomini verso i propri simili, a causa dell’insensibilità dovuta alla vita corrotta e disumana – “non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?” – si blocca il flusso della misericordia divina e, con esso, si rende impossibile la remissione dei peccati. Il perdono di Dio è totalmente gratuito e preveniente (sempre attuale e ‘previene’ la libera azione dell’uomo), ma viene convalidato, nel vissuto della persona, mediante il perdono accordato dalla prospettiva redentrice.
Il perdono gratuito di Dio è garantito a tutti per mezzo di Cristo, che in tal modo manifesta la Sua solidarietà con i peccatori, gli ultimi, i diseredati dall’avvento del Regno in questa vita. Esso ristabilisce la dignità della persona, con la rimozione delle barriere che separano i rapporti interpersonali, e l’impegno per una nuova società, fraterna e responsabile del bene per tutti.
Bisogna superare una concezione “assistenziale” del perdono di Dio, collegata all’idea che esso si esaurisca nel sacrificio di Gesù sulla croce. Il suo perdono è, invece, una realtà molto dinamica e inesauribile, che crea nuovi rapporti interpersonali e rende possibile la vita sociale secondo il disegno del Padre.
Dall’insegnamento e dalla pratica di Gesù si coglie l’ampiezza e la profondità del rapporto compassione/misericordia, che caratterizza fondamentalmente il vivere cristiano, inseparabilmente connesso con l’amore verso il prossimo. Tale dinamica, sorretta e motivata dalla pratica del perdono, sostiene il flusso costante della misericordia divina e può essere interrotto solo da chi non crede o rifiuta l’evento del perdono.
Solo il perdono – il dono per … – manifesta l’efficacia del sacramento della riconciliazione (confessione) – e cancella per sempre i peccati dall’orizzonte del Signore: “Così anche il Padre mio celeste farà a voi se non perdonerete di cuore ciascuno al proprio fratello”.
Il perdono non cancella dalla mente, né rimuove dal mondo interiore l’offesa ricevuta, ma chiude la ferita. La cicatrice rimane, è visibile, ma non fa più male. Si può guardarla serenamente e sentire, nel profondo dell’animo, compassione/misericordia per coloro che l’hanno causata.
In quell’istante il regno di Dio è presente e il tempo è compiuto, ossia ha raggiunto il fine per il quale è stato creato, e la buona notizia del perdono per i propri peccati diventa buona realtà.