Fratel Aldo Pedercini

Fa buio, vado a prendermi un the per svegliarmi, e passo dal lungo corridoio di Casa Madre da dove intravvedo la porta della cappella del “Buon Pastore” aperta e con le luci accese. Non serve che sbirci dentro perché so che li, primo della comunità in preghiera, c’è Fratel Aldo Pedercini. Ha mantenuto i ritmi e tempi di preghiera “africani”. Laggiù ci si alza alcune ore prima che il sole sorga approfittando del fresco e del silenzio per iniziare bene la giornata dandogli il tono giusto mettendola nelle mani del Signore. Dopo la colazione ecco di nuovo Fratel Aldo alle prese con le cassette delle tegoline, per pulirle e “togliere il filo”. Il suo esempio richiama altri confratelli che vengono in aiuto. Nonostante usi il bastone a causa delle ginocchio che gli fa cilecca, va via veloce come un treno. Non lo vedi mai stare con le “mani in mano”. Penso sia così “fin dal seno materno”. Alle volte mi viene di paragonare la sua instancabile attività a quella delle api. Il nomignolo “Fratel Pipetta” gli viene dal fatto che un tempo aveva spesso la pipa in bocca e fumava come una locomotiva in salita. Nei nostri giorni la pipetta sul suo tavolo è diventata un monumento ai tempi passati.

Fratel Aldo da dove sei sbucato fuori per farti comboniano?

Sono nato a Cologne (BS) il 10 febbraio del ’36. La mia era una famiglia con profonde radici cristiane. Il papà che era un bravo falegname lavorava a Milano costruiva i telai per la Radio Marelli.Il lavoro lo teneva lontano da casa dal lunedì al sabato. La mamma era una brava casalinga e ha “tirato su” tredici figli. Ora siamo rimasti in cinque. Nel 1945, uno dei miei fratelli, che era in quinta elementare, è morto dilaniato da una bomba a mano, residuo di guerra Era salito sulla montagna con alcuni amici e l’aveva scovata tra i cespugli. Senza prevedere le conseguenze aveva tirato la catenina della linguetta di sicurezza. E’ rimasto dilaniato dallo scoppio mentre i suoi amici ebbero grosse lesioni agli occhi. La mamma non aveva sentito lo scoppio della bomba, ma chissà per quale premonizione disse: “Mio figlio è morto…” ed è partita subito alla ricerca. Trovandolo, chi può immaginare quanto sia stato sconvolgente il suo dolore.

Come mai Fratello Comboniano?

Credo che la chiamata del Signore mi sia venuta attraverso l’esempio di Fratel Mario Mettelli, Comboniano del mio paese. La mia famiglia non possedeva compagna, e siccome mi piaceva lavorare andavo dalla sorella di Fratel Mario per dare una mano nei lavori agricoli. Così ebbi modo di conoscerlo e di conoscere i comboniani. Lui era stato anche militare e aveva combattuto in Libia. Al mio paese arrivava spesso un altro comboniano cavalcando la sua Moto Guzzi: P. Antonio Barbieri in cerca di nuove vocazioni. P. Antonio partì poi in missione in Sudan e vi morì subito per la famigerata “febbre nera”, era molto giovane. Decisi di prendere il suo posto come missionario. Lo dissi a mio papà il quale acconsentì. Il mio fratello maggiore che era presente disse: “Ma papà, digli di no perché due mani in più ti possono essere di aiuto…” e il papà di rimando “Guarda se vuoi andare anche tu missionario, vai pure… se ci sono spese pago tutto io…”

Deciso tu e deciso tuo papà. Sei partito subito?

Si! Nel 1949, quando Fratel Mario partiva per l’Africa, io entrai a Thiene, nel seminario di formazioneper diventare Fratello Missionario Comboniano. Per cinque anni oltre che al cammino di formazione spirituale, ho studiato meccanica. Seguì il noviziato a Gozzano (Piemonte).Durante il Noviziato venne in vista il P. Generale mi disse che mi avrebbe mandato in Sudan. Era necessario imparare l’inglese ea metà percorso del noviziato, fui mandato in Inghilterra con fr. Bonafini e fr. Stocco. Nel 1956…ritornai a Thiene come istruttore di meccanica …ci rimasi per altri tre anni. Si sa che i superiori interpretano la Volontà di Dio secondo i loro desideri e così nel 1959 mi trovai di nuovo in Inghilterra per costruire il seminario di Merfield. Eravamo una ventina di fratelli, ben affiatati e ben organizzati, ma non avevamo ne tempo ne permesso di frequentare scuole per apprendere bene l’Inglese, dovevamo sbrogliarcela.. Ero incaricato della messa in opera di tutto l’impianto idraulico sotto la direzione di un tecnico inglese che poteva certificare che il lavoro era stato fatto secondo le regole.

Dopo tutta questa preparazione e questi lavori i superiori avranno certamente pensato di mandarti in missione….

Finalmente nel 1964 potei partire per la missione non più in Sudan come era la “primigenia ispiratio” del P. Generale, ma in Uganda. Dal Sud Sudan tutti i missionari erano stati espulsi. Partii in nave. Il canale di Suez era chiuso così facemmo la circumnavigazione dell’Africa, fino a Mombasa e poi in treno fino a Kampala. Fu mandato a Olepi in diocesi di Arua, con p. Serri che è uno dei nostri martiri e P. Sacco (che poi per un incidente subito in Italia rimase seriamente handicappato per molti anni)., e un sacerdote locale Don Martino che poi divenne vescovo. Dopo alcuni mesi dovetti sostituire Fratel Bonafini che rientrava in Italia per le sue vacanze. Ho prestato servizio in diverse diocesi dell’Uganda: Arua, Gulu, Masindi e in Karamoja. Dappertutto ho trovato dei Fratelli anziani che avevano vissuto anche le varie guerre che avevano capacità fuori dal comune e che erano amati e stimati dalla gente. In loro ho trovato dei pazienti e ottimi maestri. Tra i padri con cui ho vissuto, ricordo in particolare P.Bernardo Sartori che era molto buono e che voleva un gran bene a noi Fratelli.
Nel 1991 ho vissuto tutta la guerra di Amin. Ho dei bei ricordi della vita in missione anche se durante la dittatura di Idi Amin, che era musulmano e ce l’aveva a morte con noi cattolici, abbiamo sofferto. Sia a Kitgum, sia poi a Moyo, i cari amici protestanti, per togliermi dai piedi, mi avevano accusato dai militari di uscire di notte per aiutare i ribelli, e sono finito ingiustamente agli arresti domiciliari per alcune settimane. Mi portarono poi alla Kampala la capitale, dove giudicato mi dissero che nei due distretti in questione non potevo più tornarci. Andai in vacanze in Italia.

So che poi andasti in Etiopia, come e perché hai fatto questo passaggio che richiede il sacrificio di imparare nuove lingue e assimilare nuove culture?

Nel 1994, io stesso chiesi di essere mandato in altra missione, per non creare problemi e dar fastidi ai confratelli a causa delle autorità che mi avevano “preso di mira”, e fui dirottato in Etiopia. In effetti è facile capire che ogni tribù in ogni paese ha la sua lingua, i suoi usi e costumi. Il salto culturale non sempre è facile. Pur sapendo quanto sia importante conoscere bene queste cose e soprattutto la lingua locale, mai nessun superiore mi ha dato la possibilità di avere un insegnante per impararebene una lingua. In questi continui salti di luoghi e culture, imparavo quello che potevo, gomito a gomito con la gente… una bella sofferenza.
Benché i Fratelli Comboniani del passato abbiano fatto cose straordinarie sia nello sviluppo sociale sia nella pastorale, con un certo senso critico posso dire che il principio che guidava le scelte del padre generale degli anni sessanta, era che un Fratello Comboniano doveva sapere fare bene due cose: La polenta e l’orto! L’Etiopia è meno povera delle regioni dell’Uganda dove ho vissuto, e la gente nei secoli ha coltivato meglio la propria cultura e le tradizioni. Ma mi sono trovato al mio posto sia nel primo che nel secondo Paese, ho voluto bene alla nostra gente e loro hanno apprezzato la mia presenza.

Quali erano i tuoi compiti?

Affiancai come meccanico e istruttore, Fr.ToniGasparini, con cui avevo già lavorato in Uganda, nel garage diocesano di Awasa. Ad Awasa eravamo un bel gruppo di Fratelli, una bella “forza motrice” da parecchi kilowatt, di cui conservo bei ricordi e grande stima: Fratel Gasparini, Fratel Cariani, Fr. Girelli, Fr. Acedo. Ogni nome ha dietro una storia di dedizione, capacità, impegno e di santità concreta. In missione si impano diversi mestieri per cui non ero solo incaricato della meccanica ma anche della falegnameria e delle costruzioni e all’occasione diventavo infermiere. Devo molto a Fratel Toni e a Fratel Acedo, perché da loro due ho imparato molto, non solo a livello tecnico ma anche nel rapporto con le persone per essere un buon testimone dell’Amore che Dio ha per ognuno.
A ottantasei anni, dopo cinquantaquattro d’ Africa, sono rientrato nel 2021, per subire interventi chirurgico per due ernie inguinali e mettere le protesi alle due ginocchia, il tutto frutto dei lavori pesanti fatti in missione. Faccio quanto ancora posso e mi preparo con gioia ad andare in Cielo … se tutto va bene.Ringrazio il Signore perché mi ha aiutato, forgiato, sostenuto e amato in questi cinquantaquattro anni africani, che sono stati favolosi, un vero dono ricco di belle esperienze e grandi incontri. Come io ho voluto prendere il posto di P. Antonio Barbieri, spero che ci sia qualche altro giovane che voglia prendere il mio posto, e vi assicuro che ne vale la pena.

A cura di Fr Duilio Plazzotta