Padre Luigi Consonni

Commento alle letture: XX DOMENICA DEL T.O. -C-
(14/08/2022)

 

Prima lettura (Ger 38,4-6.8-10)

In quei giorni, i capi dissero al re: «Si metta a morte Geremìa, appunto perché egli scoraggia i guerrieri che sono rimasti in questa città e scoraggia tutto il popolo dicendo loro simili parole, poiché quest’uomo non cerca il benessere del popolo, ma il male». Il re Sedecìa rispose: «Ecco, egli è nelle vostre mani; il re infatti non ha poteri contro di voi».
Essi allora presero Geremìa e lo gettarono nella cisterna di Malchìa, un figlio del re, la quale si trovava nell’atrio della prigione. Calarono Geremìa con corde. Nella cisterna non c’era acqua ma fango, e così Geremìa affondò nel fango.
Ebed-Mèlec uscì dalla reggia e disse al re: «O re, mio signore, quegli uomini hanno agito male facendo quanto hanno fatto al profeta Geremìa, gettandolo nella cisterna. Egli morirà di fame là dentro, perché non c’è più pane nella città». Allora il re diede quest’ordine a Ebed-Mèlec, l’Etiope: «Prendi con te tre uomini di qui e tira su il profeta Geremìa dalla cisterna prima che muoia».

Quest’uomo non cerca il benessere del popolo, ma il male”. Parole durissime, pesanti come un macigno che cade sulle spalle del profeta Geremia, attraverso le quali i capi del popolo lo accusano davanti al re. Con l’assedio di Gerusalemme, da parte del re babilonese Nabucodonosor, i capi e le autorità del popolo esortano i cittadini a resistere, fiduciosi della condizione di “popolo eletto” e nel tempio, pedana dove Dio poggia i suoi piedi e ombelico del mondo che collega cielo e terra.
È concezione comune che mai Dio permetterà la profanazione del tempio né la vittoria dei nemici. Egli è al loro lato per liberare l’assedio. Geremia invece predica il contrario: la città verrà invasa, il tempio distrutto, il popolo deportato in esilio a Babilonia a causa della infedeltà all’alleanza. Gli argomenti e le esortazioni dei capi sono ritenuti dal profeta un terribile e devastante inganno.
Come è ovvio in situazioni del genere, la tensione fra Geremia e le autorità sono al culmine, al punto che i capi chiedono al re la sentenza di morte: “Si metta a morte Geremia, appunto perché scoraggia i guerrieri (…) e scoraggia tutto il popolo”, perché non vuole il bene del popolo ma il male. È l’accusa di tradimento.
Il re non ha forza politica di opporsi, anche se non è d’accordo con la condanna. Aveva ascoltato Geremia in un incontro segreto ed era rimasto particolarmente impressionato. Tuttavia non si oppone agli accusatori e decide: “Ecco egli è nelle vostre mani; il re non ha poteri contro di voi”; e costoro lo gettano nella cisterna di fango, condannato a morire di stenti.
È il dramma dei profeti di ogni tempo. Chiamati da Dio, non si comportano da teologi di corte, non sintonizzano con quello che le autorità e il potere si aspettano; al contrario, smontano i loro piani e creano sconcerto nelle persone e nel popolo. La solitudine dei profeti è radicale al punto che si domandano perché, e che senso abbia, la loro chiamata e l’affidamento della missione profetica.
Entra in scena Ebed-Mèlec, l’etiope, un eunuco che nella reggia è al servizio del re. Mosso a compassione e rattristato per l’accaduto, si avvicina al re fuori dalla reggia, lontano dagli occhi e dalle orecchie indiscrete e supplica: “quegli uomini hanno agito male facendo quanto hanno fatto al profeta (…) morirà di fame, perché non c’è più pane nella città”.
Per mezzo suo – straniero e per giunta eunuco (il tipo di persona più disprezzato dal popolo d’Israele) – il Signore interviene a favore di Geremia strappandolo dall’inevitabile morte. È sorprendente e sconcertante l’azione di Dio, ma essa deriva proprio dalla sua giustizia e libertà di agire fuori da schemi o canoni ritenuti vincolanti dalle autorità e dall’istituzione religiosa.
Pertanto, ogni persona mossa dal senso di giustizia e di rettitudine media la volontà e l’azione di Dio, indipendentemente dalla nazione di appartenenza o dalla religione che professa. Così si profila l’apertura del rapporto fra Dio e le persone che appartengono alle più diverse origini e fedi ed emerge l’azione di Dio nelle circostanze che sviliscono la giustizia e il diritto, in nome della dignità e sacralità della vita, ingiustamente ferita o disprezzata. Nella circostanza il re, libero dalle precedenti pressioni, ordina d’intervenire immediatamente: “Prendi tre uomini di qui e tira su il profeta Geremia dalla cisterna prima che muoia”.
Normalmente l’attività profetica che non si lascia corrompere da interessi di vario tipo (denaro, prestigio, incarichi di governo, benevolenza delle autorità costituite, ecc.) suscita divisioni, conflitti, tensioni con le istituzioni, con i governanti e anche con le persone care legati da affetti sinceri. Sono situazioni dolorose che non sempre trovano vie d’uscita nella riconciliazione, sopportazione o tolleranza; anzi, molte volte sanciscono l’allontanamento, il persistere del disagio, dell’opposizione e, in casi estremi, addirittura la perdita della vita.
Solo la fiducia in Dio e l’amore per la causa del Regno sostengono la sintonia del profeta nello svolgere correttamente la missione. Esse, per il profeta, sono come l’asse dell’esistenza, della fiducia che lo sostiene negli inevitabili momenti di solitudine, nello sperimentare il singolare e sorprendente legame serenità-sofferenza nell’autentica comunione con Dio.
Anche in questo, Gesù, profeta per eccellenza, è maestro e guida, come indica la seconda lettura.

 

Seconda lettura (Eb 12,1-4)

Fratelli, anche noi, circondati da tale moltitudine di testimoni, avendo deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento.
Egli, di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore, e siede alla destra del trono di Dio.
Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d’animo. Non avete ancora resistito fino al sangue nella lotta contro il peccato.

L’autore della lettera si rivolge ai connazionali: “anche noi, circondati da tale moltitudine di testimoni” – i grandi uomini della storia del capitolo precedente – abbiamo “deposto tutto ciò che è peso e peccato che ci assedia”: il peso degli errori commessi e del peccato di sfiducia, di sottovalutazione, di indifferenza, che allontana e separa da Gesù Cristo e dall’attualizzazione degli effetti del mistero pasquale a loro favore.
Cosicché, liberati, rigenerati e trasformati in nuova creatura, l’autore esorta: “corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù”, in modo che dal profondo di sé sorga lo slancio, la proiezione in avanti senza soste, sorretti dalla testimonianza di Gesù per raggiungere la sua stessa meta.
A tal fine è imprescindibile fissare lo sguardo su Gesù senza distoglierlo da altre proposte o in altre direzioni. Lo sguardo fisso su Gesù riguarda “colui che dà origine alla fede e la porta a compimento”, mettendo tra parentesi la condizione divina (Fil 2,7) senza beneficiarsi di quelle prerogative da un lato, e dall’altro nel farsi povero da ricco che era (2Cor 8,9), ponendosi nella condizione di uomo comune fra gli uomini.
Gesù accoglie la volontà del Padre e, condotto dallo Spirito come un uomo fra gli uomini, attiva in lui il processo di fede dall’inizio dell’attività pastorale fino alla fine, con l’evento pasquale. Simile agli uomini nelle vicissitudini del cammino per la causa del regno, non viene meno alla fiducia nella promessa del Padre. Succeda quel che succeda raggiungerà il fine nel mantenere fedeltà alla causa dell’avvento del Regno, fino alla croce. In tal modo porta la fede al compimento e testimonia di essere “il cammino, perché verità e vita” (Gv 14.6).
L’amore trinitario, che da umano accoglie e nel quale è immerso, motiva il suo essere e operare. In tale condizione percepisce quello che gli sta dinanzi: non solo il rifiuto da parte del popolo e delle autorità e la tragica fine sulla croce, ma ancor più, la gioia del riscatto dell’umanità dal peccato e dalla schiavitù. E afferma l’autore: “Egli, di fronte alla gioia che gli era posta dinnanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore”.
Tale comportamento spiega perché, nel consegnarsi per la causa, sperimenta “la potenza di una vita indistruttibile” (Eb 7,16). Con altre parole, percepisce la potenza della risurrezione nel sedere “alla destra del trono di Dio”. Paradossalmente, la croce è il trono della gloria di Dio, il farsi del regno di Dio, della sua sovranità, l’avvento nell’“oggi” (Lc 4,21) della salvezza.
Ed ecco l’esortazione: “Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, (…)”, nel considerare gli effetti del suo insegnamento, della sua filosofia e pratica di vita, del suo amore – che è lo stesso del Padre e dello Spirito coinvolti nella vicenda – e, soprattutto, del destino dell’umanità di Cristo rigenerata nella gloria di Dio. Il tutto “(…) perché non vi stanchiate perdendovi d’animo”.
Nell’approfondire e meditare l’evento Gesù Cristo i discepoli, coinvolti per la fede nel fascino e nello stupore della potenza dell’amore nei loro confronti e verso l’umanità intera, sperimentano la forza interiore per non scoraggiarsi nelle difficoltà provenienti dagli oppositori, in modo da superare la frustrazione di risultati legittimamente attesi e non raggiunti e di accettare la solitudine e l’incomprensione delle persone care, dei membri della stessa comunità e del potere sociopolitico.
L’autore riprende e minimizza le difficoltà: “Non avete ancora resistito fino al sangue nella lotta contro il peccato”; e annuncia che verranno ancora altre: la lotta contro il peccato, la fermezza contro ogni tipo di opposizione per non cadere nella sfiducia, il coraggio nel mantenere la fiducia pur nel vuoto e nel senso di abbandono da parte di Dio che apparentemente, rende “inutile” il lavoro svolto. Il peccato è anche negli oppositori, addirittura con il versamento del sangue, in forma tragicamente ironica credendo di servire Dio.
La resistenza fino al sangue è possibile solo interiorizzando l’amore di Gesù e la causa per cui dona la sua vita, evento di verità e della gloria di Dio nella fedeltà alla causa del Regno. È rivivere la stessa passione di Cristo.
Il vangelo testimonia gli effetti del coinvolgimento personale di Gesù per la causa del regno, e la ricaduta a livello sociale e famigliare.

 

Vangelo (Lc 12,49-53)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso! Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto!
Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione. D’ora innanzi, se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due e due contro tre; si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera».

Gesù, in cammino verso Gerusalemme, sa quel che lo attende. In modo perentorio si rivolge ai discepoli e afferma: “Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse acceso! Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto!”. Il fuoco e il battesimo si riferiscono all’evento della croce. Il fatto che desideri ardentemente, e con angoscia, che tutto si compia crea grande sconcerto in ogni ascoltatore.
Con il senno di poi, dopo l’evento pasquale e l’invio dello Spirito Santo, si comprende che il “fuoco” e il “battesimo” sono metafore per indicare l’azione purificatrice dello Spirito, che apre la mente di Gesù all’amore, fino alla consegna; amore che lo immerge – “battesimo” – nella circolarità della vita trinitaria.
L’uomo Gesù, e l’umanità che rappresenta davanti al Padre, “aumentano” Dio, non nella sua essenza ma per la consegna, per l’amore alla persona e all’umanità nel chiamarli e donare la comunione con sé. Questo perché la teologia riconosce in Dio due nature: la prima è la “natura primordiale”, per la quale Dio nella sua essenza è il principio di tutto, il mistero che sempre rimarrà tale; la seconda e la “natura conseguente”, per la quale Dio nella persona umana di Gesù – rappresentante dell’umanità – è coinvolto nello sviluppo delle cose che percepisce a modo suo, motivo della sua crescita.
D’altronde, come può esserci amore tra i due se una delle due parti è perfetta, immutabile e non riceve nulla dall’altra, dal momento che siamo abituati a pensare alla totalità di Dio? Pertanto, la “natura conseguente” di Dio rende comprensibile il coinvolgente dialogo di amore della Trinità con la persona, con l’umanità, nello stabilire il rapporto presente/futuro dell’evento ultimo e definitivo, con l’avvento nel presente della sua sovranità.
Il desiderio del fuoco già acceso e del battesimo già realizzato è la dinamica dell’amore che coinvolge tutto e tutti, tanto grande è l’impegno di far sorgere e consolidare quello che Papa Paolo VI chiamava “la civiltà dell’amore”, in termini biblici il regno di Dio.
In Dio, amore e pace è un binomio inseparabile. Per le persone e la comunità non sempre è così. Come i genitori con i figli, come le persone che stabiliscono una vera amicizia, o gruppi sociali che perseguono il bene comune, sorgono situazioni e circostanze che generano dissapori, tensioni, conflitti, o addirittura allontanamento e rigetto violento. È quello che accade a Gesù.
Sono una stonatura e un motivo di perplessità, nel discepolo, le parole di Gesù: “Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione”, che contrastano con altri testi dove, per esempio, lo stesso Gesù prega il Padre affinché tutti siano uno. Di primo acchito esse segnalano un ruolo che non si addice a Lui e alla sua missione.
Lo sconcerto dirompe: “D’ora innanzi, se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due e due contro tre; si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre (…)”. Il messaggio è che, pur nel rispetto dovuto ai genitori, l’adesione alla causa del regno può condurre il rapporto familiare a incomprensioni, allontanamento e contrarietà.
Gesù rende edotti i discepoli della differenza, del salto qualitativo, tra la filosofia e il costume di vita consolidato dalla tradizione e quello del regno di Dio. Egli non si riferisce alla divisione di figlio contro figlio, di fratello contro fratello. I nemici di questa nuova realtà, di questa nuova relazione con il Padre saranno quelli che non accettano la novità.
Eppure Gesù è quel Dio che è venuto a fare nuove tutte le cose. Chi si ferma al passato non potrà mai comprendere la novità che lo Spirito propone.