Padre Alessio Geraci

A partire dal cuore ……

Nella prima lettura di questa quindicesima domenica del tempo ordinario, Mosè nel libro del Deuteronomio, rivolge agli Israeliti un invito che vale ancora oggi per ogni uomo e donna di tutti i tempi storici e di ogni latitudine geografica: «Obbedirai alla voce del Signore, tuo Dio, osservando i suoi comandi e i suoi decreti, scritti in questo libro della legge, e ti convertirai al Signore, tuo Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima».

Quando concretamente sappiamo se stiamo ascoltando la voce di Dio? Mosè viene in nostro aiuto perché ci dà due linee guida: osservare i suoi precetti e comandamenti e convertirci a Dio con tutto il cuore e l’anima.

Pertanto, ascoltare la voce di Dio, ascoltare la sua Parola, non basta. I suoi comandamenti devono essere messi in pratica e deve essere messa in pratica una vera conversione del cuore. Passare quindi dalla teoria, dalla conoscenza teorica, alla pratica.

Ma molte volte pensiamo che i comandamenti siano un peso che Dio ci ha imposto per controllarci, per limitarci, per “rovinarci la vita”. Niente di tutto questo per fortuna!
In realtà, come spiega la prima lettura di questa domenica, i comandamenti di Dio non sono qualcosa di superiore alle nostre forze, né qualcosa di irraggiungibile. I comandamenti sono un aiuto che Dio ci dà per poter vivere meglio, per poter essere persone pienamente libere e felici. Sono prima di tutto Parola di Dio e Mosè ci ricorda che la Parola «è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica». Sì, perché… a che serve conoscere a memoria i comandamenti se poi non li viviamo, non li mettiamo in pratica nella nostra “feriale quotidianità”? A che serve trasmetterli agli altri, se poi il nostro stile di vita e i nostri comportamenti quotidiani parlano di altro?

La nostra vita è la migliore testimonianza di fede che possiamo dare! I comandamenti ci aiutano ad incontrare Dio e gli altri, soprattutto ci aiutano a riconoscere gli altri come fratelli e sorelle, e non come una minaccia; ci aiutano a riconoscere gli altri come nostri simili, e non come “inferiori” a noi.

E il Vangelo di questa domenica ci parla di incontri: siamo nel decimo capitolo di Luca, e l’evangelista ci riporta la famosa parabola del Buon Samaritano. È una storia propria di Luca, cioè presente solo nel vangelo lucano.

Un dottore della Legge, un teologo di oggi potremmo dire, mette alla prova Gesù con questa domanda: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». A questa domanda, Gesù risponde con…un’altra domanda: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Il dottore della Legge ovviamente non può che rispondere bene a questa domanda, è il suo “pane quotidiano”: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Questa risposta trova l’approvazione di Gesù, che considera tanto importante il mettere in pratica questo comandamento da dirgli: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». Gesù però deve affrontare questo delicato argomento: amare il nostro prossimo come noi stessi. Sì, ma «chi è mio prossimo?» chiede questo dottore della Legge, per giustificarsi. Il termine prossimo deriva dalla forma superlativa del latino “prope”, cioè il vicinissimo. Ora, nel mondo ebraico, non vi era uniformità rispetto al concetto di prossimo. Sicuramente dentro questa categoria rientrava ogni israelita ma anche lo straniero che aveva fissato la sua residenza in Israele, in accordo con quanto dicevano le Scritture (Lev 19,34); sullo straniero di passaggio non c’era uniformità invece: alcune scuole rabbiniche lo riconoscevano come prossimo, altre no. Dove tutti erano d’accordo però, era nell’escludere il nemico dal concetto di prossimo. E non vi è alcun dubbio che gli israeliti consideravano acerrimi nemici i samaritani. Un odio viscerale, per motivi religiosi, tanto da evitare ogni contatto, fino ad arrivare a utilizzare la parola samaritano come un’offesa ed un insulto. Con la parabola del buon samaritano Gesù vuole provocare ogni israelita (e ognuno di noi) facendo del samaritano che soccorre un israelita ferito, un esempio a cui guardare con ammirazione e un esempio da seguire. Si, è vero, è una parabola, un episodio inventato e certamente “esagerato” ma forse ideale per comunicare l’amore “esagerato” di Dio per ogni uomo e donna di ogni tempo. Gesù come sempre parla di cose concrete, che chi ascolta può situare geograficamente e può tranquillamente riconoscersi nei vari personaggi che colorano le sue parabole. Trenta chilometri di cammino collegano la città di Gerusalemme, la città santa, a Gerico, città dove abitavano molti appartenenti alla casta sacerdotale. La strada, in discesa, perché tra le due città vi è una notevole differenza di altitudine, è impervia e ben si presta ad essere luogo ideale per le scorribande dei banditi. Chi può evita di percorrere quel cammino. E chi sta ascoltando questa parabola lo sa.

Un uomo, (non viene specificato chi è, come si chiama e soprattutto perché si sta avventurando in quel cammino) sta percorrendo quel cammino quando i banditi, dopo averlo derubato, lo feriscono gravemente lasciandolo mezzo morto per terra. Lungo quella stessa strada “transitano” anche altri tre personaggi: un sacerdote, un levita e un samaritano. Il sacerdote e il levita sono quelli che oggi potremmo chiamare “uomini di Dio”, visto che il culto era il loro pane quotidiano, svolgendo funzioni nel tempio. Per loro la Legge viene prima di tutto. Pertanto, vedendo l’uomo mezzo morto, per paura di contaminarsi e perdere la purezza rituale così importante per loro, lo guardano ma continuano per la loro strada. E mentre i due “religiosi” dell’epoca, contenti di aver rispettato la Legge, contenti di aver fatto “la volontà di Dio”, continuano tranquilli il loro cammino verso casa, un uomo continua a giacere a terra, rantolando dal freddo. Il freddo dell’indifferenza, del dolore di essere stato ignorato, oltre al dolore fisico. Quell’uomo che rantola a terra è Gesù stesso, ogni volta che credendo di compiere la volontà di Dio e di rispettare le leggi sacre, non diamo priorità e attenzione alla persona umana, vero tabernacolo dove dimora Dio.

Un samaritano stava facendo lo stesso percorso. Questo samaritano, che non conosce la Legge, guarda ciò che ha davanti agli occhi: un uomo mezzo morto, derubato dai banditi. Guarda e la vista di quello spettacolo non lo lascia insensibile e indifferente. Anche i due religiosi del tempio avevano guardato…ma i loro occhi erano incapaci di vedere, di collegare il cuore con il loro sistema visivo. Il samaritano, invece, ci dice il testo, «vide e ne ebbe compassione», “entrando” nel dolore di quell’uomo, assumendolo come se fosse suo. Avere compassione: questo verbo l’evangelista Luca lo utilizza altre volte nel suo Vangelo, ma negli altri due casi (la parabola del Padre Misericordioso, e quando Gesù ridona la vita al figlio della vedova di Nain,) è riferito a Gesù che viene a mostrarci che Dio è toccato fin nelle viscere dal dolore e dalla sofferenza umana e agisce. Ora Gesù associa in questa parabola (e le parabole sono fatte apposta per stupire!) un attributo divino come la compassione alla figura di un samaritano, un acerrimo nemico degli israeliti! Immaginate la reazione di chi ascolta la parabola!!

La compassione non è fine a sé stessa ma produce gesti concreti: gesti che ridanno vita. Ed infatti il samaritano comincia a fare tutta una serie di azioni che dimostrano come è stato toccato da quella scena fin nelle sue viscere: si avvicinò a quell’uomo, gli curò le ferite con olio e vino (che avranno sicuramente avuto un costo) e lo fece salire sul suo cavallo. Si prende cura di lui insomma. Ma non basta. I gesti successivi mostrano come ha intenzione di continuare a prendersi cura di lui.

Il Vangelo, quando compare per la prima volta questo personaggio, ci dice che «il samaritano era in viaggio» (Lc 10,33). Non sappiamo che tipo di viaggio, se era di affari o per altri motivi. Sappiamo solo che per percorre quella strada, evidentemente era importante quel viaggio che stava facendo. I gesti successivi del samaritano mostrano come metta in secondo piano il suo viaggio, ponendo in primo ed unico piano, la persona che ha trovato mezza morta sulla strada. Nella parabola raccontata da Gesù, il samaritano utilizza il suo cavallo come mezzo improvvisato per trasportare il ferito in un luogo sicuro, dove possa essere curato. E così lo trasporta in un albergo. E rimane con lui. Io a questo punto mi domanderei «e il suo viaggio??». Ecco, il suo viaggio, importante per quanto sia, perde di significato comparato alla vita di una persona, di quella persona. Che vale la pena rimarcare ancora, non conosce, e che con ogni probabilità è un acerrimo nemico del suo popolo.

L’indomani, ci dice il testo, paga due denari all’albergatore, assicurandosi che l’albergatore si prenda cura del malcapitato uomo ferito dai banditi, e promette pagare al suo ritorno ciò che l’albergatore spenderà per curarlo. Ecco a cosa conduce la compassione: ad agire, a “mettere in circolo l’amore ricevuto”, a sconvolgere i nostri piani per donare vita. Cosa che non hanno voluto fare i due religiosi del tempio, che credevano che la Legge venisse prima della persona. Il loro “piano (quasi) perfetto” era quello di tornare a casa dopo essere tornati “puri” e niente e nessuno avrebbe potuto sconvolgere quel piano. Ma è Dio che sconvolge i piani di chi…se li lascia sconvolgere!!!

Oggi siamo chiamati noi, uomini e donne del 2022, anno terzo della pandemia, ad essere i samaritani di questo tempo…a lasciarci sconvolgere i piani da Dio…a fermarci e ad utilizzare la compassione di fronte a tutte quelle situazioni concrete che giornalmente accompagnano le nostre giornate. Siamo chiamati noi ad avere cura dell’altro, a versare “olio e vino” sulle sue ferite. Versare olio e vino significa concretamente che ciò che cura e sana le ferite è qualcosa di costoso, di prezioso, di importante. Olio e vino a quel tempo costavano, e anche molto…ma il samaritano non esita a versarle sulle ferite del malcapitato; anche noi veniamo chiamati a versare sulle ferite di chi ci è vicino, ciò che ci costa, e anche tanto: il nostro tempo, il nostro spazio, la nostra “priorità”.

Il racconto evangelico che Luca ci presenta questa domenica era iniziato con la domanda del dottore della Legge: «chi è il mio prossimo?»; ora scopriamo che la vera domanda è: di chi sono io il prossimo? Questo racconto era iniziato con le domande del dottore della Legge a Gesù e ora termina con una domanda di Gesù a questo dottore della legge che pensava di sapere tutto su Dio, come spesso facciamo noi: «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Il dottore della legge risponde ancora una volta bene: «Chi ha avuto compassione di lui». Allora Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così». Come vediamo, Gesù traccia il cammino: agire con compassione e misericordia, lasciarsi toccare e “sconvolgere” il cuore e le viscere dal dolore degli altri, non rimanere indifferenti e insensibili ai piccoli o grandi drammi che vivono gli altri, ma assumerli come se fossero propri, e agire di conseguenza.

Nella tua vita, ricordi di essere stato concretamente buon/a samaritano/a di qualcuno, di esserti fatto prossimo a qualcuno che ne aveva bisogno? Ricordi qualcuno che sia stato nella tua vita un buon/a samaritano/a?

Papa Francesco ha dedicato il secondo capitolo della sua ultima enciclica “Fratelli tutti”, a questa parabola del Buon Samaritano. Ci accompagnano, chiudendo questa riflessione domenicale, tre numeri dell’enciclica, che spero ci scuotano e ci provochino. Nel numero 64 di quest’ enciclica, il papa interpella ognuno di noi con questa domanda: «Con chi ti identifichi? Questa domanda è dura, diretta e decisiva. A quale di loro assomigli? Dobbiamo riconoscere la tentazione che ci circonda di disinteressarci degli altri, specialmente dei più deboli».

Continuiamo a lasciarci interpellare dalle parole di Francesco, questa volta nel numero 81 dell’enciclica: «La proposta è quella di farsi presenti alla persona bisognosa di aiuto, senza guardare se fa parte della propria cerchia di appartenenza. In questo caso, il samaritano è stato colui che si è fatto prossimo del giudeo ferito. Per rendersi vicino e presente, ha attraversato tutte le barriere culturali e storiche. La conclusione di Gesù è una richiesta: «Va’ e anche tu fa’ così» (Lc 10,37). Vale a dire, ci interpella perché mettiamo da parte ogni differenza e, davanti alla sofferenza, ci facciamo vicini a chiunque. Dunque, non dico più che ho dei “prossimi” da aiutare, ma che mi sento chiamato a diventare io un prossimo degli altri».

E infine, nel numero 67: «Questa parabola è un’icona illuminante, capace di mettere in evidenza l’opzione di fondo che abbiamo bisogno di compiere per ricostruire questo mondo che ci dà pena. Davanti a tanto dolore, a tante ferite, l’unica via di uscita è essere come il buon samaritano. Ogni altra scelta conduce o dalla parte dei briganti oppure da quella di coloro che passano accanto senza avere compassione del dolore dell’uomo ferito lungo la strada. La parabola ci mostra con quali iniziative si può rifare una comunità a partire da uomini e donne che fanno propria la fragilità degli altri, che non lasciano edificare una società di esclusione, ma si fanno prossimi e rialzano e riabilitano l’uomo caduto, perché il bene sia comune. Nello stesso tempo, la parabola ci mette in guardia da certi atteggiamenti di persone che guardano solo a sé stesse e non si fanno carico delle esigenze ineludibili della realtà umana».

Buona domenica!

Con la missione nel cuore
Padre Alessio Geraci