Padre Luigi Consonni
Commento alle letture: XV DOMENICA DEL T.O. -C-
(10/07/2022)
Prima lettura (Dt 30,10-14)
Mosè parlò al popolo dicendo:
«Obbedirai alla voce del Signore, tuo Dio, osservando i suoi comandi e i suoi decreti, scritti in questo libro della legge, e ti convertirai al Signore, tuo Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima.
Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: “Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?”. Non è di là dal mare, perché tu dica: “Chi attraverserà per noi il mare, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?”. Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica».
Mosè, dopo aver stabilito l’Alleanza con Dio in nome del popolo liberato dalla schiavitù in terra d’Egitto (Egitto è sinonimo del male e del peccato), e in cammino verso la terra promessa, trasmette la Legge – il contenuto del patto, dell’Alleanza – mezzo e cammino di consolidamento della libertà donata da Dio per instaurare rapporti interpersonali e sociali in sintonia con la sua sovranità, con l’avvento del Regno.
Alla trasmissione segue l’esortazione: “«Obbedirai alla voce del Signore, tuo Dio, osservando i suoi comandi e i suoi decreti, scritti in questo libro della legge, e ti convertirai al Signore, tuo Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima»”, affinché il popolo segua la corretta via nella pratica dell’amore che il Signore ha donato liberandolo dalla schiavitù, e si mantenga libero dal dominio del male e del peccato.
Più che la Legge in sé – i precetti di cui è composta – è lo spirito di essa il motivo e la finalità del compimento. Essa è la griglia di discernimento per separare quello da assumere da quello da rifiutare per vivere e crescere nel dono della libertà per amare.
Rimanere nella pratica dell’amore è garanzia del compimento della promessa di Dio nel condurre nel deserto il popolo alla meta, la terra promessa. Con esso si instaura la nazione, il “popolo eletto”, in condizione di testimoniare ai popoli l’eccellenza da imitare.
La Legge sembra impossibile da rispettare. Essa proviene da Dio e il popolo ha l’impressione che il compimento richieda comportamenti pesanti nello sperimentare, con la traversata del deserto, limiti, paure e difficoltà che, se insorgessero nuovamente, deluderebbero le attese del Signore.
Nell’affrontare nuove situazioni, nell’intraprendere il cammino sconosciuto e poi trovarsi in circostanze di pericolo e di angustia – come già successo nel deserto – la fedeltà al compimento della Legge esige una fede più consistente e tenace di quella che ha fatto cilecca varie volte. La fragilità del popolo è tale da ritenere la presenza e la promessa del Signore non rispondente alle loro capacità, alla loro condizione.
Mosè li rassicura e li esorta a non spaventarsi, né tirarsi indietro: “Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto da te, né troppo lontano da te”. Non è impossibile rispettarlo, come se esso fosse in alto nel cielo o nella profondità del mare e pertanto irraggiungibile, al punto che il popolo si domanda: “Chi attraverserà per noi il mare per prendercelo e farlo udire, affinché possiamo eseguirlo?”.
Mosè afferma: non è così, perché “questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica” e, così, orienta il popolo a porre attenzione a ciò che è già in loro, al destino (la santità che è in essi), ad accoglierla con fiducia nella promessa garantita dalla presenza del Signore, che accompagna il cammino e la vita del popolo. È l’esortazione alla “conversione al tuo Dio”, da un lato nel prendere distanza dai propri criteri, dai limiti della comprensione, dalla paura e, dall’altro, nell’accogliere fiduciosamente l’insegnamento e il sostegno del Signore.
Avvolto e immerso nella fiducia il popolo sperimenterà l’autenticità e profondità del destino, la sua santità cui è destinato. Emergerà nel proprio intimo come l’accoglienza della parola sintonizza con il DNA dell’esistenza, che declina la comunione con Lui e la pienezza di vita. Con esso la Legge si rivelerà come un giogo soave e un peso leggero: il contrario di quello che il popolo teme.
Si tratta quindi di ascoltare la Parola, di argomentare la finalità della Legge con intelligenza e ampiezza di vedute, di aprire il cuore e la mente nell’elaborare con fiducia, in sé stessi, il progetto di vita, in attenzione al contesto e alle circostanze, in modo da accogliere la sovranità del Signore, ossia l’avvento del suo regno di pace, giustizia e fraternità.
Di fatto, l’insicurezza e la solitudine rendono difficile accogliere le indicazioni di Mosè. Lo sconforto, il timore e gli sbagli sono un serio ostacolo al buon esito. La fiducia nell’indicazione di Mosè ristabilisce la condizione per non bloccarsi e agire di conseguenza.
L’intelligenza e la volontà, sostenute dalla memoria delle azioni del Signore a loro favore, si appropriano di quello che il Signore ha già posto nel loro intimo, il destino (l’essere santi). Esso è l’asse conduttore, il riferimento permanente della continua conversione. In tal modo il popolo e ogni singola persona sono in condizione di elaborare nuove risposte nel diritto, nella giustizia e nella fraternità solidale.
E la Legge si consolida come patrimonio del popolo e dell’umanità. Per le circostanze che seguiranno, purtroppo non in sintonia con il progetto, Dio invierà il Figlio per impiantare la nuova Legge e l’adeguato compimento. È quello cui fa riferimento la seconda lettura.
Seconda lettura (Col 1,15-20)
Cristo Gesù è immagine del Dio invisibile,
primogenito di tutta la creazione,
perché in lui furono create tutte le cose
nei cieli e sulla terra,
quelle visibili e quelle invisibili:
Troni, Dominazioni,
Principati e Potenze.
Tutte le cose sono state create
per mezzo di lui e in vista di lui.
Egli è prima di tutte le cose
e tutte in lui sussistono.
Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa.
Egli è principio,
primogenito di quelli che risorgono dai morti,
perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose.
È piaciuto infatti a Dio
che abiti in lui tutta la pienezza
e che per mezzo di lui e in vista di lui
siano riconciliate tutte le cose,
avendo pacificato con il sangue della sua croce
sia le cose che stanno sulla terra,
sia quelle che stanno nei cieli.
“Cristo Gesù è immagine del Dio invisibile”: affermazione importante riguardo al profilo della persona di Gesù Cristo nel quale “è piaciuto a Dio che abiti in lui tutta la pienezza”. Più avanti Paolo specifica: “è in lui che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità, e voi partecipate della pienezza di lui” (Col 2,9). Nel corpo di Gesù abita la pienezza della divinità, ed è sorprendente quanto segue: “e voi partecipate della pienezza di lui”, inclusa ovviamente “l’immagine del Dio invisibile”.
Se si considera che la “pienezza di lui” include lo Spirito Santo, emerge, in chi per la fede partecipa della pienezza, il dono della struttura trinitaria che instaura il destino, ossia ciò che è, e partecipa della risurrezione. È vero che tale condizione non è imposta, perché è dono che può essere accolto o, al contrario, rifiutato in diversi modi.
Il corpo del Gesù, con la risurrezione, rivela in lui la pienezza della divinità: da allora è Gesù Cristo. La nuova realtà in lui comunica la gloria di Dio, la pienezza dell’amore che ha guidato la sua vita, la sua attività pastorale, la consegna e la risurrezione.
Anche noi, creati a “immagine e somiglianza” di Dio, siamo chiamati ad accogliere e attivare la dinamica del destino (la santità), seguendo e imitando la pratica e l’insegnamento di Gesù Cristo, in modo che l’immagine, perfezionandosi continuamente, assomigli sempre più a Dio e ogni persona diventi essa stessa “scrittura della fede” per il mondo.
A Gesù Cristo, nella condizione di risorto, Paolo attribuisce alcune caratteristiche che mostrano l’ampiezza e la profondità incommensurabili della “pienezza della divinità”. Esse motivano l‘attenzione perché “primogenito di tutta la creazione, in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra. (…) Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono”.
La creazione non è riconducibile solamente all’atto per il quale il mondo e l’uomo sorgono all’esistenza, ma include soprattutto, diciamo così, il punto di arrivo del processo di immersione nella pienezza di vita che trova in Gesù Cristo, il Risorto, la realtà dinamica senza fine, come la spirale in costante espansione, la realtà del mistero.
Di fatto, l’inizio di essa è volontà del Padre – “l’opera delle sue due mani” – per la quale la Parola prende la forma umana di Gesù con l’azione dello Spirito Santo. Con la risurrezione l’umanità di Gesù – la sua persona – rivela il destino – filosoficamente ciò che è – ossia “la pienezza della divinità”.
Egli, quale rappresentante davanti al Padre di tutte le persone e dell’umanità di ogni tempo, fedele al destino (alla santità che è continuamente donata) si manifesta principio attuante dell’atto creatore – la sua fine e la sua piena realizzazione – in modo che le persone e l’umanità comprendano e lo accolgano come “colui che dà origine alla fede e la porta a compimento” (Eb12, 2b).
“Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa”. È efficace metafora dell’unione del capo con il corpo, per indicare la qualità e la necessità del vincolo che rende possibile il compiersi dell’avvento del regno, della sovranità di Dio. Credere impegna e motiva che le opere delle membra del corpo siano in sintonia con la volontà e la sorgente dell’amore che provengono dal capo.
La comunità credente, nell’intensificare il rapporto qualitativo fra i suoi membri, declina in sé stessa la coscienza di essere “Corpo di Cristo”. L’unione con la testa permette di operare nella realtà complessa del mondo, e di ogni singola persona, il discernimento di assumere l’accoglienza dell’avvento del regno di Dio, nel rispetto delle diversità di nazioni, culture, religioni, fede laica…, quale fermento e sale della terra.
L’unione, non visibile agli occhi, dona sapore e pienezza a ogni diversità, in virtù dell’amore che Gesù ha insegnato e praticato nelle declinazioni dettate dalla circostanza; amore che attrae il punto di percezione e lettura dell’avvento del regno di Dio.
In tale contesto “Egli è principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti”. Risorgere “dai morti”, realizzato la prima volta nella persona del “primogenito”, indica che gli uomini continuano ad essere mortali e per la fede partecipano già della Sua risurrezione – non percepibile dalla condizione umana – in attesa della risurrezione “dei morti”. Pertanto, coloro che muoiono in comunione con Cristo per la causa del regno, uniti a Lui come testa e corpo, partecipano della Sua vita che sconfigge la morte.
È la risposta alla volontà di Dio Padre che, “per mezzo di lui e in vista di lui – si riferisce a Gesù Cristo – siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nel cielo”. Gli effetti dell’amore trinitario, per mezzo del Figlio che ha riconciliato e pacificato sulla croce tutto e tutti, sono trasmessi a ogni credente e pongono ciascuno e la comunità intera in condizione di amare come lui ha amato.
Manifestazione del sincero amore è il propagarsi e la crescita dell’avvento del regno nelle diverse condizioni umane. Un esempio è il vangelo di oggi.
Vangelo (Lc 10,25-37)
In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai».
Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».
È la nota parabola del buon samaritano. Ecco alcune considerazioni, fra le molte. Il dottore della Legge, con l’intento di mettere alla prova Gesù gli domanda: “Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”. Gesù lo rimanda alla Legge e il dottore risponde correttamente: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso”. (Fra parentesi, in altri scritti, ho commentato un risvolto interessante della traduzione ebraica “Amerai il Signore tuo Dio (…) per il tuo prossimo come per te stesso”).
Gesù incalza: “Hai risposto bene; fa questo e vivrai”. Che un dottore della Legge si rivolga a un semplice laico chiamandolo Maestro è sorprendente! A meno che non sia ironia.
“Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù ‘E chi è il mio prossimo ’?”. Giustificarsi non perché ritiene la risposta banale e, meno ancora, ovvia, dato che nell’ambiente è discusso il limite di chi è realmente da considerare come “prossimo”. Non c’è chiarezza al riguardo, ma un grande dibattito tra le scuole rabbiniche al riguardo: si va dalla concezione più ristretta – “il prossimo è soltanto colui che appartiene al mio clan familiare o alla mia tribù” – a quella più larga che include anche lo straniero che abita nei confini di Israele. Quindi che voglia giustificarsi si deve al fatto che il dottore della legge è per l’interpretazione ristretta.
Di proposito Gesù, rompe lo schema abituale dei tre personaggi delle parabole – sacerdote, levita e laico, tutti e tre giudei – nel sostituire il terzo con un samaritano. All’epoca il rapporto fra giudei e samaritani era molto teso: oltre a scomunicarsi vicendevolmente, i samaritani avevano pochi anni prima sparso ossa umane nel tempio di Gerusalemme, rendendo impossibile ai giudei celebrare la Pasqua. La tensione tra loro era fortissima. L’aver posto il samaritano come colui che compie la legge dell’amore irrita il dottore della Legge al punto da non pronunciare neanche il termine samaritano, tanto che risponde: “Chi ha avuto compassione di lui”.
Con la parabola Gesù rovescia la domanda: “E chi è il mio prossimo?” del dottore della Legge. E Gesù gli chiede: “Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?”. Il dottore, intellettualmente onesto e retto risponde: “Chi ha avuto compassione di lui”.
Gesù cambia radicalmente il concetto di “prossimo”. Prossimo, nel mondo ebraico, è il destinatario dell’amore. Ebbene, per Gesù, prossimo è colui che ama, non colui al quale rivolgo il mio amore. Con la parabola Gesù specifica che il rapporto di “prossimo” non è la mera affermazione di principio per la quale tutti indistintamente sono “prossimi”; non è un concetto, ma la scelta di vicinanza – addirittura nei confronti dell’odiato nemico, come nel caso del samaritano con il giudeo – di compassione, di misericordia per salvare la vita e restituirgli la salute, pagando le spese di tasca propria e continuando il suo cammino.
È quello che Gesù realizzerà, per amore, sulla croce a favore dell’umanità, come indicato dalla seconda lettura: “per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose (…) con il sangue della sua croce”. Ecco, allora, la risposta conclusiva: “Va e anche tu fa’ così”.
Gesù gli comanda di agire allo stesso modo, per ereditare, o meglio, già partecipare della vita eterna, dell’avvento in lui della sovranità di Dio. È significativo che una persona così immedesimata nello studio e nella pratica della Legge senta l’insoddisfazione di non avere un rapporto sicuro con la vita eterna. Eppure la stessa Legge, ben compresa nella sua finalità, motiva e sostiene l’eretico – il samaritano – nel raggiungere la meta.
La Legge è perfezionata da Gesù; in essa siamo coinvolti per amare come Lui ci ama. Imitandolo, nei diversi contesti e circostanze, si attualizza il suo amore, accolto per la fede nella sua Parola, nella celebrazione dei sacramenti, specialmente nella Messa.
È evidente, nella grande maggioranza dei cristiani, il corto circuito che non permette di vedere, percepire e assumere la grandezza e la profondità del Suo amore. È come se il malcapitato della parabola non percepisca la portata del gesto del samaritano nei suoi confronti. Le cause sono molteplici, e ognuno scopra le sue in modo che la grazia del Signore riattivi la circolazione dell’amore pieno e definitivo, la vita eterna: proprio quella che il dottore della Legge cercava.