Padre Luigi Consonni

Commento alle letture: SANTISSIMO CORPO E SANGUE DI CRISTO -C-
(19/06/2022)

 

Prima lettura (Gen 14,18-20)
In quei giorni, Melchìsedek, re di Salem, offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo e benedisse Abram con queste parole:
«Sia benedetto Abram dal Dio altissimo,
creatore del cielo e della terra,
e benedetto sia il Dio altissimo,
che ti ha messo in mano i tuoi nemici».
E [Abramo] diede a lui la decima di tutto.

Melchisedek, re di Salem”, di Gerusalemme, è un soggetto misterioso del quale il testo non dice nulla, eccetto che “era sacerdote del Dio altissimo”, identificato con lo stesso Dio di Abramo. La lettera agli Ebrei dirà che era “senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita” (Eb 7,3) e lo associa alla prefigurazione di Gesù Cristo, anch’egli con le stesse caratteristiche.
Ebbene, “in quei giorni” – Abramo sconfigge i nemici, libera il fratello Lot, recupera “tutti i beni…, i suoi beni, con le donne e il popolo” e ridà libertà e dignità al suo popolo; lo riscatta da un futuro di tristezza, di schiavitù e di dolore. A questo punto entra in scena Melchisedek e incontra Abramo al quale offre “pane e vino”, cibo che alimenta il corpo e bevanda che rallegra il cuore, simboli augurali di bene e felicità.
Questi, quale “sacerdote del Dio altissimo”, esercita il servizio di mediazione benedicendolo: “Sia benedetto Abram dal Dio altissimo, creatore del cielo e della terra”. Con queste parole Dio onora e mostra il suo compiacimento per l’opera compiuta da Abramo. Dio, creatore del cielo e della terra, principio di ogni opera buona, approva la liberazione e il riscatto del fratello, non tollera la caduta nelle mani degli oppressori e la destinazione a un futuro di schiavitù e di morte.
La benedizione è parola “efficace” e irrevocabile. Pronunziata anche da un uomo, realizza il contenuto poiché è Dio stesso che benedice. L’effetto è la fraternità, la solidarietà e l’unione nella libertà. Il contrario, ossia la schiavitù, il dominio e l’oppressione sono abominio agli occhi di Dio. Ciò vale non solo nel rapporto con gli altri popoli o nazioni, ma anche all’interno della stessa comunità. Dio elegge Abramo quale capostipite del nuovo popolo che gli appartiene e completa l’opera delle sue mani avvalendosi della sua collaborazione obbediente.
Più ancora, Melchìsedek onora, loda e dà gloria al “Dio altissimo, che ti ha messo in mano i tuoi nemici”. Egli attribuisce la vittoria di Abramo, in primo luogo, a Dio, che manifesta la sua presenza attiva nell’accompagnare con la sua forza il procedere di Abramo.
L’efficacia della presenza di Dio, fedele alla promessa, si manifesta nella vittoria sui nemici. Essa, per Abramo è motivo di fiducia, serenità e fermezza, per continuare il cammino che Dio gli indica di volta in volta, nel far sì che gli eventi si svolgano in obbedienza e in sintonia alla Sua volontà.
Come per Abramo, così ogni creatura sperimenta la potenza e la fedeltà di Dio nel corso della propria vita, nelle circostanze in cui è coinvolta, sostenendo con determinazione la battaglia di liberazione a favore della dignità della persona e del popolo, nel rispetto del creato che Dio ha posto nelle sue mani a favore dell’umanità. Il credente che agisce in sintonia con la volontà di Dio è in comunione con Lui, che declina la forza e la speranza della vittoria sul male.
Come risposta alla benedizione, Abramo “diede a lui la decima di tutto”; in altre parole, ritorna al Dio altissimo una parte consistente di quello che possiede, come espressione di gratitudine e riconoscimento dell’opera delle sue mani, della sua provvidenza per il bene degli uomini. È l’atto di adorazione alla santità di Dio, alla sua gloria che accompagna la persona e l’attività di Abramo.
Non si sa per quale fine, e come, Melchisedek disporrà dei beni ricevuti. Quale re e sacerdote dell’Altissimo fa supporre che saranno destinati al bene dei poveri e al necessario per lo svolgimento dei suoi compiti.
La pratica di offrire la decima – assunta con coscienza e fermezza dai fratelli evangelici e posta in atto nella chiesa cattolica latino-americana, in sostituzione alle offerte per i servizi religiosi – trova qui il fondamento biblico.
Ritornando alla battaglia vittoriosa sul male, nell’esperienza di Gesù essa assume un processo e una caratteristica che va molto oltre l’attesa comune, come testimonia l’evento pasquale di cui fa memoria la seconda lettura.

Seconda lettura (1Cor 11,23-26)
Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me».
Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me».
Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.

Paolo trasmette ai destinatari ciò che ha ricevuto. Gli studiosi affermano che usa termini per lui non abituali, segno che non gli appartengono. Questa particolarità indica la scrupolosa fedeltà e la preoccupazione di trasmettere un messaggio di grande importanza in modo integro e completo.
Il testo fa riferimento all’ultima cena di Gesù con gli apostoli, la “notte in cui fu tradito”, durante la quale Gesù ordina ai discepoli di ripetere quel che sta facendo: “in memoria di me”. Sul pane e poi sul terzo (dei quattro) calici di vino, tra lo stupore e lo sconcerto di tutti, rompe la tradizione per la quale il pane spezzato e la coppa di vino erano distribuiti in silenzio e pronunzia le note parole: “questo è il mio corpo (…) questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue”, riferimento all’imminenza del giorno dopo, al suo corpo sacrificato e al suo sangue versato che conformeranno il farsi della Nuova Alleanza.
Più tardi – con l’evento della Pentecoste, l’invio dello Spirito Santo – i discepoli comprenderanno la portata, il significato e la finalità di quella cena, e del singolare e sorprendente modo di procedere: la trasformazione dell’antica in nuova Pasqua.
La riflessione odierna della Chiesa riassume in tre parole la grandezza di quell’ultima cena – transustanziazione, transignificazione e transfinalizzazione – nell’indicare che esse riguardano la sostanza, il significato e la finalità, che vanno oltre – trans – il senso e la semplice percezione umana.
Gesù conosce perfettamente la potenza che scaturisce dall’amore nella consegna di sé, della morte per l’avvento del Regno. È altresì cosciente del dramma ormai prossimo (vedi il racconto dell’agonia nei vangeli e la lettera agli Ebrei) e dei riferimenti atti a percepire la transustanziazione della sua natura umana, la transignificazione delle sue scelte e delle opere, la transfinalizzazione del suo destino umano, anche perché non ha senso che Gesù proponga ai discepoli qualcosa di cui Lui stesso non fa esperienza.
La transustanziazione riguarda la sua natura umana. Essa consiste nel fatto che senza perdere la specifica identità entra nella comunione con la natura divina e instaura la dinamica per la quale diventa sempre più umana. Vale anche il contrario. La natura divina, in attenzione alla natura umana di Gesù e all’amore trinitario nella quale è coinvolta, diventa sempre più divina. È doveroso precisare che la crescita riguarda la “natura conseguente” dovuta all’incarnazione del Figlio, non “quella primordiale” propria del mistero di Dio che rimane intatta e inaccessibile. Paradossalmente la crescita dell’una e dell’altra aumenta la differenza e la distanza; allo stesso tempo, cresce e si consolida la loro comunione.
Nel quadro di fondo di tale evento, l’insegnamento e la pratica di Gesù acquistano un significato che va molto oltre quello che l’umano comprende. Si tratta della transignificazione per cui l’autenticità della vita personale e sociale accoglie “la potenza del braccio di Dio” (Lc 2,51), per la quale la persona “lava i piedi” come Gesù ai discepoli, e la società si modella sui criteri del Magnificat, quali “ha rovesciato ( …) ha innalzato (…) ha ricolmato (…) ha soccorso (…) ricordandosi della sua misericordia” (Lc 2, 52-55), nell’instaurare il progetto del Padre nel quale ha piena fiducia. In tal modo “dà origine alla fede e la porta a compimento” (Eb12,2).
La finalità della missione è riconciliare l’umanità con Dio e partecipare del regno della gloria già oggi, nel presente. È da rilevare che essa va ben oltre l’avvento del regno nel presente – anticipo e caparra del futuro regno – di gloria che già si manifesta in Lui con la risurrezione. La transfinalizzazione manifesta la salvezza e il regno già presenti nella sua persona.
Ciò che accompagna Gesù nell’evento è la “potenza di una vita indistruttibile” (Eb 7,16), propria della dinamica dell’amore trinitario. Quindi entra in gioco la volontà del Padre e l’azione dello Spirito Santo nel far sì che l’umanità di Gesù prenda possesso della risurrezione.
La partecipazione del credente all’Eucarestia lo coinvolge nella stessa realtà e dinamica che ha coinvolto Gesù. Perciò, cibarsi dalla transustanziazione è percepirsi nuova realtà – transustanziato – per il perdono dei peccati; è entrare nella Nuova Alleanza, partecipare della vita divina e fare propria la transignificazione e la transfinalizzazione di Gesù nei termini sopra accennati.
L’insieme modella l’azione pastorale del credente, che elabora la necessaria filosofia di vita, le scelte audaci e coraggiose a livello personale e sociale ispirate dall’insegnamento e dalla pratica di Gesù .
Ecco, allora, il senso specifico di: “fate questo in memoria di me”. La memoria attualizza, nel mondo interiore del credente, quello che l’evento della Pasqua ha operato nell’umanità di Gesù, immergendolo nella forza e nel potere redentore dell’amore nel quale, una volta coinvolto, trasforma la percezione di sé stesso, del fine dell’esistenza e consolida la speranza nel destino – ciò che lui è –
Paolo esorta i destinatari della lettera a far sì che “Ogni volta, infatti, che mangiate di questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga”. Annunciare, per l’apostolo, è far sapere in modo solenne e testimoniare nella propria vita gli effetti di quella morte, strettamente legata a quanto detto precedentemente.
In questo senso l’Eucaristia diventa il pane di vita eterna cui fa riferimento il Vangelo.

Vangelo (Lc 9,11b-17)
In quel tempo, Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure.
Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta».
Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». C’erano infatti circa cinquemila uomini.
Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». Fecero così e li fecero sedere tutti quanti.
Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla.
Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.

Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure”. Il pubblico, particolarmente numeroso, “circa cinquemila uomini”, è attratto dall’argomento del regno; lo aspetta con interesse e lo considera ormai prossimo per la predicazione dei profeti, particolarmente di Giovanni Battista e di Gesù stesso. La guarigione degli ammalati è percepita come segno dell’imminenza.
L’ora, il luogo deserto e la distanza dei centri abitati fanno scattare la preoccupazione degli apostoli riguardo al cibo, l’alloggio e la necessità di congedare la folla. A questi timori Gesù risponde provocatoriamente: “Voi stessi date loro da mangiare”. È una richiesta impossibile da soddisfare, sia perché non hanno a loro disposizione che “cinque pani e due pesci” sia per l’impossibilità di provvedere, come “comprare viveri per tutta questa gente”.
Richiama l’attenzione la sottolineatura del dettaglio in merito all’ordine di Gesù: “Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa”, quindi circa cento gruppi. Dà l’immagine di un enorme banchetto nel quale la folla, riunita per un’unica finalità, è suddivisa in gruppi, aggregata in dimensione “umana”, né grande né troppo piccola, e unita dalla comune aspettativa e, da sedute, le persone possono comunicare e stabilire più facilmente un rapporto interpersonale fra loro.
Se la preoccupazione fosse sola quella del cibo, sarebbe superfluo l’ordine impartito. Si può ritenere che sia l’immagine, la raffigurazione del regno di Dio: la formazione di nuovi rapporti interpersonali, di una nuova società di condivisione e fraternità.
Successivamente Gesù “prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla”. L’effetto è dirompente e strepitoso: “Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi avanzati: dodici ceste”.
L’azione di Gesù, con il senno di poi e per la natura dei gesti e delle parole, richiama alla mente la celebrazione eucaristica. Si passa, quindi, dalla moltiplicazione del pane comune a quello eucaristico: quest’ultimo distribuito in ogni celebrazione.
Oggi la celebrazione dell’eucaristia è fortemente sottovalutata. È ridotta al rapporto in ordine alla salvezza individuale, alla devozione della presenza di Gesù Cristo e per molti (ma numericamente in continua diminuzione) al compimento del precetto domenicale.
La celebrazione e il pane eucaristico – non ricevuto da tutti perché si ritengono indegni – sono alieni alla causa dell’avvento del regno di Dio in loro e, di conseguenza, sono impossibilitati a testimoniarlo nelle aggregazioni a misura d’uomo, nel coinvolgimento di rapporti fraterni e solidali per una società multietnica, multireligiosa, responsabile della pratica del giustizia e del diritto e attenta agli eventi che coinvolgono l’intera umanità, il creato, l’ecologia e la qualità della politica nel campo economico – sociale.
Agganciando la seconda lettura, la partecipazione alla celebrazione e la comunione con il pane eucaristico non incidono, nella pastorale ordinaria, in ordine alla transustanziazione, alla transignificazione, alla transfinalizzazione della vita personale e sociale con la ricaduta nell’ambito ecologico. Tale prospettiva che diventa realtà nel presente nella persona e nei rapporti sociali – l’avvento della sovranità di Dio, del suo regno – non fa parte del bagaglio di fede di molti, per la carenza formativa al riguardo.
Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure”. Se la pastorale ordinaria istruisse le persona e i gruppi nel praticare il suo insegnamento riguardo all’avvento del regno di Dio nel presente, con il dono dell’Eucaristia; se illustrasse, con convinzione e forza, il coinvolgimento della sovranità di Dio nelle circostanze individuali e sociali, quali testimoni responsabili e autonomi della propria fede, guarirebbero “quanti hanno bisogno di cure” liberandosi, con i destinatari, dall’individualismo, dall’egocentrismo e dalle sofferenze causate dalla disumanità, dall’ingiustizia, dall’oppressione e altro.
Il pane eucaristico diverrebbe un formidabile aiuto e sostegno affinché il pane comune – i bisogni primari di ogni persona per una vita degna di questo nome – arrivi sulle mense di tutte le case, declinando la presenza e la bontà di Dio, al quale rivolgere la lode e il ringraziamento.
I due “pani” sono perfettamente rapportabili uno all’altro, e la loro integrazione rende visibile il regno di Dio oggi, nelle concrete vicende giornaliere, per la dinamica di transustanziazione, transignificazione e transfinalizzazione, atta a migliorare, approfondire e integrare, sempre più, coloro che per i loro limiti e imperfezioni sono involontariamente o colpevolmente penalizzati.
Con esso è rafforzata la speranza della partecipazione al regno definitivo dopo la morte, alla fine del tempo della persona e alla fine del tempo dell’umanità.