Padre Luigi Consonni
Commento alle letture: ASCENSIONE -C-
(29/05/2022)
Prima lettura (At 1,1-11)
Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo.
Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo».
Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra».
Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».
Chi ha familiarità con la Bibbia sa che gli Atti degli Apostoli sono attribuiti a Luca, lo stesso autore del vangelo omonimo. Gli Atti sono la continuazione del vangelo, cui fanno riferimento le parole: “Nel primo racconto, o Teofilo…”. Il libro è la testimonianza dell’azione dello Spirito nel prime comunità, con la diffusione del Vangelo nel mondo allora conosciuto.
Il testo di questa domenica presenta Gesù in dialogo con gli apostoli, nel periodo che va dalla risurrezione all’ascensione. “Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio”. L’indicazione – “quaranta giorni” – non corrisponde al tempo cronologico ma, in sintonia con altri riferimenti analoghi nei testi biblici, indica un tempo prolungato, necessario per raggiungere il fine.
Sorprende che Gesù non faccia alcun riferimento a sé stesso, alla grande ingiustizia di cui è stato vittima, alle sofferenze della croce e all’esperienza della risurrezione, al tradimento e abbandono degli apostoli, ma soltanto al fine della missione, l’avvento del regno Dio. Non c’è parola o accenno e, ancora meno, critica o rammarico riguardo l’ingratitudine del popolo e il comportamento degli apostoli.
È come se parlasse senza che niente di speciale fosse accaduto, con il solo intento di istruire gli apostoli sul fine della sua attività evangelizzatrice. Gesù indica ad essi come accogliere “l’adempimento della promessa del Padre”, ossia l’avvento del regno, la manifestazione della sua sovranità.
Con l’adempimento della promessa gli apostoli sono coinvolti – “battezzati in Spirito Santo” – per l’azione dello Spirito Santo nell’acquisire le condizioni necessarie per continuare la missione del Maestro. Il coinvolgimento dà loro la comprensione degli effetti della morte e risurrezione di Gesù Cristo e, con essa, il motivo e la finalità della missione: la causa del Regno.
Le parole di Gesù, probabilmente, furono intese dagli apostoli come riferimento alla predicazione di Giovanni Battista perché domandano: “Signore, è questo il tempo nel quale ricostruirai il regno d’Israele”? Essendogli riconosciuta la condizione di Messia, l’attesa è che liberi la nazione dalla presenza dei romani e purifichi il popolo, separando chi non osserva da chi compie la legge, facendo risaltare quest’ultimo meritevole di entrare nel regno.
La loro comprensione è ancora lontana da ciò che Gesù si propone di fare per mezzo di loro. Tuttavia Egli non si sorprende, né pretende di correggere o dare altra spiegazione riguardo all’avvento del regno, ma afferma che non compete ad essi conoscere quando e come avverrà, perché ciò è riservato al Padre.
Annuncia che il primo passo del loro coinvolgimento avverrà con l’invio dello Spirito: “riceverete la forza dello Spirito Santo che scenderà su di voi, e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra”. Lo Spirito li costituirà testimoni, garanti della verità, della salvezza di chi abbraccia, con amore e riconoscenza, il comportamento, la filosofia e lo stile di vita, con dedicazione e amore per la persona di Gesù, e la causa del regno, in sintonia con la volontà del Padre.
“Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi”. In tal modo l’Ascensione universalizza la missione di estendere la realtà del Regno fino ai confini della terra, con la predicazione e la testimonianza. I discepoli svolgeranno la missione fino al “ritorno” del Maestro dalla gloria di Dio, nella quale è accolto.
La gloria di Dio sfugge alla visione e percezione umana, ma l’occultamento non è allontanamento bensì il contrario. È la diversa presenza garantita da Gesù stesso nelle sue ultime parole del vangelo di Matteo: “ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).
La sorpresa dell’Ascensione lascia gli apostoli sconcertati. Gesù li invita ad andare oltre: “Uomini di Galilea, perché state guardando il cielo?”. Loro devono guardare la terra, la condizione umana della gente e dei popoli e assumere la missione per la quale sono inviati.
“Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”. La nube che lo sottrae alla vista, e lo rende invisibile, è lo Spirito Santo, ed è la stessa che lo avvolse nella trasfigurazione sul monte.
È lo stesso Spirito che coinvolgerà l’umanità di tutti i tempi e il creato con la manifestazione del Risorto nella gloria trinitaria, quando la storia arriverà al fine.
Allora si manifesterà quel santuario del cielo cui fa riferimento la seconda lettura.
Seconda lettura (Eb 9,24-28; 10,19-23)
Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore. E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte.
Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza.
Fratelli, poiché abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne, e poiché abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso.
Un aspetto importante della lettera agli Ebrei è costituito dalla contrapposizione fra il Sommo Sacerdote dell’Antico Testamento e il sacerdozio di Gesù Cristo, realizzato con la sua morte e risurrezione. Al primo compete offrire annualmente, nel tempio, il sangue delle vittime, per il perdono dei suoi peccati e quelli del popolo, e varcare, non senza timore e grande compunzione, il velo che lo introduce, nel piccolo vano, alla presenza di Dio.
Cristo è presentato nella doppia veste di sacerdote e vittima. Sacerdote perché offre sé stesso a Dio in riscatto dell’umanità che rappresenta, resistendo tenacemente – con determinazione nell’accogliere la croce – a tutto ciò che lo distolga dalla causa del Regno. A tal fine traccia il cammino di salvezza, il riscatto per tutti. Lo motiva, nel versare non il sangue di animali ma il proprio, l’amore per il popolo eletto e l’umanità intera.
Quel che porta a buon fine la missione non è il sacrificio né il sangue versato, ma l’incommensurabile amore, audace e coraggioso fino all’estremo, e la fiducia totale che il Padre e lo Spirito daranno compimento all’opera a lui affidata e rifiutata dai destinatari. Cosicché, Cristo “non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo” – riferimento al tempio di Gerusalemme dove il sommo Sacerdote officiava – “ma nel cielo stesso (non si tratta di spazio geografico ma dell’ambito divino) per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore”.
Gesù, con l’incarnazione, rappresenta ogni persona, e l’umanità di tutti i tempi, davanti al Padre. Con la consegna per amore il Padre vede l’umanità redenta, purificata, rigenerata e trasformata dall’amore obbediente alla causa del regno. Regno che il Padre e lo Spirito impiantano nella sua persona con la risurrezione. Tale evento fa dell’avvento del regno la realtà già presente nell’intimo di coloro che credono in Lui, per il dono gratuito degli effetti della rappresentanza ai rappresentati, coloro che con fiducia accolgono gli effetti del dono, della mediazione.
Gesù Cristo è in una condizione singolarissima riguardo a Dio e all’umanità: “dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti” – a coloro che per la fede accolgono il dono di nuova creatura – “apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza”.
Il futuro, riferito al fatto che “apparirà una seconda volta”, non è riconducibile solo alla fine della storia, ma alla vita presente, che raggiunge il fine nel crescere nella fede “in Colui che mi amato ed è morto per me” (Gal 2,20), con la consistenza e l’identificazione tale da trasmettere la salvezza oggi, nella concretezza della vita giornaliera.
Il discepolo, per l’azione dello Spirito Santo, fa esperienza del tempo cronologico associato all’eternità, e lo spazio abbraccia il creato e l’universo, offrendo la ‘visione’ dell’umanità e della storia con gli “occhi” di Dio.
Di fatto, il brano afferma che oggi “abbiamo piena libertà di entrare nel santuario”, nel quale Lui abita, avendo squarciato nella sua carne “il velo, cioè la sua carne”, o meglio, il peccato di cui Lui stesso si era fatto carico pur non essendo peccatore. Con altre parole, carica su di sé la sfiducia violenta e omicida degli uomini, che lo considerano impostore e maledetto da Dio e, allo stesso tempo, mantiene la fiducia nel Padre, nell’avvento della sua sovranità su sé stesso, sulla persona e l’umanità che rappresenta. Il che trova il suo punto algido nella la risurrezione, per la quale Gesù Cristo è “un sacerdote grande nella casa di Dio”.
Ecco, allora, l’esortazione finale: “accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati (…). Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso”.
La salvezza è oggi, ora. Con essa – intervento ultimo e definitivo – la persona redenta e rigenerata entra nell’ambito del divino, consolida in lei la speranza di partecipare pienamente dell’avvento del regno e alla fine dei tempi Dio si rivelerà “tutto in tutti” (1Cor 15,28).
L’ascensione, destino di gloria, in questa terra è seguire il Signore nella fede che lui stesso ha vissuto e portato a compimento (Eb 12,2).
Vangelo (Lc 24,46-53)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto».
Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio.
Gesù affida la missione ai discepoli: “Di questo voi siete testimoni”. Essa consiste nel trasmettere come e perché Gesù è veramente il Cristo, il Messia tanto atteso, compimento delle Scritture che affermano: “patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme”.
Gesù parla ai suoi discepoli del Cristo come se trattasse di un’altra persona, perché ancora non hanno compreso il legame fra la sua persona – Gesù – e Cristo che la risurrezione ha autenticato, una volta per sempre, come Gesù Cristo.
Lo stesso evento dell’ascensione, come descritto da Matteo, riporta: “Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono” (Mt 28,17). I discepoli non riescono a districarsi con l’evento pasquale per cui sorgono, nel loro animo, sentimenti contrapposti di sottomissione e dubbio. Questo perché l’evento pasquale li trova completamente impreparati a causa del colpo durissimo della morte il venerdì, e la risurrezione genera in loro uno sconcerto di non minore intensità.
Cosa e come, poi, gestiscano la ricaduta su di loro e su tutti quelli che crederanno nella loro testimonianza, è tutta un’incognita da scoprire. Per questo Gesù si premura di dare loro una prima spiegazione, rassicurandoli che l’accaduto è in sintonia con la tradizione registrata dalla Scrittura. Allo stesso tempo, li orienta riguardo all’efficacia dell’evento previa la conversione e l’accoglienza del perdono dei peccati.
In ogni caso, l’universalità della missione – compito dei discepoli, per cui dovranno elaborare un nuovo metodo di evangelizzazione – richiede in loro audacia, coraggio, creatività, e l’accoglienza dell’avvento del regno di Dio nel presente – partecipazione e caparra del futuro alla fine dei tempi -. Essa coinvolgerà Israele e tutte le nazioni della terra.
La missione, per gli effetti della dinamica della morte e risurrezione nell’attività umana, purifica e rinnova la partecipazione alla gloria di Dio. Essa declina nuova vita nei discepoli, rende nuove tutte le cose, inclusa l’organizzazione sociale locale e universale. La dinamica è propria dello Spirito Santo. In essa, il discepolo conforma un sinolo (l’unione di materia e forma) con Lui e in Lui; con altre parole, l’unione nella diversità, nella dinamica dell’amore che Gesù ha per loro.
In tal modo lo Spirito di Cristo accompagna e continua la missione nei discepoli: “Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso”. La coscienza di tale condizione sostiene la loro missione, ed essa prenderà consistenza perché “rivestiti di potenza dall’alto” nella Pentecoste. Dovranno aspettare quel momento, ormai imminente, che completa l’evento della rivelazione di Dio riguardo al regno, al suo inizio, crescita e destino.
L’ascensione pone termine alla presenza fisica del Risorto e indica la meta, non solo di Gesù ma di tutta l’umanità e del creato, nel partecipare della gloria di Dio. Il che fa sì che i discepoli ritornino “a Gerusalemme con grande gioia e stavano nel tempio lodando Dio”.
È nota la frase di S. Ireneo: “la gloria di Dio è la vita degli uomini (…); e il regno di Dio manifesta tale realtà nell’armonia e nella fraternità degli uomini; “(…) e la vita degli uomini è la lode a Dio”, nel riconoscere in Lui l’inesauribile fonte, principio e pienezza, di vita.