Padre Luigi Consonni
Commento alle letture: V DOMENICA DI PASQUA. -C-
(15/02/2022)
Prima Lettura (At 14,21b-27)
In quei giorni, Paolo e Bàrnaba ritornarono a Listra, Icònio e Antiòchia, confermando i discepoli ed esortandoli a restare saldi nella fede «perché – dicevano – dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni».
Designarono quindi per loro in ogni Chiesa alcuni anziani e, dopo avere pregato e digiunato, li affidarono al Signore, nel quale avevano creduto. Attraversata poi la Pisìdia, raggiunsero la Panfìlia e, dopo avere proclamato la Parola a Perge, scesero ad Attàlia; di qui fecero vela per Antiòchia, là dove erano stati affidati alla grazia di Dio per l’opera che avevano compiuto.
Appena arrivati, riunirono la Chiesa e riferirono tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo loro e come avesse aperto ai pagani la porta della fede.
Il brano costituisce la parte finale del racconto del primo viaggio missionario di Paolo e Barnaba. L’attività di costoro a Derbe, ultima tappa del loro percorso, mette in luce la feconda attività che aggrega un buon numero di persone: “Dopo aver evangelizzato quella città e fatto un numero considerevole di discepoli, ritornano a Listra, Icònio e Antiochia”.
Paolo e Barnaba percorrono a ritroso il cammino del primo viaggio per incontrare le comunità precedentemente fondate. Il motivo è confermare “i discepoli esortandoli a restare fedeli nella fede ‘perché – dicevano – dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni’”.
La conferma e l’esortazione fanno risaltare la fragilità e la vulnerabilità dei convertiti. Il coinvolgimento nella fede in Gesù Cristo, e l’entrata nel regno di Dio per l’accoglienza, l’adesione all’insegnamento e alla pratica di Gesù, porta con sé, nei discepoli, lo sconcerto, il timore e la sofferenza, perché “attraverso molte tribolazioni” partecipano allo stesso martirio di Gesù, anche se non al livello estremo che è stata la croce di Gesù.
Tuttavia il processo di conversione in atto merita l’attenzione e la dedicazione di Paolo e Barnaba, per consolidare la fede nelle tribolazioni e, allo stesso tempo, fortificare la struttura della comunità nascente sul lato dell’organizzazione interna, in modo da insegnare e trasmetterne il contenuto, e sostenere il cammino nelle difficoltà. A tal fine scelgono persone affidabili: “Designarono quindi in ogni Chiesa alcuni anziani”.
L’assegnazione è preceduta dalla preghiera e dal digiuno, con “l’affidamento al Signore nel quale avevano creduto”, in virtù della promessa di Gesù di rimanere in mezzo a loro fino alla fine dei tempi. È la fede nella costante presenza del Signore che rende audaci e coraggiosi Paolo e Barnaba, nel consegnare il cammino da fare e la dinamica di crescita delle comunità agli anziani designati.
È la fede nell’azione dello Spirito del Risorto, il vero agente del sostegno della comunità, che suscita la certezza che non verrà mai meno il necessario per svolgere il servizio con affidabilità e impegno. A loro spetta la responsabilità della comunità e l’adeguata organizzazione della stessa, indispensabile per l’efficace servizio pastorale di crescita nella grazia di Dio.
L’evento Pasquale, culmine bene inteso dell’insegnamento e della vita di Gesù, trasforma la loro vita sul modello di Paolo e Barnaba, costituendoli messaggeri, annunciatori e testimoni del Regno di Dio, nel quale sono coinvolti. Il che fa emergere, nel profondo di sé stessi, il destino – ciò che è – già presente; percezione che assicura la vita e la crescita delle comunità.
Il coinvolgimento, per la fede, negli effetti della morte e risurrezione di Gesù Cristo, determina l’immersione nella Trinità e nella realtà del Regno. È la trasformazione radicale che motiva Paolo e Barnaba, e ogni credente, a dedicarsi integralmente all’attività missionaria a favore di popoli e culture diverse dalla loro.
Di conseguenza, in essi l’azione pastorale si riveste di coraggio e di saldezza nelle difficoltà, che riguardano non solo loro, ma anche le persone che accolgono e aprono la mente e il cuore alla loro predicazione.
Le difficoltà sono di vario genere e riguardano anche l’interno della comunità, per lo sconvolgimento individuale e sociale derivante dall’accoglimento del regno di Dio – e le conseguenti tribolazioni – nel contesto e nelle circostanze in cui si trovano.
L’insieme della testimonianza pastorale manifesta il grado di accoglienza del dono dell’avvento del regno, della sovranità di Dio, come realtà già presente in loro per la pratica dell’amore insegnata da Cristo, culminante negli effetti della Sua morte e risurrezione. Il che purifica le storture, le imperfezioni e cancella il peccato declinato dalla fragilità umana, a condizione che l’adesione alla persona di Cristo e alla causa del regno sia autentica e sincera, assunta come l’asse portante del proprio essere e della vita giornaliera.
Arrivati ad Antiochia, da cui erano partiti, “riunirono la Chiesa e riferirono tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo loro e come avesse aperto ai pagani la porta della fede”. E attribuiscono all’azione di Dio il loro servizio pastorale, inclusa la sconcertante apertura ai pagani. Con essa sorge la nuova realtà cui fa riferimento la seconda lettura.
Seconda lettura (Ap 21,1-5a)
Io, Giovanni, vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più.
E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.
Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva:
«Ecco la tenda di Dio con gli uomini!
Egli abiterà con loro
ed essi saranno suoi popoli
ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio.
E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi
e non vi sarà più la morte
né lutto né lamento né affanno,
perché le cose di prima sono passate».
E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose».
“Vidi un cielo nuovo e una terra nuova”. Non si tratta di un altro cielo né di un’altra terra, ma della trasformazione di questo cielo e di questa terra. Trasformazione segnata dalla definitiva sconfitta del male – simbolizzato dal mare – che “non c’era più”. All’epoca il mare era ritenuto il luogo del dominio del male, realtà instabile, insicura, pericolosa e infida; tutto il contrario della terra, ferma e solida.
L’affermazione ricorda il passaggio del mar Rosso in cui il mare prosciugato – divenuto terra ferma – diventa cammino di liberazione del popolo dalla schiavitù dell’Egitto. La scomparsa del male evidenzia il cammino di vita e il trionfo del popolo di Dio, liberato dalla tribolazione. Nella circostanza Dio “asciuga ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate”.
L’evento è diretto da “Colui che sedeva sul trono” e orchestra il processo di trasformazione: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”. L’effetto è che ogni persona e l’umanità intera arriveranno al punto finale, in cui Dio sarà “tutto in tutti” (1Cor 15,28), ed emergerà la pienezza di vita secondo lo stato di ognuno. In esso i rapporti declineranno la dinamica dell’armonia e l’equilibrio propri della sinfonia dell’universo, della bellezza e della gioia senza fine.
Afferma l’apostolo: “vidi anche la città, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, pronta come una sposa adorna per il suo sposo”. Il cielo non è un luogo geografico ma l’ambito della dimora di Dio, l’ambito dell’amore. Pertanto, scendere dal cielo”, rimanda all’incontro con la pienezza di vita, dono della gloria di Dio.
La fede negli effetti della morte e risurrezione del Figlio, e l’apertura della mente e del cuore all’azione dello Spirito Santo, fanno sì che la pratica di vita accolga l’avvento dell’amore di Dio, il suo regno. Allora l’allegria e la gioia saranno intense e comparabili, metaforicamente, a quelle degli sposi nel giorno delle nozze.
Alla visione si aggiunge l’annuncio: “Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva: ’Ecco la tenda di Dio tra gli uomini!”. Si riferisce all’umanità redenta – casa, tempio di Dio – manifestazione della sua gloria. La presenza e la gloria declinano la vita in abbondanza e la gioia senza fine. Gli uomini sperimenteranno l’ampiezza e la profondità di ciò che Gesù aveva promesso e reso disponibile ai credenti già nella vita terrena.
Allora si compirà la promessa di Dio, si manifesterà la chiara percezione del legame tra la vita terrena – vissuta nella fiducia del farsi del suo regno, percorrendo fedelmente il cammino indicato da Gesù, pur nelle avversità e nelle prove – e, con la morte fisica, la promessa della pienezza di vita nella gloria di Dio.
Il legame fra Dio e il popolo, fonte di gioia immensa, qualifica il senso di appartenenza per il quale “Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio”. La persona sperimenta la singolare unione fra l’umano e il divino.
È il compiersi del regno, realizzazione del progetto di Dio, che supera ogni comprensione e attesa umana. Esso è percepito dall’apostolo, pur nelle difficoltà e nella persecuzione che, di per sé stessa, indica il contrario.
Emerge la chiarezza del destino – ciò che è – già presente nell’intimo del credente come dono. Si rivela in tal modo l’opera di Dio, gli effetti riversati nel cuore credente; in altre parole, linfa che percorre la mente e il cuore della vita giornaliera del discepolo e la fede che declina la pratica, creativa e audace, di testimoniare e motivare l’adesione di altri all’impegno per un mondo più umano e fraterno, rispettoso delle individualità e delle diversità.
È quello che Gesù lascia come testamento agli apostoli, prima della consegna di sé stesso nell’evento pasquale, come racconta il Vangelo.
Vangelo (Gv 13,31-33a.34-35)
Quando Giuda fu uscito [dal cenacolo], Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito.
Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri.
Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».
La sera del Giovedì Santo Giuda ha maturato, nel suo animo, il proposito di consegnare Gesù. Nella cena pasquale il Maestro gli offre il pane attinto nell’unico piatto. Gesto di alta considerazione nei suoi riguardi, e l’invito a che proceda nella sua intenzione è, per lo meno, sconcertante dal punto di vista umano.
Perché non fa niente per fermarlo? Perché non interloquisce riguardo al passo falso che si appresta a compiere? Gesù prende atto del proposito di Giuda nel rispetto radicale della sua libertà: lo accoglie e lascia aperta la distanza enorme e la sproporzione fra lui e Sé stesso, ben sapendo ciò che gli accadrà.
È in questa distanza e sproporzione enorme che si inserisce, e prende consistenza, l’avvento della sovranità di Dio nell’umanità di Gesù: nell’assumere e attivare lo “svuotamento di sé stesso assumendo la condizione di servo” (Fil 2,7), nel lasciare che Giuda attui il suo proposito, il lascia libero Pietro di rinnegarlo in seguito.
Tirarsi indietro, per di più a costo della propria vita – che tipo di servizio sta ad indicare?
Con esso opera su sé stesso, sulla propria umanità, il processo di decentramento, erosione, sradicamento: una specie di destrutturazione che porta, metaforicamente, all’esplosione dell’lo; in altre parole, alla distruzione, alla cancellazione degli effetti della tentazione e del peccato che cercano di sedurlo, dominarlo e sottometterlo perfino nell’ultimo momento – “se sei Figlio di Dio, scendi dalla croce …” – prima di spirare.
Pertanto, non soggiogato dall’angoscia della morte né per motivo egocentrico, ricompone la propria soggettività nella pienezza dell’amore escatologico – dell’amore ultimo e definitivo, l’insondabile mistero di Dio – nel quale, la sua umanità immersa nella forza e potere del peccato, emerge vittoriosa a nuova vita.
Questo può dar ragione del perché “Quando Giuda fu uscito dal cenacolo” Gesù afferma: “Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato”: per l’immersione nell’amore di Dio a favore di ogni persona e dell’umanità di tutti i tempi. Cosicché Gesù, “il Figlio dell’uomo”, nell’accogliere su di sé il peccato di Giuda, degli altri e dell’intera umanità, sgretola la separazione dell’umano dal divino e instaura l’amore a livello della comunione trinitaria.
Ecco, allora, l’affermazione: “Dio è stato glorificato in lui”. E “Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito”, nella quale emerge la risurrezione come punto finale.
La glorificazione è legame stretto e indissolubile della relazione presente/futuro. Quest’ultima sostiene la circolarità per la quale l’umano si divinizza e Dio si umanizza, nel rispetto di ciò che proprio dei due. Il presente anticipa il futuro e, quest’ultimo, accoglie il presente e lo porta alla pienezza.
È bene prendere atto che la glorificazione è, simultaneamente, del Figlio e del Padre. Ciò significa che la consegna del Figlio riguarda e investe direttamente anche il Padre ed entra in gioco anche lo Spirito Santo, dinamica dell’evento stesso.
Di conseguenza l’evento è sempre di natura trinitaria e accade in ogni singola persona, e nella comunità, quando si fa proprio l’esempio e il comando che Gesù lascia come testamento: “Figlioli, ancora per poco sono con voi”; “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri”.
È possibile attuarlo? Se non lo fosse Gesù non l’avrebbe comandato. Compierlo richiede la sincera volontà e l’autentico desiderio di farsi coinvolgere realmente nel suo amore. La realizzazione sarà sempre dono dello Spirito Santo, come afferma l’apostolo: “In questo sta l’amore. Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato suo figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4,10).
Tutto ha il suo permanente principio nella trasformazione, del profondo dell’essere, per la sua morte e risurrezione. La percezione dell’amore così intenso, coinvolgente nella permanente fragilità e vulnerabilità della condizione umana, rende possibile quel che enunciano le ultime parole del testo: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri”.