Padre Tonino Falaguasta Nyabenda

 

Siamo nel tempo di Pasqua e nella Liturgia siamo sempre immersi nella gioia pasquale. Cantiamo pertanto la vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte. Per questo abbiamo il coraggio di gridare: “Shalom!”. “Shalom!” (= pace) è il saluto di Gesù, quando si mostra risorto agli Apostoli, ma è anche il saluto normale di ogni Israelita, quando incontra un altro fratello o sorella che condivide la stessa fede nel Dio unico e salvatore. La salvezza ci viene offerta gratuitamente da Gesù con la sua vittoria pasquale. Allora in questo tempo di festa, di gioia e di pace, dobbiamo per forza proclamare il Vangelo del Cristo e gridare alle potenze di questo Mondo, che cercano il dominio dei popoli con le armi e con la guerra, che i loro sforzi sono inutili. Il vero Salvatore dell’umanità è uno solo: Gesù, Cristo e Figlio di Dio (Marco 1, 1).

La prima lettura ci propone un brano degli “Atti degli Apostoli” (Atti 5, 27-32, 4041). L’autore degli Atti è san Luca, colui che ha scritto anche il terzo Vangelo. Quando ha pubblicato il suo lavoro, il volume era uno solo, diviso in due parti. La prima parte era il Vangelo vero e proprio, che parla “di tutto quello che Gesù fece, e insegnò fin dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo” (Atti 1, 1-2). La seconda parte (che ora leggiamo come prima lettura durante il Tempo Pasquale) racconta la presenza di Gesù nei suoi discepoli, cioè nella sua Chiesa, in tutto quello che viene fatto e insegnato nel suo nome (Atti 4, 10). Si potrebbe dire in un altro modo, come propone il biblista Paolo Farinella, che il “Vangelo sono gli Atti di Gesù e gli Atti sono il Vangelo della Chiesa”. Ma fino agli inizi del terzo secolo, la seconda parte del libro di san Luca, si chiamava semplicemente “Seconda parte”. E’ stato un grande teologo, sant’Ireneo (130-202), Vescovo di Lione (Francia) e martire, a dargli il nome di “Atti”. Egli si diceva infatti che i grandi uomini della storia, come Alessandro Magno (356-323 prima di Cristo) o Giulio Cesare (100-44 prima di Cristo), avevano visto le loro vite raccontate e scritte come “Atti”. E allora i grandi uomini della Chiesa, come gli Apostoli, non meritavano anche loro di avere i loro “Atti”? Da quel momento la seconda parte del libro di san Luca si chiamò appunto “Atti degli Apostoli”.

La prima lettura della 3° Domenica di Pasqua è tratta allora dagli Atti e parla dell’interrogatorio di Pietro e Giovanni da parte del Sommo Sacerdote, il quale, con gli altri capi, aveva proibito solennemente a loro di parlare nel nome di Gesù. Ma essi risposero con franchezza: “Se sia giusto dinanzi a Dio obbedire a voi invece che a Dio, giudicatelo voi” (Atti 5, 19). Qui si scopre la mano dell’intellettuale Luca. Pietro e Giovanni erano dei poveri pescatori di Galilea, che erano “persone semplici e senza istruzione” (Atti 5, 13) e non potevano conoscere certamente la storia di Socrate (470-399 prima di Cristo), secondo quanto ha raccontato il suo discepolo Platone (428-348). Ma Luca sì e mette quindi la frase in bocca ai due Apostoli. Ma come Socrate aveva ragione di dire che bisognava obbedire a Dio piuttosto che alle autorità umane, così Pietro e Giovanni hanno fatto capire che non potevano accettare le ingiunzioni del Sinedrio e che quindi avrebbero continuato a parlare di Gesù e di agire in suo nome. Gesù infatti, nel Vangelo di oggi (Giovanni 21, 1-19), si manifesta agli Apostoli su Lago di Galilea. C’era Simon Pietro, che dopo i fatti di Pasqua, aveva abbandonato Gerusalemme, pieno di vergogna per aver rinnegato tre volte (e cioè in maniera apodittica) il Signore, e altri Apostoli, anch’essi scoraggiati, delusi e anche un po’ pieni di rimorsi per non aver agito in difesa di Gesù. Pietro non sapeva che cosa fare e, come per riempire il tempo, disse: “Vado a pescare”. Era l’unica cosa che sapeva fare e poi voleva stare un po’ da solo, per vedere che cosa avrebbe fatto della sua vita, dopo aver vissuto tre anni con il Rabbi di Nazareth. “Veniamo con te!” dissero gli altri sei, anche se non desiderati. E quella notte non presero nulla. Ma all’alba, un uomo sulla riva, accanto a un fuocherello, gridò: “Figlioli, non avete nulla da mangiare?”. Risposero con un secco: “No!”. Partiti con Pietro, perché delusi e annoiati, ora, dopo una notte di inutili sforzi, erano anche molto arrabbiati. “Gettate le reti dalla parte destra della barca!” esclamò quell’uomo. E, quasi meccanicamente, buttarono le loro reti vuote e consunte, secondo le indicazioni di quello sconosciuto. “E’ il Signore!” esclamò Giovanni, alla vista delle reti stracolme di pesci. Perché Giovanni? E’ il più giovane; poteva avere 20 anni circa. Ma soprattutto Giovanni era quel discepolo che Gesù prediligeva e conosceva pertanto l’amore del Signore, perché aveva posato il capo sul suo petto (Giovanni 13, 25). E’ stato poi ai piedi della croce, assieme alla Madre, mentre tutti gli altri erano fuggiti. Solo l’amore vede e segnala a tutti la via migliore, quella di Gesù, che è la carità.

Pietro e i discepoli scesero a terra, trascinando le reti cariche di 153 grossi pesci. La terra è dove Gesù si manifesta; è il luogo dell’Eucaristia, che è la vera terra promessa, dove si può e si deve vivere da figli e da fratelli. Gesù allora diede agli Apostoli del pane, dopo averlo spezzato, e del pesce arrostito. E’ la Messa! Il pesce poi in greco (= la lingua dei Vangeli) si dice “ikthùs” che è un acronimo di: “Gesù, Figlio di Dio, Salvatore”. Era la professione di fede della prima generazione cristiana, specialmente in tempi di persecuzione. Per sant’Agostino (354-430), il pesce arrostito sul fuoco rappresenta il Cristo nella passione. Egli scrive infatti: “Piscis assus, Christus passus” (= il pesce arrostito raffigura Gesù nella passione e morte). Quindi Gesù, flagellato e crocifisso, diventa, nell’Eucaristia, cibo per tutti noi.

I pesci pescati erano 153. Come mai una cifra così? Le soluzioni proposte sono tante. Ci accontentiamo di quella offerta dalla ghemantria (= scienza dei numeri, usata particolarmente nella cabala). In ebraico (come in greco e in latino), i numeri, fino alla diffusione dei numeri arabici, proposta da Fibonacci Leonardo, nato a Pisa nel 1170 e morto nel 1242, venivano espressi con le lettere dell’alfabeto. Allora “figli di Dio” in ebraico dà esattamente la cifra 153, per indicare che ormai tutti gli abitanti della Terra sono destinati a usufruire della redenzione, frutto della Pasqua del Signore Gesù.

Il Cristo poi, dopo il pasto, si rivolge a Pietro e gli chiede: “Mi ami tu più di costoro?” e voleva dire: Mi ami più di quanto costoro amano me?. Nel testo greco si usa il verbo “agapao” (= amare): che è l’amore gratuito con il quale Dio ha amato il mondo così da dare il suo Figlio Unigenito (Giovanni 3, 16). E questo amore poi è lo stesso con il quale Gesù ci ha amati ed è lo stesso che noi dobbiamo avere gli uni per gli altri (Giovanni 13, 34). Pietro risponde: “Tu sai che ti sono amico”. Egli usa allora il verbo greco: “phileo”, che significa essere amico. La domanda è fatta una volta, due volte… La terza volta Gesù gli chiede: “Davvero tu mi sei amico?”. Pietro risponde: “Signore, tu sai tutto, tu conosci che ti sono amico”. Egli si ricorda delle tre infedeltà e riconosce che essere amico di Gesù è un dono del Signore. Lo potrà seguire poi fino a dare la vita, crocifisso (a testa in giù, secondo la tradizione, a Roma, nel 64 dopo Cristo, durante la persecuzione dell’imperatore Nerone).

Allora Gesù gli dà la grazia di essere un “pastore bello” (Giovanni 10, 11). Potrà pascere gli agnelli e anche le pecore.

A questo proposito ai pastori (Papa, Vescovi e preti) che guidano la Chiesa, sant’Antonio di Padova (1195-1231) diceva che Gesù ha detto di pascere e non di “tosare” pecore e agnelli. Voleva significare che proprio del pastore non è lo sfruttamento, ma il servizio, fino alla lavanda dei piedi, fino al dono della vita. Ma a volte non è così. E’ doveroso allora riflettere, specialmente per i pastori della Chiesa.

San Daniele Comboni (1831-1881) ha sempre voluto essere un pastore secondo il cuore di Cristo. Nella quarta edizione del “Piano per la rigenerazione dell’Africa”, del 1871, così scriveva dei suoi Missionari, gli apostoli moderni: “Gli apostoli non porteranno … le spoglie dei vinti, ma a loro (= agli abitanti dell’Africa Centrale) recheranno il tesoro della fede; ad imitazione del Divin Pastore, dalle spine, di cui erano avviluppati, e dall’oppressione, nella quale giacevano, (gli apostoli) prenderanno sulle loro spalle (come fece Gesù con la pecora smarrita) gli abitanti dell’Africa Centrale, per portarli in trionfo nei liberi pascoli della Chiesa”.

P. Tonino Falaguasta Nyabenda