Padre Luigi Consonni
Commento alle letture: III DOMENICA DI PASQUA -C-
(01/05/2022)
Prima lettura (At 5,27b-32.40b-41)
In quei giorni, il sommo sacerdote interrogò gli apostoli dicendo: «Non vi avevamo espressamente proibito di insegnare in questo nome? Ed ecco, avete riempito Gerusalemme del vostro insegnamento e volete far ricadere su di noi il sangue di quest’uomo».
Rispose allora Pietro insieme agli apostoli: «Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini. Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù, che voi avete ucciso appendendolo a una croce. Dio lo ha innalzato alla sua destra come capo e salvatore, per dare a Israele conversione e perdono dei peccati. E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a quelli che gli obbediscono».
Fecero flagellare [gli apostoli] e ordinarono loro di non parlare nel nome di Gesù. Quindi li rimisero in libertà. Essi allora se ne andarono via dal Sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù.
Con l’evento della Pentecoste gli apostoli prendono coscienza del significato e dell’importanza della morte e risurrezione di Gesù Cristo. L’evento illumina la loro mente riguardo alla svolta radicale e impensabile del passaggio di Gesù da maledetto da Dio – tale era il significato della morte in croce – a Salvatore, glorificato dal Padre per mezzo dello Spirito Santo.
La nuova coscienza porta con sé la necessità dell’annuncio, della predicazione dell’evento Gesù Cristo in Gerusalemme. Lo scontro degli apostoli con le autorità è inevitabile; il sommo sacerdote e il Sinedrio sono spiazzati, privati della loro autorevolezza e addirittura incolpati dell’ingiusta condanna.
La reazione del sommo sacerdote è categorica: “Non vi avevamo espressamente proibito di insegnare in questo nome? Ed ecco, avete riempito Gerusalemme del vostro insegnamento e volete far ricadere su di noi il sangue di quest’uomo”. La disobbedienza degli apostoli suscita forte tensione fra il sommo sacerdote, il sinedrio e gli umili sconosciuti seguaci del crocefisso, esposti al pericolo di subire la stessa sorte del maestro.
Pur nella loro insignificanza sociale e religiosa davanti alla massima autorità Pietro, con agli altri, non s’intimorisce né si lascia prendere dal senso d’inferiorità ma, con audacia e coraggio, afferma: “Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini”. Per obbedienza a Dio sconfessa l’autorevolezza loro e di tutti quelli che intendono proibire la loro predicazione e l’insegnamento ritenendolo eretico, una bestemmia, la negazione della vera fede nel messia e nell’avvento della sovranità di Dio.
Pietro argomenta con grande audacia e coraggio, sapendo del rischio che corre. Motiva loro il dissenso e annuncia il contenuto fondante dell’insegnamento: “Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù (…) lo ha innalzato alla sua destra come capo e salvatore, per dare a Israele conversione e perdono dei peccati”. In altre parole, Dio rovescia il loro giudizio su Gesù e anche per costoro è opportunità di conversione, di perdono della loro incredulità e della sfiducia nei riguardi di Gesù, ora costituito Cristo alla destra di Dio Padre.
Il coraggio e la determinazione emergono dalla convinzione profonda che “di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a quelli che gli obbediscono”. L’obbedienza a Dio per la fede – nell’accogliere di essere accettati da Gesù Cristo, trasformati dagli effetti della sua morte e risurrezione e continuatori della causa del regno – manifesta la stabilità, la consistenza della comunione con Lui per l’azione dello Spirito Santo, che li rende autentici testimoni tramite la predicazione e l’annuncio anche a costo dello scontro con le autorità religiose.
Lo scontro è fra due idee opposte – quella del sinedrio e la loro – escludenti e irriducibili una dall’altra riguardo a Dio. In nome dello stesso Dio quelli che condannarono e uccisero Gesù lo fecero con l’intenzione di “salvare” Dio, il popolo, il tempio e la religione, vedendo in Lui il pericolo di sopravvivenza della stessa nazione da parte dei romani, motivo per cui afferma Caifa: “è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera!” (Gv11,50).
Il Dio di Gesù, che gli apostoli annunciano e testimoniano, instaura l’avvento del regno di Dio e, con esso, la rigenerazione di ogni credente e lo strutturarsi della nuova società nei termini dell’Alleanza, rimasta sempre incompiuta e distorta perché asservita al mantenimento del potere da parte delle autorità religiose.
Il sommo sacerdote e le autorità non hanno alcuna intenzione di rivedere le loro convinzioni e, pertanto, agli apostoli hanno “espressamente proibito di insegnare”. La risposta di Pietro, che sfida la possibile condanna a morte, è ferma e determinata: “Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini”. Egli testimonia la forte e consistente identificazione con l’evento pasquale e la persona stessa di Gesù.
“La bocca parla di ciò che ha pieno il cuore”, particolarmente in circostanze simili dove è in gioco la propria irrinunciabile identità, anche a costo della vita. Il coraggio e l’audacia sorgono per la solida e irrinunciabile identificazione con la causa del regno, in virtù della comunione con Gesù Cristo e della fedeltà all’insegnamento e alla sua pratica. Tale condizione rivela la qualità della responsabilità e della libertà interiore, dell’autenticità della testimonianza anche nelle condizioni più avverse, e addirittura pericolose, come nel caso riportato.
L’agire in modo contrario – per salvarsi dalla persecuzione e non avere problemi, discussioni, dissapori o altro – comporta rinnegare sé stesso, la propria identità e, con ciò, dare spazio all’auto-distruzione, la morte interiore, quello che l’Apocalisse segnala come la seconda morte. Viene meno la Verità (con la V maiuscola): “Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8,31-32), responsabili e liberi per amare.
Fra parentesi, bisogna fare attenzione a non usare queste e altre parole del Signore per cadere in comprensioni, schemi e atteggiamenti fanatici, tali da motivare comportamenti contrari al senso autentico per il quale sono proferite, quali la pratica dell’amore nell’ambito del valore della diversità e dell’intuizione, associando la capacità di gestire in modo opportuno la complessità del contesto e della circostanza da evangelizzare.
La reazione delle autorità è molto dura. Probabilmente sono impressionate e sconcertate dalla resistenza e da ciò che stava succedendo nell’ambiente. Esse non osano ripetere quello che fecero con Gesù ma, comunque, determinano il castigo nella speranza che, umiliandoli, smorzino il loro ardore ed entusiasmo.
Ma ciò suscita l’effetto contrario: “se ne andarono via dal Sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù”. È la vittoria sull’umiliazione, il dolore e la paura, ma anche il consolidamento dell’identificazione con la persona di Gesù e la causa del Regno.
La specifica condizione del Risorto, alla quale è unito ogni autentico credente, è presentata nella seconda lettura.
Seconda lettura (Ap 5,11-14)
Io, Giovanni, vidi, e udii voci di molti angeli attorno al trono e agli esseri viventi e agli anziani. Il loro numero era miriadi di miriadi e migliaia di migliaia e dicevano a gran voce:
«L’Agnello, che è stato immolato,
è degno di ricevere potenza e ricchezza,
sapienza e forza,
onore, gloria e benedizione».
Tutte le creature nel cielo e sulla terra, sotto terra e nel mare, e tutti gli esseri che vi si trovavano, udii che dicevano:
«A Colui che siede sul trono e all’Agnello
lode, onore, gloria e potenza,
nei secoli dei secoli».
E i quattro esseri viventi dicevano: «Amen». E gli anziani si prostrarono in adorazione.
La figura centrale del testo è “L’Agnello, che è stato immolato”, il vero e più importante simbolo della Pasqua. È il Vivente che riunisce in sé due realtà opposte quali la morte e la vita nella condizione del risorto. L’agnello immolato, il cui sangue liberò il popolo dalla morte in quell’indimenticabile notte dell’uscita dall’Egitto, era ben conosciuto. Gesù, il nuovo Agnello crocefisso, sostituisce una volta per sempre l’antico e libera dal peccato l’umanità di ogni tempo e luogo.
In Gesù ciò che sorprende è che, in virtù della morte, è il Vivente. Motivo di tale condizione è l’amore che, donato per la causa dell’avvento del regno, è lo stesso che risuscita. Di più, se prima poteva morire, adesso non più, perché la risurrezione del corpo è morte della morte.
Pertanto, per la fede nel Figlio, coinvolge ogni credente nel dono del Padre per l’azione dello Spirito e, specificamente, per gli effetti della morte e risurrezione di Gesù. La morte non è eliminata dalla condizione umana, ma semplicemente vinta – anche prima che accada – per la pratica dell’amore di Gesù a favore della causa del regno.
La fede in Gesù Cristo niente toglie alla morte di ciò che gli è propria, incluso ciò che Gesù provò all’avvicinarsi di essa il Giovedì Santo. Ma quest’ultimo avvenimento non è la realtà finale della vita, perché l’amore per la causa del regno fa percepire, e porta con sé nel profondo dell’animo, “la potenza di una vita indistruttibile” (Eb 7,16), per l’entrata e la partecipazione nel mistero di Dio.
Il coinvolgimento per la fede si basa sul presupposto che Gesù è il rappresentante di tutti gli uomini e dell’umanità intera davanti al Padre. Rappresenta l’uomo che resiste senza cedere, fino all’ultimo, alle lusinghe e alle tentazioni, caricando su di sé le conseguenze del peccato, della sfiducia degli uomini riguardo alla sua persona quale Figlio di Dio e per la causa dell’avvento del regno.
La resistenza di Gesù è sostenuta dalla fiducia nella promessa del Padre dell’avvento della sua sovranità e del Regno. Il Padre risponderà positivamente a Gesù Crocefisso con la risurrezione per lo Spirito Santo, ovvero, alla sua consegna per amore: “Padre, nelle tue mani consegno il mio Spirito” (Lc 23,46).
Ciò che Gesù realizza con la morte e risurrezione quale rappresentante è trasmesso al rappresentato con il dono degli effetti della sua missione. Di conseguenza ogni credente è posto in condizione totalmente nuova davanti al Padre. Guardando sé stesso con gli occhi del Padre si vede giustificato, reintegrato nell’amicizia con Dio e partecipe della vita divina. È l’uomo nuovo, giustamente ottimista sotto questo punto di vista.
Tutto ha inizio e si rivela per la fede. Quel che è successo in Gesù Cristo è a disposizione di ogni persona che, liberamente, accoglie il dono gratuito del rappresentante. Succede nel silenzio radicale e profondo di sé stesso: non vi è alcuna manifestazione esteriore – audizioni, apparizioni, segni particolari ecc. – né alcuna percezione interiore di tipo psicologico – carattere, fantasie, sentimenti stravolgenti ecc. – al punto da dubitare della realizzazione.
Tuttavia il dubbio fa parte dell’atto di fede. Credere è un atto della volontà, misteriosamente intrisa del dono di Dio che sostiene nel credente lo stupore, la meraviglia e la gratitudine per l’intervento sorprendente e immeritato.
“A colui che siede sul trono e all’Agnello, lode, onore, gloria e potenza nei secoli”. L’Agnello partecipa della stessa gloria del Padre che siede sul trono. L’umanità di Dio, la persona umana di Gesù, nata dal seno di Maria in Betlemme, arriva alla meta ultima e definitiva con l’esaltazione e la glorificazione nella comunione trinitaria.
L’uomo Gesù carica su di sé la condizione di “Agnello immolato”, degno di onore e gloria da tutte “le creature nel cielo e sulla terra, sotto terra e nel mare, e tutti gli esseri che vi si trovano”, nella liturgia celeste. Infatti il testo è un inno della liturgia cristiana e fa riferimento all’intronizzazione di Cristo e all’adorazione dovutagli dell’universo.
L’immensa moltitudine ingloba chiunque partecipa simultaneamente della liturgia terrestre e celeste o, meglio, dell’unica liturgia che celebra il culto spirituale del dono di sé per la pratica dell’amore. E liturgicamente è trasmesso dalla fede nella celebrazione dell’Eucaristia.
Con il Risorto tutto ricomincia negli stessi luoghi nella Galilea ove ebbero inizio i primi incontri di Gesù con gli apostoli, ma partendo dal punto d’arrivo e dal sincero amore per “l’Agnello immolato”, come racconta il Vangelo.
Vangelo (Gv 21,1-19)
In quel tempo, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla.
Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri.
Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora». Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore. Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti.
Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».
Dopo il tremendo colpo, e lo sconcerto del Venerdì Santo, gli apostoli abbattuti e delusi tornano alla loro terra e alle attività antecedenti all’incontro con Gesù. Con l’esperienza del Risorto nel cenacolo, la sera della domenica di risurrezione, non hanno capito la portata e il significato dell’evento. Riprendono la loro attività e il lavoro di prima con lo stesso insuccesso di quando incontrarono Gesù. Come allora, infatti, “salirono sulla barca ma quella notte non presero nulla”.
Quando già era l’alba – l’inizio di un nuovo giorno che per loro sarà l’inizio della nuova comprensione del risorto, come la luce dell’alba che rischiara le tenebre della mente e del cuore – “Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù”, nemmeno quando si rivolse loro chiedendo se avessero da mangiare e ricevendo un “no” secco. L’anonima persona disse loro di gettare “la rete dalla parte destra della barca e troverete”, come fu in quel primo incontro. “La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci”. L’efficacia della parola fa scattare nel “discepolo che Gesù amava, rivolgendosi a Pietro: ‘ è il Signore!’”.
Il testo che segue ha un sapore eucaristico. È Gesù stesso che ora offre da mangiare ai discepoli il frutto della loro obbedienza.
“Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti”. In realtà non è vero, è la quarta volta. Ma il numero “tre” nella simbologia ebraica significa “quello che è definitivo, che è completo”. Ebbene, nella prima apparizione il Risorto chiama per nome Maria e questa, pensando fosse il custode del giardino, scopre che è Gesù. Una seconda apparizione avviene quando si manifesta a due discepoli in cammino verso Emmaus e, dopo aver spiegato le scritture e scaldato il loro cuore, spezzando il pane fu riconosciuto come Risorto. E nel brano odierno, la fiducia nella sua parola e la pratica corrispondente fa sì che i discepoli lo riconoscano.
Il messaggio è che il rapporto personale con Gesù, l’istruzione e la fiducia nella parola sono elementi che ogni persona ha a disposizione per sperimentare la presenza del risorto in circostanze specifiche.
Gesù, con la stessa dinamica, pone la triplice domanda a Pietro, profondamente umiliato più degli altri per la triplice negazione la notte della passione. La triplice domanda di Gesù è come un balsamo per uscire dal profondo turbamento e ristabilire il rapporto di sincero amore verso il Signore, naufragato nella debolezza e presunzione di essere all’altezza, in ogni circostanza, di gestire autonomamente e con successo la fedeltà, in virtù del sincero sentimento verso il maestro.
La finalità dell’intervento di Gesù è reintegrarlo nel servizio pastorale – “Pasci i miei agnelli” – per la triplice e sincera risposta di amore nei Suoi confronti. Con esso la debolezza e la fragilità di ogni persona è riscattata dall’abisso dell’indegnità e dell’umiliazione, per servire i fratelli con la stessa dinamica e forza dell’amore che ha sperimentato.