Padre Alessio Geraci

A partire dal cuore ……

L’invito che Dio ci rivolge attraverso la sua Parola in questa quarta domenica di Quaresima è quello di essere persone nuove. San Paolo nel frammento della sua seconda lettera ai Corinzi, che la liturgia ci offre questa domenica come seconda lettura, ci esorta a non ancorarci al passato, ma a vivere un’epoca nuova, che è già iniziata: il tempo di essere nuove creature, in Cristo. Dio, ci dice San Paolo, «attraverso Cristo ci ha riconciliati con sé». Come possiamo vedere, l’iniziativa è sempre di Dio, è Lui che ci viene incontro per cercarci e darci il suo abbraccio di misericordia e di riconciliazione. Facciamo risuonare forte nei nostri cuori, specialmente in questo folle tempo di guerra, le parole di Paolo: «vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio». Un modo molto efficace per mettere in pratica queste parole di San Paolo è attraverso il sacramento della riconciliazione, dove possiamo davvero sperimentare in modo concreto come la misericordia di Dio supera i nostri errori ed orrori, i nostri peccati.

Il Vangelo di questa domenica ci presenta il racconto della parabola del figliol prodigo, chiamata anche del “padre misericordioso”. Siamo nel capitolo quindici del vangelo lucano; considero i primi due versetti fondamentali per capire la nostra parabola. C’è una contrapposizione molto forte: da un lato ci sono quelli erano stati dichiarati dalla società e la religione del tempo di Gesù, strettamente legata al tempio, con inappellabile sentenza “peccatori”, impuri agli occhi di Dio; dall’altro lato ci sono i farisei e gli scribi, coloro cioè che rappresentavano la religione del tempo legata al tempio. I primi si avvicinano a Gesù, per ascoltarlo, gli altri invece mormorano e rimproverano a Gesù il suo accogliere i peccatori e il mangiare con loro. Due reazioni opposte quindi.

Due premesse fondamentali da fare; la prima: la parabola è uno dei tanti generi letterari che si trovano nella Bibbia. E si utilizza anche l’esagerazione per provocare l’attenzione (e non solo!) di chi sta ascoltando. La seconda: questa è la terza parabola che Gesù racconta dopo l’introduzione di Luca in questo capitolo 15; ci sono infatti prima di questa parabola, nei 7 versetti precedenti, quella della pecorella smarrita e quella della moneta smarrita. In entrambi i casi si vuole sottolineare la gioia di chi ritrova ciò che considerava ormai perduto. La parabola di oggi si inserisce quindi in questa “trilogia” di parabole della gioia. E davvero, leggerla e meditarla in questo tempo di Quaresima, dove maggiormente siamo chiamati alla conversione, ci fa capire quanto gioisca Dio ogni volta che torniamo da Lui! “Immergiamoci” allora nella nostra parabola. Subito ci viene presentata la figura del padre. Ma nessun accenno sul nome, né sulla professione né su nient’altro. Dal testo sappiamo solo che era un uomo e aveva due figli. E il figlio minore chiede la sua parte del patrimonio al padre. Poche parole usate dall’evangelista Luca per descrivere la scena. Il testo ci dice solo che il padre gli diede ciò che aveva chiesto. Per la mentalità dell’epoca, ciò che stava accadendo era molto più forte di ciò che possiamo immaginare. Infatti, e penso che la cosa a livello logico, sia valida anche adesso, un patrimonio, un’eredità, vengono divisi quando una persona muore…non quando questa è ancora in vita. Allora se proviamo ad immaginare i sentimenti del padre, non è difficile scorgere un cuore ferito mortalmente: il figlio lo aveva “ucciso”, prendendogli in un solo colpo i soldi e la vita (e infatti Luca utilizza la parola greca “bios” che significa proprio…vita!).

Il piano sembrava perfetto. Lontano da casa, con tanti soldi e con tanti progetti. Ma ecco l’imprevisto: da giovane ricco e libero, diventa povero. Il vero imprevisto però è la carestia che sopraggiunge in quel momento nel paese straniero dove si trova il “nostro” giovane. Provate ad immaginare cosa significhi per un ebreo che ascolta questa parabola dalle labbra di Gesù: il figlio cerca lavoro, e ottiene di prendersi cura dei porci. Suppongo che abbia creato sdegno. Guardiano dei porci (per gli ebrei, i porci rappresentano il massimo dell’impurità) in una terra straniera. E non è tutto…il testo ci dice anche che avrebbe voluto saziarsi con le carrube che vengono date ai porci ma nessuno gliene dava. In terra straniera, con l’umiliazione di fare il guardiano ai porci, costretto a patire la fame…tutti i suoi sogni di gloria sono sfumati! Che cosa gli mancava? Una casa l’aveva, una famiglia anche, il cibo non mancava mai sulla sua tavola, anzi. Lo scontrarsi con la dura realtà lo costringe a guardare a ciò che aveva e adesso ha perso. Il testo ci dice che «rientrò in sé stesso». Cosa che anche noi siamo chiamati a fare in questa Quaresima, per cambiare strada e vita, e tornare al Padre!

Il giovane così si mette in viaggio; è lì che pensa di avere trovato la “chiave di volta”: confidando nella bontà del padre, gli dirà che è pentito di quello che ha fatto, e che non merita più di essere trattato come suo figlio, ma come uno dei suoi servi. Cerca quindi di commuovere suo padre per recuperare ciò che ha perso: la casa, l’affetto della famiglia, il cibo, la sicurezza.

Il padre, per questa società, e anche per quella di duemila anni fa, avrebbe dovuto aspettare il figlio comodamente seduto. E forse anche con un bastone nelle mani, pronto a fargli sentire “fisicamente” tutta l’amarezza, la delusione, la rabbia e la tristezza che quel gesto gli aveva procurato. Ma…colpo di scena: il padre si alza, e quando il figlio era ancora distante, ci dice il testo, «ebbe compassione», si lascia quindi toccare il cuore e le viscere dal ritorno tanto aspettato del figlio. Si mette quindi in cammino verso di lui…non semplicemente come qualsiasi persona che si mette in viaggio, ma correndo. Lo raggiunge, gli si getta al collo e lo bacia. Ora, in queste azioni iniziali del padre, non vi è traccia alcuna di risentimento, di amarezza, di delusione, di rabbia. Al contrario, si intravede una grande e risoluta volontà di abbracciare il figlio. Che tutto si aspettava, tranne che essere accolto così; prova a questo punto a balbettare parte del discorsetto che si era preparato: arriva a dire la parte iniziale, quella dove riconosce di avere sbagliato e di non essere degno di essere chiamato figlio suo. Ma il padre non lo lascia terminare. Non lo vuole umiliare, non lo vuole ferire più di quanto quest’esperienza traumatica, lo abbia già ferito. Vuole solo gioire, con lui. Non lo lascia finire di parlare, ma anzi, comincia a parlare lui, rivolgendosi ai servi, ma in modo che il figlio non solo ascolti, ma capisca, e capisca bene. È il “padrone” che parla adesso. E gli ordini sono irrevocabili. Il primo è quello di portare immediatamente l’abito più bello, quello della festa, e farlo indossare al figlio, perché è un momento di festa, è un momento speciale. Il secondo gesto è quello di fargli mettere l’anello al dito e i sandali ai piedi. Non due gesti che passino inosservati. Con l’anello al dito, con ogni probabilità l’anello di famiglia, il figlio era “ufficialmente” parte della famiglia, nuovamente. Credo che per il padre, questo non sia mai stato in discussione; ma reputo quest’azione importantissima, agli occhi del figlio, innanzitutto, perché pentito o meno, non si sentiva più membro di quella famiglia. I sandali ai piedi, gli restituiscono quella dignità, che l’aver lavorato come guardiano dei porci in territorio straniero, gli avevano tolto agli occhi della gente e ai suoi propri occhi. Non credo proprio agli occhi del padre, perché un figlio rimane sempre un figlio, in qualsiasi caso. E infine il gesto di fare portare il vitello grasso, di ucciderlo e di fare festa. È arrivato il momento di fare festa; è il momento delle grandi occasioni, il momento di mettere in tavola ciò che di più buono ci possa essere, il momento di condividere la gioia con le persone care. La motivazione del padre è importante. Quando il figlio decide di tornare a casa, pensa di non essere più degno di essere chiamato “figlio” di suo padre. Ora, il padre nella motivazione di questi gesti, usa l’aggettivo possessivo «mio», per indicare il figlio. «Questo mio figlio», dice il padre, era perduto ed è stato ritrovato. Era morto ed è tornato in vita. Ecco il motivo della festa. I gesti che questo padre compie lo ridicolizzano agli occhi del mondo. L’andare incontro al figlio, correndo, il “riammetterlo” solennemente all’interno della sua famiglia dopo la grave colpa di cui si è macchiato, il fare festa per questo suo ritorno…gli fanno perdere la dignità agli occhi della società di quel tempo. Ma a questo padre interessa solo il ritorno del figlio, più dei giudizi (e pregiudizi) della gente. Così agisce Dio con noi, nella speranza di un nostro ritorno a casa!

Il figlio maggiore è nei campi. Come ogni giorno, sta lavorando per il padre. Esempio di figlio “modello” agli occhi della gente: mai un ordine trasgredito, mai una parola fuori posto, mai un eccesso da rimproverare. Impeccabile! Terminato il lavoro, torna verso casa e.…scopre la sorpresa. Sente la musica, intuisce che a casa sua c’è una festa; incuriosito e indispettito forse, chiama uno dei servi e gli domanda che cosa stia succedendo. Il servo allora, per spiegare che il fratello è tornato e la festa deriva da questo ritorno, usa per ben due volte l’aggettivo possessivo “tuo”: «Tuo fratello è qui», e «tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». Il figlio maggiore allora si infuria, e indignato, non vuole entrare, non vuole condividere la gioia e la festa. Resta sulla soglia, e aggrappandosi al suo orgoglio, comincia la sua accusa. Parla, straparla, accecato dalla rabbia, dall’orgoglio ferito e dalla gelosia. Quando dice «io ti servo da tanti anni», ci fa capire una cosa molto importante: forse figlio non si è mai sentito. Si sentiva un servo, come gli altri che servivano il padre/padrone. Ma non un figlio. E comincia ad accusare il fratello. Davvero è molto importante l’uso degli aggettivi possessivi che il padre e il figlio fanno, nel loro dialogo. Il figlio maggiore dice «questo tuo figlio» … e «i tuoi averi». Il padre comincia la sua risposta con la parola «figlio». E questo indica già che tipo di relazione c’è per lui: quella di padre-figlio e non di padrone-servo, come la viveva il figlio. E non certo per colpa del padre! Ma il padre va oltre: «tutto ciò che è mio è tuo». Sta facendo forse riferimento al patrimonio?? Si, ma non solo. Io penso che faccia riferimento anche alla sua stessa vita. Che appartiene al figlio minore, e al figlio maggiore. In uguale misura. Un padre dal resto si comporta così. Non come un padrone con il proprio servo: una relazione questa, dove si rispettano le distanze. Ma un padre darebbe tutto al proprio figlio. Financo il suo stesso cuore e la sua stessa vita! Il padre prosegue dando la stessa motivazione di ciò che stava accadendo, che aveva dato ai servi davanti al figlio minore: il figlio era tornato sano e salvo, era perduto ed è stato ritrovato. Come non fare festa? Qui il padre dice «tuo fratello»: gioca tutto sulla relazione personale. Così fredde le parole del figlio maggiore, così calde quelle del padre, disposto a tutto pur di “ritrovare” anche il figlio maggiore. Così diversi, eppure così uguali i due fratelli. Uguali perché entrambi sperimentano la bellezza dell’amore travolgente del padre. E perché entrambi stanno “fuori” casa. Il minore perché esce da quella casa per la smania di libertà. Il maggiore perché non vuole entrare e condividere la gioia del padre.

Il testo si chiude con l’invito del padre: l’evangelista però, non ci dice se il figlio accoglie l’invito, o preferisce restare fuori casa, se le parole del padre hanno fatto breccia nel suo cuore, oppure hanno prevalso il suo risentimento e il suo orgoglio. In questo finale “aperto”, vedo un grande appello alla libertà. Dio non obbliga nessuno, ma lascia liberi, tutti. Liberi di accogliere il suo amore e la sua misericordia. Ma anche di non accoglierlo. Liberi di gioire con lui. Ma anche di non gioire con lui. Il padre di questa parabola non impone niente. Né al figlio minore, né al maggiore. Non dice al minore: “oh, sei tornato… con quale coraggio ti presenti qua??? Se vuoi tornare a casa, prima mi devi chiedere perdono davanti a tutti e in ginocchio” …né al maggiore: “entra subito, perché è un mio ordine”. In entrambi i casi, il padre poteva farlo. Ma non lo fa, non agisce come avremmo agito noi. Ma agisce da padre-madre, con compassione, lasciandosi toccare cuore e viscere, donando vita, a chi quella vita l’aveva persa.

Gesù avrà creato sconcerto nei farisei e negli scribi, raccontando questa parabola.

I farisei e gli scribi di oggi (si, esistono ancora oggi, ovviamente “sotto falso nome”!) saranno indignati nell’ascoltare questa storia. I peccatori di ieri e di oggi (e tutti lo siamo) avranno accolto questa storia come…una Buona Notizia! Coloro che dalla società e dalla religione di ieri e di oggi, sono stati messi al margine, e che hanno creduto (forse perché con le nostre parole ed azioni, gliel’abbiamo fatto credere) di essere “impuri” agli occhi di Dio, scoprono adesso che non solo non sono considerati impuri da Dio, ma che anzi, sono amati in maniera unica e speciale da Lui. Un amore traboccante, inebriante, spumeggiante, rigenerante. Che ridona vita, e dignità. È questa dal resto la Buona Notizia! Anche lontani da Lui, rimaniamo sempre suoi figli. Perché la nostra con Lui è una relazione viscerale, che da parte sua, non potrà mai essere distrutta. Mai. Neanche dall’errore più grave e tremendo che possa esserci. E Lui è sempre pronto, con il cuore palpitante di emozione e di commozione, ad alzarsi per mettersi in cammino. Per correre verso di noi. Per venirci incontro. Non per giudicarci, né per condannarci (come fanno tutti). Ma per abbracciarci e donarci ancora una volta tutto il suo amore, per donarci vita. E per invitarci a fare festa con lui. E per aiutarci a riconoscerci tutti, peccatori perdonati, che condividono il perdono ricevuto perché figli amatissimi di Dio.

Per terminare la nostra riflessione, possiamo domandarci… a chi ci sentiamo più vicini? Al figlio minore, al figlio maggiore, o al padre? Forse ad entrambi i figli: a volte smaniosi di libertà, come il figlio minore, ci allontaniamo dal Padre (e dalla famiglia…leggasi anche: comunità di fratelli e sorelle…chiesa!), a volte, come il figlio maggiore, non riusciamo proprio a comprendere la misericordia di Dio verso le persone che noi pensiamo non ne siano degni, che noi escludiamo dalla nostra misericordia.

Come dice bene il detto: “dimmi chi escludi e ti dirò chi sei”!

Camminiamo allora, specialmente in questa Quaresima, con la speranza di un cammino di conversione che ci porti ad essere come il padre, e ad usare misericordia verso i nostri fratelli e le nostre sorelle che incontriamo nel nostro cammino. Uniamo la nostra voce a quella del salmista per esprimere la nostra lode al Signore per essere così benevolo con noi: «Benedirò il Signore in ogni tempo, sulla mia bocca sempre la sua lode».

Buona domenica!

Con la missione nel cuore
Padre Alessio Geraci