Padre Luigi Consonni

Commento alle letture:  IV DOMENICA DI QUARESIMA -C-

(27/03/2022)

Prima lettura (Gs 5,9-12)

In quei giorni, il Signore disse a Giosuè: «Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto». Gli Israeliti rimasero accampati a Gàlgala e celebrarono la Pasqua al quattordici del mese, alla sera, nelle steppe di Gerico. Il giorno dopo la Pasqua mangiarono i prodotti della terra, azzimi e frumento abbrustolito in quello stesso giorno. E a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato i prodotti della terra, la manna cessò. Gli Israeliti non ebbero più manna; quell’anno mangiarono i frutti della terra di Canaan.

Si tratta di un momento decisivo e determinante per il popolo d’Israele. Con l’arrivo nella terra promessa, la peregrinazione nel deserto è terminata: il popolo si trova “nelle steppe di Gerico” e, come primo atto, celebra la Pasqua. Con essa fa memoria dell’uscita, della liberazione, dall’Egitto – simbolo del male e del peccato -, dell’alleanza stabilita con Dio nel Sinai e, con la traversata nel deserto, del processo di purificazione e consolidamento della libertà.
L’esperienza segna, con la Pasqua, il passaggio dalla schiavitù alla libertà. Ogni anno sarà celebrata per attualizzare gli effetti di quest’evento fondante, in modo che ogni partecipante e le generazioni future – che non hanno vissuto direttamente quell’evento – siano pienamente coinvolte nell’Alleanza, come se tutti avessero lasciato l’Egitto e attraversato il mare in direzione della terra promessa. In tal senso la Pasqua annuale sarà sempre un punto d’arrivo e di partenza.
Il Signore ha fatto di essi un popolo libero, ha donato loro la libertà per amare con lo stesso amore con cui sono amati da Lui. La pratica della giustizia e del diritto, a livello individuale e sociale, declina tale amore ed elaborata correttamente, è espansiva nel coinvolgere tutti i popoli.
Si apre un nuovo orizzonte nel quale consolidare la vita personale e sociale, secondo le esigenze e le attese stabilite dall’Alleanza. Si tratta di vivere e approfondire la libertà donata da Dio, quale timbro di autenticità dell’identità del popolo da Lui eletto.
Il nuovo insediamento – la terra promessa – darà loro “latte e miele” (metafora della pienezza di vita, dell’armonia e della pace per la pratica del diritto e della giustizia), asse portante della fedeltà all’Alleanza. Non ci sarà risultato soddisfacente senza l’attiva, intelligente e coraggiosa adesione a tale esigenza.
Gli Israeliti rimasero accampati a Gàlgala e celebrarono la Pasqua”, e Giosuè – successore di Mosè – annuncia che il Signore, oggi, ha “allontanato da voi l’infamia dell’Egitto”. La schiavitù è la condizione di vita del passato che rimane nel passato, sepolta nelle acque del mar Rosso una volta per sempre.
Il mondo in cui sono è la terra promessa, non esistono altri mondi o altra terra. Si tratta di fare di questa terra una nuova terra, e di questo mondo un nuovo mondo (Ap 21,1), non un’altra terra o un altro mondo. Subito dopo la Pasqua, il giorno dopo, “mangiarono i prodotti della terra, azzimi e frumento abbrustolito in quello stesso giorno. E a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato i prodotti della terra, la manna cessò”.
Non è più necessario che Dio intervenga con la manna per alimentare il popolo. Viene da pensare alla risposta di Gesù al diavolo nella prima tentazione nel deserto, quando questi gli chiese di trasformare le pietre in pane: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”.
Occorre che il popolo sintonizzi con l’Alleanza. Il Signore lo conduce verso la terra promessa, nella quale sta per entrare, e lo istruisce riguardo alla pratica dell’Alleanza, nel trasmettere mezzi e indicando il cammino affinché il pane arrivi su tutte le mense e si disponga il necessario per l’armonia piena, in una parola “la pace”, in modo che la vita personale e sociale del popolo faccia sì che la terra ritorni a essere quel giardino dell’Eden dal quale uscirono i progenitori a causa della loro insensatezza.
Il processo di liberazione è concluso: “Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto” e confermata l’Alleanza. Con esso il popolo ravviva la coscienza del suo singolare rapporto con il Dio liberatore e della missione di testimoniarlo alle altre nazioni. Inizia, così, la nuova partenza e il nuovo cammino da persone libere, chiamate a vivere sempre più la libertà per amare come il Dio liberatore li ama.
L’infamia è disprezzare il dono e tornare a forme d’ingiustizia, di dominio e di oppressione, di violenza e di morte, trasformando la terra promessa nel nuovo Egitto per i propri connazionali. Al riguardo, grande responsabilità è data al gruppo dirigente, chiamato a mediare la vita economica, sociale, politica e religiosa.
Questi – il gruppo dirigente – prevaricherà le sue funzioni con l’esercizio del potere lontano dal senso e finalità dell’Alleanza. A tal fine distorcerà i termini del patto – la Legge – ritenendosi il corretto interprete in nome di Dio. Ma in realtà ciò renderà necessario un nuovo e determinate intervento di Dio nella persona di Gesù.
La forza e la portata di tale intervento sono il tema della seconda lettura.

Seconda lettura (2Cor 5,17-21)

Fratelli, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove. Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio, infatti, che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio.

Paolo, dopo l’evento alla porta di Damasco e un periodo di riflessione, consolida e tematizza la conversione nel comprendere e assimilare il significato e la portata della vita, missione, morte e risurrezione di Gesù. Percepisce che tale evento coinvolge l’umanità intera. Ecco allora l’accorato appello ai membri della comunità: “Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio”.
Li esorta a porre attenzione e impegno nel comprendere e lasciarsi coinvolgere dall’iniziativa di Dio, in modo da correggere l’ingannevole rapporto con Lui, con sé stessi, e con tutte le altre nazioni.
Prosegue argomentando la profondità, il senso di essa, e specifica: “Dio ci ha riconciliato con sé mediante Cristo”. L’unto di Dio, il Messia, – Dio stesso fatto uomo – opera la riconciliazione dell’uomo con Dio. Sembra un gioco di parole ma è proprio così.
Dio, per mezzo dell’uomo Gesù – rappresentante dell’uomo, del popolo d’Israele e dell’umanità di ogni luogo e tempo davanti al Padre – carica su di sé la sfiducia, il radicale disprezzo della croce di tutti loro, per insegnare e proporre un nuovo rapporto con Dio che declina l’avvento del suo regno di misericordia e di bontà. In pratica si tratta di accogliere la nuova filosofia di vita, la nuova prassi per un mondo nuovo, per un’umanità rigenerata nella giustizia e nel diritto divino, compimento della nuova ed eterna Alleanza.
Il popolo e le autorità d’Israele aspettano dal Messia ben altro di ciò che Gesù stava impiantando. Tuttavia, Egli non si piega, né devia dal cammino di salvezza per tutti. Con la sua fedeltà alla causa del regno cancella il peccato, svuota la seduzione e il potere del male che costantemente lo attanaglia fino a pochi attimi prima della morte.
Da quel momento in poi Dio vede ogni uomo potenzialmente redento, rigenerato e trasformato per mezzo dello Spirito Santo. L’umanità di Gesù è la stessa di ogni persona di tutti i tempi. La nuova condizione – l’uomo nuovo – è offerta gratuitamente a chiunque se ne appropria per la fede, per la fiducia nella persona di Gesù, per l’amore che ha sorretto e motivato la sua fedeltà alla causa del regno.
L’effetto è specificato dall’apostolo: “Fratelli, se uno è in Cristo, (…)”. Il condizionale è d’obbligo perché la coscienza del reale coinvolgimento in Cristo dipende dalla fede di cui sopra. Essere in Cristo è percepirsi ” nuova creatura”; è prendere atto che “le cose vecchie sono passate; ecco ne sono nate di nuove” per la vittoria sul male e il peccato. In altre parole, la persona vede sé stessa e la creazione con gli stessi occhi di Dio. Tuttavia, non è esente dalla forza del male e dalla seduzione del potere del peccato, anche se, ormai, non sono più invincibili.
Era Dio, infatti, che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe”. Paolo argomenta, con un’affermazione sorprendente e piena di fascino, la ragione e il processo per il quale Dio non imputa le colpe all’umanità: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio”.
Dio lo fece peccato nel senso che Gesù, svuotandosi – mettendo fra parentesi la sua condizione divina (Fil 2,7) -, si pone sullo stesso livello dei peccatori, pur non essendolo. In questo modo rappresenta tutti i peccatori di tutti i tempi e, come tale, sperimenta la forza e il potere del peccato, carica sulle sue spalle gli effetti della loro opposizione e del rigetto radicale della croce.
L’amore magnanimo, intrinseco alla fedeltà alla causa del regno – il compiersi della salvezza per tutti – lo rende giusto agli occhi del Padre e, come rappresentante dell’umanità, redime ogni rappresentato che crede in Lui, accogliendo il dono della sua consegna per amore.
In Gesù Cristo si manifesta la giustizia di Dio, non degli uomini. Qui c’è tutta la differenza. Gli uomini non sono in condizione non solo di agire, ma nemmeno di pensare una giustizia del genere. La difficoltà è tale che, quantunque Dio doni gratuitamente il perdono – la giustizia -, alzano barriere e ostacoli insormontabili per aderire e fare proprio, con fiducia sincera, il dono.
Riguardo al comportamento e al dono Gesù, nelle persone si attiva lo slogan: “è la sua missione”, come per dire che è suo dovere e obbligo; “è morto sulla croce per salvarci”; “il suo sangue perdona tutti i miei peccati, anche se mi pento all’ultimo momento prima di morire”, ecc.
Costoro attivano il corto circuito in tutto ciò che Lui ha assunto, facendosi “peccato in nostro favore”. Il corto circuito spegne la luce e impedisce di comprendere e coinvolgersi nel dono. In questa condizione è impossibile sintonizzare con gli effetti della sua morte e risurrezione e, di conseguenza, assumere gioiosamente, con/e in Gesù Cristo la causa del regno.
Elemento importantissimo e tenace dell’amore di Dio è l’evento della riconciliazione, che perpetua nella chiesa tale ministero: “affidando a noi la parola della riconciliazione. In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta”.
Credere è, in primo termine, lasciarsi coinvolgere. Al riguardo Paolo esorta calorosamente i membri della comunità: “lasciatevi riconciliare con Dio”. In secondo termine, manifesta l’efficacia del dono che declina la capacità di perdonare, non per dimenticare l’offesa – cosa peraltro impossibile – ma di chiudere le ferite dell’offesa e con ciò chiudere il dolore e la volontà della rivincita.
E, infine, donare a Dio la propria vita, per cui “non sia fatta la mia, ma la tua volontà”; “venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà”, nella coscienza di amare il prossimo e la causa del regno con lo stesso suo amore nel quale si è coinvolti.
Sintonizzando con Dio la pratica, il dono, dello stesso amore con cui ci ama, emerge la vera comprensione dell’amore del Padre, realtà che non ha trovato l’adeguata comprensione e ricaduta nei due figli della parabola presentata nel vangelo odierno.

Vangelo (Lc 15,1-3.11-32)

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci, ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

È la nota parabola del figlio prodigo, o meglio, dei due figli. È la risposta di Gesù ai farisei che lo criticano perché “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”. Per i farisei è inconcepibile che l’osservante della Legge, e ancor più il Messia, mangi alla mensa con dei peccatori. Secondo la cultura del tempo, condividere la tavola è condividere la vita. Dal Messia si aspettano ben altro comportamento verso costoro, meritevoli solo di condanna e di esclusione dal regno di Dio.
Il figlio minore è al livello sociale e morale infimo – tale è il significato di “volersi saziare con le carrube di cui si nutrivano i porci” – e, messo alle strette dalla fame, si ravvede dal comportamento con il padre nella speranza di essere trattato come un servo e guadagnare il pane. E si propone di ritornare a casa affermando: “Padre ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”.
Il pentimento è motivato dalla fame e dall’opportunità di un pasto decente? O dallo sconforto e dalla delusione con sé stesso per essere caduto così in basso, per aver abbandonato la casa paterna? Nel nutrirsi del cibo dei porci emerge la sua indegnità e riscatta il sentimento filiale in rapporto al Padre? È la sincera manifestazione di disgusto con sé stesso per l’abbandono della casa e del Padre, “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te”?
Non c’è risposta esauriente. Non è detto il comportamento giornaliero dopo la sorprendente accoglienza e il perdono del padre che lo reintegra nella dignità di figlio. Non ha accesso al patrimonio paterno, perso irrimediabilmente, che spetta al fratello maggiore.
Non si conosce il comportamento con sé stesso, con il Padre e con gli altri, dopo l’accoglienza così inaspettata e sorprendente.
Sarà ritornato alla vita dissoluta di prima? Non sorprenderebbe; è la tentazione del popolo dopo la liberazione dall’Egitto. Se non accadde fu per i ripetuti interventi della misericordia del Signore.
È anche l’esperienza di molti genitori che. dopo aver accolto e perdonato il figlio, accade che egli ritorna alla vita che si pensava avesse lasciato per sempre. Ciò che acquista rilievo non è tanto la reazione e l’atteggiamento del figlio all’accoglienza del Padre, quanto il sorprendente e magnanimo amore di quest’ultimo, anche o nonostante la possibile ambiguità del figlio.
La reazione del figlio maggiore, nei riguardi del Padre, è quella di ogni uomo che agisce con il cosiddetto “buon senso”, ossia che valuta secondo la giustizia della retribuzione e del merito per il fedele compimento dei doveri inerenti al proprio stato. Come risposta il padre argomenta: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi”.
In primo luogo, il padre manifesta il grande amore verso il figlio – tale è il significato del termine con cui gli si rivolge – nonostante la resistenza all’invito di partecipare alla festa. Poi lo rassicura riguardo al patrimonio e all’eredità. Il fratello minore dilapidò la sua parte e non ha nessun diritto sul patrimonio del padre: ciò che ha perso è irrecuperabile, sarà un figlio salariato.
Particolarmente importante è la risposta del padre: “bisognava far festa e rallegrarsi”. Il Padre non sta giustificandosi e chiedendo comprensione per il suo atteggiamento, per l’affetto incancellabile verso un figlio, più ancora, quando si ravvede dei propri errori. Al contrario, egli interviene con fermezza e determinazione, come chi sa benissimo cosa fa e perché.
È come se dicesse: Non sono io che sbaglio, sei tu che non vuoi capire perché arroccato su te stesso, sui tuoi criteri. È necessario che tu capisca in cosa consiste amare veramente, quando è in gioco la possibilità del riscatto alla vita e alla dignità di chi, come tuo fratello, “era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.
È la risposta alla mormorazione dei farisei: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”. Dio è questo Padre, il cui amore riscatta alla vita la fragilità e l’ambiguità, il figlio minore, così come libera il fratello maggiore dalla presunzione e dall’arroganza che impedisce di gioire per il ritorno del proprio fratello che ha sbagliato.