Padre Tonino Falaguasta Nyabenda
La quarta Domenica di Quaresima si chiama: “Domenica in Laetare”. La parola “Laetare”, in latino, è la prima dell’antifona iniziale della Messa di oggi e vuol dire: “Rallegrati”. Allora in questa occasione si interrompeva il digiuno quaresimale e si faceva festa, perché si era giunti a metà della Quaresima e quindi la Pasqua ormai si avvicinava a grandi passi. Per questo oggi il sacerdote veste i paramenti di colore rosa.
Le letture di questa Domenica invitano anche tutte a fare festa. Il tema quindi della gioia è centrale.
La prima lettura (Giosuè 5, 9-12) ricorda la gioia del popolo di Israele, quando, arrivato finalmente nella Terra Promessa, potè mangiare i frutti locali e la manna cessò di cadere. La seconda lettura (2 Corinzi 5, 17-21) ci parla della riconciliazione. L’apostolo Paolo esorta i suoi amici di Corinto ad avere fiducia in Dio, perché Egli si manifesta in Gesù come un Dio che desidera donare la sua giustizia a tutti: Ebrei e Greci e cioè a tutta l’umanità, senza distinzioni.
Oggi poi abbiamo il testo del Vangelo di una grande bellezza. Si tratta del capitolo 15 di Luca, che è un po’ il cuore del suo Vangelo. In esso troviamo la celeberrima parabola di un padre che aveva due figli. Tradizionalmente le abbiamo dato il titolo di “Parabola del figliol prodigo”. Ma non è esatto. E’ meglio parlare di: parabola della misericordia, parabola del padre misericordioso, parabola delle contraddizioni, parabola dell’impossibile che diventa possibile, parabola dell’amore sconfinato, ecc. Il grande pittore olandese Rembrandt (1696-1669) ha raffigurato il nocciolo di questa parabola presentando un padre, anziano, che accoglie il figliol prodigo tornato a casa e che lo stringe con le sue mani: una maschile e una femminile. Per indicare appunto che il padre (e cioè Dio) dona il suo perdono con le caratteristiche umane dei genitori: padre e madre! E cioè con un amore paterno e materno! Dante Alighieri, basandosi soprattutto su questa parabola, definiva l’evangelista Luca come: “Scriba mansuetudinis Christi” (e cioè lo scrittore che presenta nel suo Vangelo la misericordia di Gesù). Rembrandt e Dante sono due geni, nel loro genere; ma tutt’e due hanno capito l’essenziale del messaggio lucano. Che vale anche per noi oggi. Infatti il protagonista di questa parabola non è il figlio minore, neppure il maggiore. Il figlio più giovane è certamente il figliol prodigo; ma anche il più anziano non è certo un giusto. Tutt’e due hanno un falso concetto del padre. E vediamo come. Il figlio più giovane chiede al padre quello che gli spetta. Ma poteva pretendere la sua parte solo alla morte del padre. Per questo il testo greco parla di “ton bion” (Luca 15, 12 = la vita) e cioè il figlio vuole “la vita” del padre. Vorrebbe pertanto la morte del padre. E se ne va in un paese lontano, e cioè in un paese pagano, dove l’Alleanza Mosaica non vige e quindi senza speranza di salvezza. E lontano dilapida tutto quello che ha portato via. Ma non dimentichiamo che si è portato via non le cose, ma la vita del padre. Quando non c’è più il padre, si va verso un padrone. E costui appunto lo manda dai porci, però non a fare il guardiano, ma piuttosto a vivere in comunione con questi animali immondi. E’ il massimo della degradazione. Per gli Ebrei questo significa non essere più abilitati al culto e vivere in una situazione di impurità totale.
Allora il figlio più giovane pensa a casa sua, dove viveva in un certo benessere. Non è, da parte sua, una conversione vera e propria, ma una ricerca di ciò che egoisticamente lo farebbe vivere. Non c’è quindi amore del padre. Lo vede ancora come un padrone. Per questo chiede di essere un salariato. Questo figlio, che non cambia il suo cuore, è salvato dal padre che si getta su di lui, accogliendolo e manifestando viscere materne di amore misericordioso. Il padre “gli corse incontro” (Luca 15, 20), dice il testo. In oriente a quel tempo gli adulti non correvano mai; sarebbe stato come un perdere di dignità.
E allora esplode la gioia con tre gesti: anello, veste e calzari. Lo schiavo non porta sandali, va scalzo. Il figlio quindi sperimenta di nuovo l’amore del padre. Che fa preparare il vitello ingrassato con grano, per fare festa e banchettare. Gli animali venivano ingrassati dando loro non solo foraggio, ma addirittura grano, che è il cibo riservato all’uomo. Ma qui, secondo molti commentatori antichi, si fa riferimento all’Eucaristia, fatta con pane azzimo da farina di frumento. E l’Eucaristia è il pane del Regno di Dio, nel quale noi viviamo per l’eternità. Ed è la vita di Gesù che noi mangiamo, che quindi diventa la nostra vita.
Questo vale anche per il figliol prodigo che è stato riportato alla vita dal padre pieno di misericordia. Lo ama infatti con amore di madre. In lui (e cioè in Dio) non c’è spazio per l’odio. La sua commozione è l’aspetto materno della sua paternità (chiaramente anche per Dio).
Ora vediamo il comportamento del figlio maggiore. Noi di solito pensiamo che sia un vero figlio, rispettoso e obbediente. Non è così. Anche per lui il padre è un padrone. Tratta suo fratello di “figlio tuo” (Luca 15, 30). Certo è figlio di suo padre, ma non è suo fratello. E’ quindi peggiore del figlio andato lontano. Non è contento del ritorno del “prodigo”, perché sperava di godere di tutti i beni del padre, che tra l’altro accusa di grettezza: “Neppure un capretto” (Luca 15, 29). Il padre (cioè il Padre, Dio) non ricompensa secondo i meriti. C’è infatti ben più di un capretto; c’è il vitello ingrassato con grano. Il capretto serviva per far memoria della liberazione dalla schiavitù d’Egitto, in occasione della Pasqua. Ora i due figli sono chiamati a far festa con l’immolazione del vitello di grano, sacrificato per noi (con riferimento al Cristo immolato per la nostra salvezza!). Il peccato del fratello maggiore, che si credeva giusto, è quello di non accettare il prodigo come figlio del padre. Rifiuta quindi il padre, perché non riconosce l’altro come fratello. Per il padre invece il prodigo è sempre rimasto figlio ed è giusto quindi far festa “perché il fratello tuo, costui, era morto e visse, e, perduto, fu ritrovato” (Luca 15, 32). Non sappiamo se il fratello maggiore sia entrato nella casa a far festa. Luca lascia in sospeso questa finale. Ma noi sappiamo che noi siamo tutti invitati per entrare e far festa, perché siamo tutti figli di Dio, nostro Padre. E la festa consiste in questo: conoscere il Padre come l’unico vero Dio e il suo Figlio, Gesù, morto e risorto per noi (Giovanni 17, 3), come nostro fratello. Chi legge, anche oggi, questa parabola, corre il pericolo di vivere nella tristezza, perché si riconosce peccatore, come il più giovane, e gretto e attaccato ai beni come il maggiore. Invece non si tratta dei figli, ma del Padre. Il Padre (cioè Dio) ha un cuore che fa sempre festa, perché il suo Figlio primogenito (il Cristo) era perduto (cioè crocifisso e ucciso) per noi, ma poi è ritornato (cioè è risorto). Ora quindi viviamo nella festa. L’Eucaristia, per noi oggi, è sempre questa festa.
San Daniele Comboni (1831-1881) ha lavorato tutta la sua vita per assicurare ai popoli dell’Africa Centrale la partecipazione alla festa della misericordia e della bontà di Dio. In una relazione alla Società di Colonia (che lo aiutava dal punto di vista economico) parlava della sua opera: “L’opera della rigenerazione della Nigrizia (= popoli dell’Africa Centrale) è urgentissima, difficilissima e vasta quanto mai. Per attuarla nelle sue grandi linee ci vorrebbe la partecipazione dei Cattolici di tutto il Mondo, per poter donare la fede a questi poveri Neri, che vivono ancora nella notte del paganesimo e far sorgere sopra di loro la luce vivificatrice della fede in Gesù Cristo”.
Grazie a questa fede, e cioè grazie all’annuncio del Vangelo, anche l’Africa Centrale può conoscere un’era di pace e di sviluppo umano e cristiano.
E quindi fare festa!
P. Tonino Falaguasta Nyabenda