Padre Vincenzo Percassi
In prossimità della sua passione Gesù conduce tre dei suoi discepoli sul monte per mostrare loro qualcosa in più del mistero della sua persona. Questa rivelazione introduce una categoria nuova nell’esperienza umana: quella cioè della vita eterna, non come qualcosa che ci aspetta ma qualcosa che ci abita, come la luce della trasfigurazione abitava l’umanità di Gesù. I discepoli lo vedono per un istante oltre i confini del tempo perché parla con Mose ed Elia ed oltre i confini dello spazio poiché non vi sono tende da costruire per abitarvi. Poi, nell’oscurità della nube che adombra i presenti e che rappresenta la nostra condizione quotidiana di persone che camminano nella fede e non nella visione gloriosa, tutto viene riassorbito dalla sua umanità. Alla fine, non resta che Gesù e Gesù solo. Quel Gesù che mangiava e dormiva e si stancava come tutti. Questa vita eterna che abita la persona di Gesù resta quindi nascosta dietro la sua umanità ma non resta inefficace. Il volto trasfigurato di Gesù e la luce del corpo che traspare dai suoi abiti esprime il fatto che questa gloria nascosta nella sua umanità ha il potere – direbbe San Paolo – di sottomettere a sé tutte le cose; quindi, anche ciò che noi sperimentiamo come insuperabile: la morte certo, ma in fondo anche tutto ciò che riconosciamo come freno, catena, fallimento, nella nostra personalità interiore. Spesso facciamo fatica ad amare ed accettare noi stessi e gli altri perché in fondo ci percepiamo in un processo di decadimento e non di trasfigurazione. Nonostante tutti i nostri sforzi per realizzare qualcosa nella vita e in noi stessi ci percepiremo sempre inadeguati perché non capiamo che il nostro valore ed il nostro destino non sono nelle nostre realizzazioni visibili ma in un di più che ci raggiunge come dono. Paradossalmente è proprio quando siamo delusi dalla vita e da noi stessi che cominciamo a cercare qualcosa d’altro. Così appunto prega il salmista nella sua miseria prega: il mio cuore ripete il tuo invito: “cercate il mio volto”. Ed io Signore cerco il tuo volto. Chi può cercare un volto se non qualcuno che in esso può riconoscersi? Che può trovare in quel volto una corrispondenza?
Ci aiuta a capirlo anche l’esperienza di Abramo che verso la fine della sua vita prega sconsolato: “Signore mio che mi darai”. Dio lo tira fuori dalla sua tenda e gli fa la promessa di una discendenza e di una terra, cioè di una vita che dura nel tempo e nello spazio. La promessa può sembrare astratta ma il punto è che non c’è niente di meno della vita eterna che può soddisfare il nostro cuore. Noi al massimo possiamo costruire tende come Pietro sul monte Tabor, come Abramo nel suo pellegrinaggio. Dio ci tira fuori dalle nostre tende e dai nostri soffitti per darci un cielo non solo da guardare ma da abitare. Credere a questa promessa significa accogliere quella luce che traspariva dal volto di Gesù per lasciare che essa trasfiguri il nostro volto, cioè cambi la nostra identità profonda, interiore, restituendoci la somiglianza con Dio che ci è stata promessa fin dalla creazione. Noi non sappiamo quanto siamo belli, preziosi. Questo rimettersi in cammino, credere nella nostra possibilità nascosta di diventare migliori, aprirsi alla possibilità di superare tutto ciò che in fondo sappiamo ci abbruttisce, ci invecchia dentro, ci spinge al vuoto ed alla delusione, non è una cosa banale. È un vero esodo, un passaggio faticoso e doloroso da una situazione di schiavitù ad una di libertà. La voce che dalla nube invita a dare ascolto a Gesù, a fidarsi di lui, ci invita ad andare oltre le nostre paure. Ci rassicura che il cammino è aperto. Il rischio non è tanto quello di non riuscire a superare gli ostacoli. Il rischio è che smettiamo di credere all’assoluta necessita di compiere questo esodo. Se Paolo deve ripeterlo e deve ripeterlo con le lacrime agli occhi significa che quotidianamente rischiamo di rientrare nella nostra tenda e smettere di guardare le stelle e significa che questo ritorno è pericolosissimo: la nostra corruzione non comincia nella tomba, bensì quando smettiamo di credere alla vita eterna. Allora cominciamo a vivere nell’orizzonte ristretto del nostro io, dei nostri calcoli ed interessi, ci accontentiamo di soddisfazioni temporanee, del nostro comodo e finiamo – dice Paolo – per fare del nostro ventre il nostro idolo. Di vivere sottomessi alla nostra miseria, alla pigrizia, all’abitudine, al continuo ritorno su sé stessi. La quaresima è la grazia di rimettersi in una condizione di esodo. La nostra cittadinanza è nei cieli dice Paolo. Da un lato ciò implica che su questa terra possiamo amare “anche al buio” cioè senza troppi calcoli, sicurezze e interessi terreni. Dall’altro ciò implica che la prospettiva del nostro amore assume una dimensione universale. Chi accoglie con gratitudine il dono di una cittadinanza nei cieli non nega a nessuno cittadinanza nel proprio cuore e nella propria tenda e giorno per giorno costruisce “quell’amicizia sociale” per la quale “tutti” sono davvero fratelli, tanti e incalcolabili come le stelle del cielo.