Padre Luigi Consonni

Commento alle letture: IV DOMENICA DI AVVENTO -C-

(19/12/2021)

 Prima Lettura (Mi 5,1-4)

Così dice il Signore:
«E tu, Betlemme di Èfrata,
così piccola per essere fra i villaggi di Giuda,
da te uscirà per me
colui che deve essere il dominatore in Israele;
le sue origini sono dall’antichità,
dai giorni più remoti.
Perciò Dio li metterà in potere altrui,
fino a quando partorirà colei che deve partorire;
e il resto dei tuoi fratelli ritornerà ai figli d’Israele.
Egli si leverà e pascerà con la forza del Signore,
con la maestà del nome del Signore, suo Dio.
Abiteranno sicuri, perché egli allora sarà grande
fino agli estremi confini della terra.
Egli stesso sarà la pace!».

E tu Betlemme … così piccola”. Di fatto, comparata con le altre città di Giuda, non ha importanza alcuna che meriti rilievo culturale, sociale o religioso. In casi come questi è comune il prevalere dell’indifferenza e del disinteresse; e se questo è il sentimento per luoghi e villaggi, cosa sarà riguardo ai poveri, agli esclusi che vivono in essi?
Diversa è la considerazione e lo sguardo di Dio, libero dal preconcetto, dal disprezzo e dalla sfiducia. Egli determina che “da te uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele”. Un contrasto sorprendente della libera e sovrana volontà di Dio che innalza gli umili.
Il contrasto è ancora maggiore per le caratteristiche del personaggio: “le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti”. Betlemme era la città del re Davide, uno dei personaggi più illustri della storia d’Israele; quindi, non è escluso che le parole si riferiscano a lui. Ai tempi della nascita di Gesù, il Messia era atteso come discendente dalla stirpe di Davide, per ricondurre il regno agli splendori di allora.
Il riferimento all’origine – “dai giorni più remoti” – fa intravedere come un disegno, un progetto, in virtù del quale “il dominatore d’Israele (…) si leverà e pascerà con la forza del Signore, con la maestà del Signore suo Dio”, dopo il tempo in cui Dio “li metterà in potere altrui”, quelli che calpestarono l’Alleanza, la giustizia e il diritto, con effetti drammatici e tragici. Agire con la “forza del Signore” allude alle difficoltà nello svolgimento della missione, così come il termine “pascere” fa intuire che essa arriverà a buon fine.
Il dominatore in Israele” apparirà “quando partorirà colei che deve partorire”: pertanto è assicurata la sua venuta ma non si sa quando, e nei momenti difficili si attiverà l’attesa.
La situazione attuale dell’umanità e la grande sofferenza, manifesta l’abbandono dell’alleanza con il Signore nei termini del corretto comportamento etico, nel consegnare la politica e la vita sociale al dominio dell’usura e della speculazione, senza la dovuta attenzione alla dignità della gente. Il lucro ha fatto sì che i detentori del potere trattino le persone come delle pedine di un gioco di guadagni, di potere e dominio.
Il brano attesta che il resto di Giuda tornerà a ricomporre e ricostituire l’insieme del popolo eletto: “… il resto dei tuoi fratelli ritornerà ai figli d’Israele”. A tal fine “Il dominatore d’Israele (…) pascerà con la forza del Signore, con la maestà del nome del Signore, suo Dio”. La maestà del nome del Signore – realtà che manifesta la sua essenza e il senso della sua esistenza – consiste nella pratica del diritto e della giustizia, in modo che sia instaurato il regno di pace, di armonia, di vita piena e abbondante per tutti. Non si tratta di dominio nel senso comune del termine, ovvero esercitato mediante l’oppressione, l’imposizione, la privazione della libertà, ma sarà costituito su fondamenta diametralmente opposte.
Di conseguenza, “Abiteranno sicuri, perché egli allora sarà grande fino agli estremi confini della terra”. È la promessa del futuro sereno, fautore di speranza, di coraggio e determinazione nelle difficoltà che man mano sorgeranno. La promessa motiva la tenacia di non arrendersi alla forza e al potere del male che, sebbene sconfitto, non desiste dall’operare.
L’efficacia della sua opera sarà riconosciuta “fino agli estremi confini della terra”. Sarà realizzata la volontà di Dio, il sogno di un’umanità fraterna, solidale e responsabile nell’esercizio del bene a favore delle diversità di culture, etnie e popoli, nell’unica pratica dell’amore, espressione del culto e della lode a Lui dovuta.
Riconoscere la propria identità, riscattata e donata dal nato in Betlemme, è percepire la trasformazione dell’essere nell’accogliere la causa del Regno di Dio, motivo della sua venuta.
Il ritorno è un cammino che non finisce mai, fatto di dedicazione, pazienza e conversione permanente nel rompere schemi di pensiero e atteggiamenti che non rispondono all’esigenza dell’amore.
La crescita umana e spirituale che ne deriva apre nuovi orizzonti di vita e sostiene la pace in mezzo alle tribolazioni, perché coltiva e approfondisce la comunione con il Signore: “Egli stesso sarà la pace!”.
Questo bambino sorprenderà per molti aspetti, come testimonia la seconda lettura.

 

Seconda lettura (Eb 10,5-10)

Fratelli, entrando nel mondo, Cristo dice:
«Tu non hai voluto né sacrificio né offerta,
un corpo invece mi hai preparato.
Non hai gradito
né olocausti né sacrifici per il peccato.
Allora ho detto: “Ecco, io vengo
poiché di me sta scritto nel rotolo del libro –
per fare, o Dio, la tua volontà”».
Dopo aver detto: «Tu non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato», cose che vengono offerte secondo la Legge, soggiunge: «Ecco, io vengo per fare la tua volontà». Così egli abolisce il primo sacrificio per costituire quello nuovo. Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre.

Il testo attribuisce a Cristo le parole dirette al Padre: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo mi hai preparato”. L’azione di Dio passa attraverso il corpo, la realtà umana di Gesù. Scrive Paolo ai Colossesi: “è in lui che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9).
Nell’Antico Testamento si officiavano riti per il perdono dei peccati, ma le parole di Cristo pongono fine a tali celebrazioni prescritte dalla Legge: “Tu non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato”.
Impressionante è che i sacrifici, le offerte, gli olocausti – stabiliti nella Legge di Dio, espressione della sua volontà e del suo amore – sono come declassati a uso strumentale dai responsabili del tempio e, pertanto, svuotati del loro valore e senso, ragion per cui non realizzano l’adeguata conversione, rinnovamento e rigenerazione delle persone e della società, declinando la pratica della giustizia e del diritto.
Cosicché le persone responsabili del culto non sono in condizione di ripristinare valori e comportamenti con sé stesse, con gli altri e con l’intera società, che rendano visibile la verità della professione di fede fondamentale: Dio regna, Egli è il nostro Signore, a Lui la lode per sempre!
Il Padre coinvolge il Figlio nello stabilire un nuovo intervento: “Tu non hai voluto né sacrifico né offerta, un corpo invece mi hai preparato (…) Allora ho detto: Ecco io vengo (…) per fare, o Dio, la tua volontà”. L’intervento sostituisce il precedente “Così egli abolisce il primo sacrificio per costituire quello nuovo” a favore dell’umanità e di ogni persona. La volontà del Padre, che il Figlio compie per mezzo del suo corpo, è finalizzata secondo quanto afferma la professione di fede: “per noi uomini, per la nostra salvezza discese dal cielo”.
Il corpo è il luogo della salvezza; non è spregevole o di ordine inferiore rispetto all’anima, come erroneamente una certa educazione afferma ma, al contrario, senza il corpo non c’è salvezza, per mancanza della “materia prima”. La salvezza riguarda tutta la persona – anima e corpo – per l’azione dello Spirito, che dà vita e dinamica all’una e all’altro, ossia alla persona nella sua totalità.
Per la volontà di Dio il Figlio offre sé stesso per amore all’umanità, quale forza e azione dello Spirito Santo per la causa del Regno, l’avvento della sua sovranità e del suo amore. Cosicché la Trinità assume, nel corpo di Gesù, quello di ogni persona, di ogni tempo e luogo.
Per tale evento Gesù si pone, ed è posto, come mediatore fra Dio e l’umanità, per la salvezza e l’avvento del regno di Dio nel presente, anticipazione dell’evento finale con il “ritorno” del Risorto, circostanza nella quale Dio si rivelerà “tutto in tutti” (1Cor 15,28).
La mediazione fa sì che “siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo”. Il corpo di Gesù carica su di sé il dramma dell’incredulità – sfiducia, disprezzo e rigetto – degli uomini riguardo all’azione di Dio a loro favore.
Nello svolgimento della missione che culmina sulla croce, Gesù carica su di sé, davanti al Padre, l’ira di Dio per l’incredulità del popolo e delle autorità. L’evento della croce conferma loro la sua condizione di maledetto da Dio, perché ritenuto peccatore per aver trasgredito la Legge e, pertanto, meritevole della morte infame di croce.
Gesù soffrì, simultaneamente, un doppio rifiuto: quello degli uomini e quello di Dio. Tuttavia non si piegò agli uomini, fissati nell’attesa di un Messia ben diverso da quello che Egli è. Né si tirò indietro dal sacrificio e, quale rappresentante dell’uomo e dell’umanità peccatrice, carica su di sé la drammatica solitudine: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46), mantenendo la fede nella promessa del Padre, nel fare la verità con la sua azione e con l’insegnamento, unico cammino per redimere gli uomini e riscattarli davanti a Dio.
Ebbene, in tal modo santificò sé stesso e divenne Gesù Cristo, l’unto nel suo corpo redento, trasfigurato, pieno di vita eterna con la risurrezione. Il corpo, consegnato per amore, è dallo stesso amore risorto e reso partecipe della gloria di Dio.
L’evento, determinante e centrale per la salvezza, è realizzato “una volta per sempre”. La celebrazione della memoria di esso, specialmente nell’Eucaristia, attualizza la salvezza e trasmette nel credente la santificazione in Gesù Cristo per l’azione dello Spirito.
Il credente, percependosi nuovo soggetto amato con amore così grande e immeritato, è chiamato a declinare e trasmettere lo stesso amore nel servizio ai fratelli e, allo stesso tempo, offrire sé stesso, la propria azione e il proprio corpo come culto e sacrifico spirituale: “Vi esorto fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12,1).
È allora che il credente consolida la grandezza del dono e l’identità con Cristo, rinnova il rapporto con sé stesso, con gli altri e con il creato e, infine, percepisce la realtà del regno di Dio già presente in lui, anticipo della pienezza futura alla fine dei tempi.
Di conseguenza una realtà sterile si trasforma in vita piena. È quello che mostra il vangelo.

 

Vangelo (Lc 1,39-45) adattamento dal commento di Alberto Maggi

In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.
Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».

Con poche, sapienti pennellate Luca è l’evangelista che più degli altri ci presenta la figura di Maria), ci racconta una visita della madre di Gesù.
Innanzitutto il contesto: C’era stata l’annunciazione e l’angelo Gabriele aveva chiesto a Maria di collaborare al disegno di Dio diventando la madre del figlio. Ebbene, Maria fa qualcosa di assolutamente inconcepibile nella cultura dell’epoca; infatti, a quel tempo, la donna non era autorizzata a prendere nessuna decisione senza aver prima consultato e ottenuto l’approvazione del padre, del marito o del figlio.
Ebbene, Maria non si rivolge ad alcun uomo, decide da sola. È qualcosa di inconcepibile per la cultura dell’epoca ma ciò che l’evangelista scrive è ancora più assurdo.
In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda”. L’angelo le aveva detto che la sua parente Elisabetta attendeva un bambino e lei, una volta che le era stato annunziato che Dio avrebbe preso forma in lei, non si mette sotto una campana di vetro per essere riverita, per accogliere la venerazione o la devozione degli altri, ma si pone immediatamente al servizio.
L’evangelista vuol far comprendere che ogni autentica esperienza dello Spirito si traduce in servizio. Ma un servizio particolare, perché qui l’evangelista dice che Maria si alzò, non che si unì ad una carovana. Si alzò e andò verso una città di Giuda.
Dalla Galilea, per andare in Giudea, c’erano due strade: una più lunga ma più sicura, quella della vallata del Giordano, l’altra più breve, ma pericolosa perché passava attraverso la montagna della Samaria. E noi sappiamo che tra ebrei e samaritani c’era un’inimicizia profonda. Era rischioso passare attraverso la zona montagnosa, si correva il rischio di rimetterci la vita. Ebbene, per Maria il desiderio di servire, il desiderio di comunicare vita, è più importante della propria incolumità. Quindi, in fretta, si mette in viaggio verso questa città.
Entrata nella casa di Zaccaria, …”; e qui ci aspetteremmo “salutò il padrone di casa”. Nulla di tutto questo: “… salutò Elisabetta”, la moglie. È inconcepibile, è il padrone di casa che va salutato per primo. Per Maria no, ella saluta Elisabetta. È l’incontro tra due donne per le quali la gravidanza era qualcosa di impossibile: per una perché era sterile, per l’altra perché era vergine.
Quindi Maria entra e saluta come l’angelo aveva fatto con lei. “Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria (non si tratta qui di una formalità, non si limita a desiderare il bene ma a procurarlo) il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo”; e l’evangelista anticipa qui quella che però, poi, sarà l’azione di Gesù, ossia battezzare nello Spirito Santo, immergere ogni persona nella pienezza dell’amore di Dio.
Ed esclamò a gran voce (nella casa del sacerdote incredulo, e che per questo motivo è muto – è la donna colei che svolge il ruolo del profeta -) Benedetta tu fra le donne”. Questo brano contiene una dozzina di citazioni bibliche (questa parte è tratta dal libro dei Giudici, dove si tratta della benedizione di Giaele, una delle grandi donne di Israele).
(…) E benedetto il frutto del tuo grembo!” Questo è clamoroso! Una sola volta nell’antico testamento si parla del frutto del grembo, ma si riferisce ad un uomo, all’uomo che è fedele al Signore. Questa volta l’evangelista l’attribuisce a Maria, una donna.
E si chiede: “A che cosa devo che la madre del mio Signore – cioè del Messia – venga da me?” Qui l’evangelista scrive questa narrazione tenendo presente un grande episodio della storia di Israele, quando l’arca che conteneva le tavole dell’alleanza fece sosta in casa di una persona. E anche questa persona si meravigliò (il tale è Arauna) dicendo: “Perché il re mio Signore viene dal suo servo?”
Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia” (letteralmente di esultanza), “nel mio grembo”.
Ed ecco la prima beatitudine del vangelo: “E beata colei che ha creduto …”. Se Elisabetta proclama beata Maria perché ha creduto, c’è anche un velato rimprovero al marito Zaccaria che, invece, non ha creduto. “E beata colei che ha creduto nell’adempimento”, cioè nel compimento di ciò che il Signore le ha detto”: la vergine Maria ha creduto al disegno di Dio e viene proclamata “beata”.
È la prima beatitudine con la quale si apre il vangelo; l’ultima la troveremo nel vangelo di Giovanni: “Beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno”.
In queste due beatitudini si racchiude l’esistenza di Maria. Qual è il significato di questa beatitudine? Maria ha compreso – e se la chiesa ce la propone come modello di credente questo è valido anche per noi – di essere all’interno di un unico, straordinario progetto d’amore. E che tutto quello che incontrerà nella vita, tutto ciò che capiterà nella vita, sia nel bene che nel male, serve soltanto per realizzare questo progetto.
Ecco, questa è la Maria che la chiesa ci propone come modello dei credenti.