Padre Vincenzo Percassi

 

Il Vangelo di oggi mettendo a confronto il rimprovero fatto agli scribi e ai farisei e la lode fatta alla vedova che porta nel tempio la sua piccola offerta evidenzia il contrasto tra due diverse categorie di importanza. La prima, basata su una sapienza umana, è focalizzata interamente sull’esteriorità: essere primi, venir riconosciuti ed apprezzati davanti agli altri, apparire, dimostrare qualcosa. Questa categoria di importanza impedisce la relazione vera con Dio perché, essendo proiettata su ciò che è esteriore, riduce la preghiera ad una formalità e lascia il cuore impermeabile alla grazia che dovrebbe invece trasformarlo: fanno lunghe preghiere per essere visti – dice Gesù – e non vedono come il loro cuore resta vuoto e insaziabile. Uno che divora le case delle vedove non può essere una persona contenta della vita e sazia interiormente. Una vita basata sull’esteriorità non può che essere una vita “teatrale” che stanca e delude innanzitutto chi la vive.

A questo criterio di importanza basato sull’esteriorità Gesù oppone quello opposto basato sull’interiorità e propone ad esempio la figura di una vedova che nella sua povertà agisce stranamente come una “persona sazia”. Non esita a gettare nel tesoro del tempio tutto ciò che aveva per vivere e non si vergogna della sua povertà perché è libera dalla preoccupazione del giudizio altrui. Questa sazietà e questa libertà sono il risultato di chi ha fatto questo passaggio da una vita teatrale ad una vita vera. Questo passaggio non è facile perché implica l’accettazione di tutta la realtà e quindi anche della sua precarietà. Non tutti ci troviamo nelle situazioni estreme della vedova del Vangelo e di quella di Zarepta ma tutti viviamo situazioni di precarietà. Essa può essere materiale, ma anche affettiva, esistenziale, spirituale. Ora nella precarietà puoi cominciare a lamentarti, a scoraggiarti e a mormorare oppure puoi cercare di relazionarti a Dio in maniera più vera, a partire cioè non dal tuo superfluo che ti lascia nelle tue sicurezze umane, ma a partire proprio dal tuo stesso vivere che sembra poco e povero. Allora ti rendi conto che quanto stai davanti a Dio con la tua povertà, con la tua precarietà, con le tue impossibilita non sei disprezzato da Dio. Anzi Egli ama di te quello che amava della vedova del Vangelo: la fiducia, l’abbandono, il saperti appoggiare a Lui più che a tutto il resto. Ciò è evidente anche nella vedova di Zarepta. Non vi è in lei l’ombra di lamento o di ripiegamento su sé stessa. Si lascia interrompere dal suo lavoro quando il profeta le chiede acqua. Interrogata, poi, una seconda volta su ciò che aveva da offrire, risponde con un realismo disarmante: cucinerò il poco che basta per un giorno ancora e poi io e mio figlio moriremo. Non si tratta di rassegnazione o disperazione ma di abbandono confidente e di accettazione: pur sapendo di morire infatti la donna non rinuncia a cuocere il poco che ha. Vive solo nell’oggi, del pane quotidiano, ma non rinuncia a vivere la sua giornata fino all’ultimo istante. Par accettare ed accogliere la vita così come essa è, anche nella sua tragicità e nella sua precarietà, senza lamentele e scoraggiamenti, devi aver l’intuizione che puoi morire tranquillo perché oltre ciò che è visibile vi è una realtà ancor più vera di quella che hai conosciuto e soprattutto vi è un grande amore. La fede, fondamentalmente, ti apre lo sguardo sulla vita eterna. Questo non toglie valore al quotidiano ma al contrario lo eternizza.

La vedova di Zarepta fa l’esperienza che la sua fede non fa aumentare l’olio e la farina che restano scarse. Essa non cambia magicamente le circostanze della vita. La sua fede la porta a guardare al poco che ha e al poco che può fare come una realtà impregnata di vita eterna e quindi fare esperienza che questa realtà non si esaurisce mai. Che la vita è inesauribile e in fondo va anche oltre la morte. Questa fede trova la sua piena espressione con Cristo. Gesù, dice la lettera agli Ebrei, non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo che è solo un’immagine, ma nel cielo davanti a Dio. In altre parole, morendo per noi Gesù non è scomparso nel nulla ma è entrato in una realtà invisibile ma più reale e sostanziale di quella visibile. Egli cioè ha creato un ponte tra la nostra realtà visibile ma vuota con quella invisibile che è la vita di Dio che riempie tutte le cose. Dobbiamo abituarci a guardare alla realtà non come una cosa che si riduce alle apparenze ma come impregnata di resurrezione, di vita divina e quindi per chi crede piena di risorse inesauribili. Gesù, poi, continua la lettera agli Ebrei, ha offerto se stesso una volta per tutte.

Se Dio mettesse nelle nostre mani l’universo intero egli darebbe ancora del suo superfluo. Ma in Gesù Cristo Dio non ci ha dato il superfluo ma il suo proprio vivere. Così facendo non si è limitato a perdonare il peccato ma lo ha annullato. Più accogliamo in noi la vita di Dio più togliamo forza al peccato. Noi pecchiamo e pecchiamo ripetutamente perché torniamo a cercare la sazietà da cose che sembrano sostanziali ma che deludono. Quando crediamo seriamente che la precarietà della nostra vita è impregnata di resurrezione e di vita eterna cessiamo di aggrapparci alle apparenze e cominciamo a cercare le cose che ci nutrono interiormente e che non deludono perché sono inesauribili e sono “reali” nel senso pieno del termine, soprattutto l’amore.