Padre Luigi Consonni
Commento alle letture: XXVIII DOMENICA DEL T.O. -B- (10/10/2021)
Prima lettura (Sap 7,7-11)
Pregai e mi fu elargita la prudenza,
implorai e venne in me lo spirito di sapienza.
La preferii a scettri e a troni,
stimai un nulla la ricchezza al suo confronto,
non la paragonai neppure a una gemma inestimabile,
perché tutto l’oro al suo confronto è come un po’ di sabbia
e come fango sarà valutato di fronte a lei l’argento.
L’ho amata più della salute e della bellezza,
ho preferito avere lei piuttosto che la luce,
perché lo splendore che viene da lei non tramonta.
Insieme a lei mi sono venuti tutti i beni;
nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile.
Gli studiosi affermano che il testo è una rilettura della preghiera di Salomone (1Re 3,6-13; Sap 9,1-11): “Pregai e mi fu elargita la prudenza, implorai e venne in me lo spirito di sapienza”. Il re, cosciente che la prudenza e la sapienza non gli appartengono, con umiltà accetta la sua dimessa condizione nei confronti della maestà di Dio e chiede al Signore questi doni.
L’umiltà è il modo corretto di porsi alla presenza di Dio; essa fa della persona un soggetto recettivo del dono che Egli dispensa a ogni essere umano, sincero e autentico con sé stesso. Può sorprendere che il re chieda tali doni giacché, in virtù della sua condizione regale, dovrebbe già possederli ed esercitarli in modo abituale e autorevole.
Ma non è così. Al di là della singolare condizione personale e sociale, partecipa della comune condizione di ogni essere umano. La meta e le condizioni per raggiungere e ottenere risultati soddisfacenti nella missione sono comuni a tutti; inoltre, il dono non è un possesso ma proviene dal donante; ed è efficace alle condizioni che lo stesso determina. Il possesso, al contrario, è pienamente gestito dal detentore sotto ogni aspetto.
“L’ho amata più della salute e della bellezza, ho preferito avere lei piuttosto che la luce, perché lo splendore che viene da lei non tramonta”. Il re è affascinato dalla sapienza, con il cuore pieno di vita e di soddisfazione. Essa l’ha coinvolto in maniera così gratificante da costituire il suo patrimonio profondo e il dono preferito su tutti gli altri.
“La preferii a scettri e troni (…) non la paragonai a una gemma inestimabile neppure, perché (…)”. Non c’è un bene maggiore. In genere, per governare, il re ha bisogno di prestigio e di ricchezza; affermare una preferenza per la Sapienza è assolutamente sconcertante, innovativo, e trasmette l’idea di quanto grande sia il dono della Sapienza.
Essa fu chiesta dal re Salomone in Gabaon quando, per la giovane età e per lo spavento di dover governare, Dio gli apparve in sogno promettendo ciò che avrebbe richiesto. Era normale, per quei tempi, chiedere potere, vittoria sui nemici e denaro. Salomone, invece, chiede: “Signore dammi un cuore che sappia ascoltare” (1Re 3,9), per saper discernere correttamente il bene dal male.
Dio si complimenta con Salomone per la corretta richiesta, e non solo gli concede la sapienza per la quale diverrà famoso nella storia, ma anche denaro, lo splendore del regno e la vittoria sui nemici. Non è da escludere che, al singolare periodo di splendore, faccia riferimento l’affermazione: “Insieme a lei mi sono venuti tutti i beni; nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile”.
La sapienza non è riconducibile meramente all’ampiezza dell’istruzione, ma all’acuta capacità di discernere il vero dal falso dell’ambiguità, un insieme di vero e falso, di corretto e sbagliato. Discernere correttamente è sapienza, capacità di collegare gli elementi della realtà in modo adeguato e soddisfacente per il bene della comunità e di ogni persona.
L’atteggiamento dell’uomo sapiente è contraddistinto dalla capacità d’ascolto con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutto il proprio essere, per percepire, intuire, nel miglior modo possibile, la profondità, le inquietudini, i punti nodali di riferimento, i desideri e la meta correlati al coinvolgimento della circostanza sociale e personale.
Ascoltare argomentazioni, opinioni e proposte radicalmente diverse, da un lato libera da ogni forma di preconcetto e dalla presunzione del proprio sapere e delle proprie convinzioni, dall’altro lato aiuta a comprendere la complessità dell’esistente e ammettere con umiltà il limite dell’intervento.
È altresì disporre della griglia di discernimento di valori dai controvalori riguardo alla finalità e alla meta in gioco. Il filtro è offerto dall’auto-rivelazione di Dio nel vissuto individuale e collettivo, proprio del contesto e della circostanza; filtro costituito dalla Parola, dall’evento Gesù Cristo e dalla misteriosa presenza della dinamica della carità, che orienta la realizzazione della giustizia e dei valori etici di fraternità di portata universale.
Pertanto la sapienza è legata alla profondità e alla qualità della vita, al suo senso ultimo e definitivo, che orienta verso un futuro pieno di speranza. Essa ha come riferimento la persona di Gesù Cristo, centro di tutta la creazione, dal quale è attratta, come lascia intendere la seconda lettura.
Seconda lettura (Eb 4,12-13)
La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore.
Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto.
“La parola di Dio è viva, efficace”. Immediatamente il pensiero va al testo scritto, letto in ogni celebrazione. In effetti il testo è solo un mezzo per informare e trasmettere ciò che ha attinenza con la vita, il vero luogo della Parola.
L’esistenza, nel trascorrere del tempo, si sviluppa in eventi dinamici e conflittuali tra vita e morte, senso e non senso, verità e menzogna, fino all’estrema agonia conclusiva del ciclo terreno. Essi, da un lato riguardano la persona, la storia, l’umanità e il creato, che portano con sé elementi di ambiguità e possibilità di morte; dall’altro lato in essi è presente il Dio della vita, il suo amore, nel quale non c’è ombra di morte. Perciò “La parola di Dio è viva”: è il luogo dell’esistenza veramente umana, che si divinizza nell’accogliere e discernere come procedere affinché la vita trionfi sulla morte, il bene sul male.
Di conseguenza la persona è vita piena di senso e di gioia per il procedere nell’amore inesauribile di Dio, nel quale è immersa. Questa vita si proietta oltre sé stessa, quale forza vitale che contribuisce alla qualità di vita a favore di ogni persona e della comunità, e declina l’attenzione e la cura del creato.
Gesù di Nazareth – parola fatta carne –, con la sua morte e risurrezione è vita che trionfa sulla morte, è la morte della morte. Di conseguenza, in quanto Parola, è “viva” ed “efficace” se da un lato abbatte la morte; nello stesso tempo, dall’altro lato, dona vita in abbondanza quale partecipazione all’amore di Dio. La Parola è punto di partenza, cammino e insegnamento per ogni essere umano al fine di crescere nella somiglianza a Dio, perché creato a sua immagine e somiglianza.
Il processo di crescita si svolge nell’accogliere l’avvento del regno di Dio nella forma che Gesù insegna e testimonia con la sua condotta, e la cui verifica sono il percorso delle Beatitudini, da Lui stesso indicate, quale tesoro di cui disporre e ambito di gioia piena.
Si tratta, allo stesso tempo, del processo di purificazione e di crescita nella somiglianza a Dio. È come entrare in una spirale in continua espansione e approfondimento, che abbraccia il vissuto dell’umanità, la cura del creato, e rende partecipi della trascendenza e immanenza che avvolge e trasforma la persona, immergendola nella pienezza di vita senza fine.
In tal modo la “Parola di Dio viva, efficace” svolge la sua missione di spada ben affilata, “a doppio taglio”, che agisce nel profondo e insondabile dell’animo umano, giacché “essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito”, giudica, discerne e purifica “i sentimenti e i pensieri del cuore”.
Essa non penetra come intrusa, ma per la volontà della persona di accogliere e confrontarsi con essa, percependola come necessaria e positiva per la propria vita personale e per tutti, quale partecipazione dell’immanenza/trascendenza dell’amore di Dio, che immerge l’esistenza umana nell’ambito del divino.
La persona si trova collocata tra due estremi opposti. Da un lato, “Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto”, perché la parola viva ed efficace dell’amore è costitutiva di ogni persona: è il DNA di ogni essere umano. Dall’altro lato, la persona può disattendere, rimanere indifferente, svalorizzare e addirittura rigettare la parola viva ed efficace. In altre parole, fare proprio il peccato contro Dio: “Contro te, contro te solo, ho peccato” (Sl 50,6).
Tuttavia alla Parola di Dio “dobbiamo rendere conto”, perché da essa tutto procede e ad essa tutto tende, quale riferimento ed agente di ricapitolazione di tutto e di tutti, anticipo e garanzia della risurrezione alla fine dei tempi.
L’insoddisfazione proveniente dal non sintonizzare in modo adeguato con la Parola suscita l’inquietudine interiore che spinge e motiva a trovare una risposta soddisfacente, rivolgendosi a Gesù, come testimonia il vangelo odierno.
Vangelo (Mc 10,17-30) – adattamento dal commento di Alberto Maggi
In quel tempo, mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”».
Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.
Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?». Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio».
Pietro allora prese a dirgli: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». Gesù gli rispose: «In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà».
L’evangelista scrive: “mentre Gesù andava per la strada”. La strada è il luogo della semina infruttuosa, dove il seme è stato gettato per terra ma, subito, sono venuti gli uccelli. Quindi l’evangelista mette in guardia sul fatto che questo brano sarà all’insegna della semina infruttuosa: la parola non verrà accolta.
Un tale gli corse incontro e si gettò in ginocchio. Finora è corso incontro a Gesù l’indemoniato, cioè una persona posseduta da qualcosa di più forte di lui che lo tiene prigioniero; e si è gettato in ginocchio presso Gesù il lebbroso, cioè la persona impura che si riteneva esclusa da Dio.
L’evangelista sta dicendo che questo tale è più posseduto di un indemoniato e più impuro di un lebbroso. La preoccupazione di questo tale – che è anonimo e quindi è una figura rappresentativa – è: cosa deve fare per ottenere la vita eterna.
Ebbene Gesù gli risponde quasi in maniera seccata, perché lui è venuto ad inaugurare il regno di Dio, una società alternativa, non certo per dare indicazioni per la vita eterna. Comunque Gesù lo rimanda a Dio e ai comandamenti, e qui Gesù elimina i tre che erano esclusivi di Israele, i comandamenti più importanti – gli obblighi nei confronti di Dio – e gli elenca soltanto cinque comandamenti più un precetto, tutti riguardanti il comportamento da tenere verso gli altri “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso…”; inoltre Gesù inserisce “non frodare”, che era un precetto e non un comandamento.
Perché Gesù lo mette tra i comandamenti, dandogli lo stesso valore? Per la vita eterna non importa come e ciò in cui si è creduto: è importante il modo in cui si sono amati i fratelli. Il libro del Deuteronomio chiede di non imbrogliare i lavoratori, i dipendenti e, allora, Gesù insinua che alla base di ogni ricchezza c’è sempre la frode e l’imbroglio.
L’individuo afferma di aver fatto tutte queste cose fin dalla giovinezza. Il testo greco usa termini che fanno intravedere che si riempie la bocca, fiero e orgoglioso di tutto questo. Allora Gesù lo fissò, lo amò e gli disse: “Uno ti manca”. Traduco letteralmente il testo: non è “Una cosa sola ti manca”, cioè “hai fatto tanto, metti anche questo”. No. “Uno ti manca”! L’espressione indica: “Ti manca tutto”. Hai avuto tanta osservanza dei comandamenti, delle pratiche religiose, eppure, nonostante ciò, ti hanno reso un individuo angosciato, preoccupato.
Ecco, allora Gesù, che lo ama, gli chiede di essere felice, facendo felici gli altri. È andato da Gesù per avere di più, per avere un consiglio per la sua vita spirituale e Gesù lo invita a dare di più. E infatti gli dice: “Va’, vendi quello che hai, dallo ai poveri…”, cioè fai felice per essere felice, “e avrai un tesoro in cielo”, cioè in Dio.
“E poi vieni e seguimi. Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò via rattristato; possedeva infatti molti beni”.
Ecco perché l’evangelista ha presentato questo individuo che corre, come l’indemoniato. È posseduto: lui credeva di possedere i beni, in realtà ne era lui posseduto.
Dai Vangeli si comprende che si possiede soltanto ciò che si dona, quel che si trattiene per sé non lo si possiede, ma ci possiede. L’uomo pensava di possedere i beni, in realtà ne era lui posseduto. E quindi non gli ha fatto bene incontrare Gesù: ha incontrato Gesù e, angosciato, se ne va via rattristato.
Vediamo adesso la reazione dei discepoli alla radicalità di Gesù. Loro rimangono sconcertati dal fatto che Gesù mette come condizione al ricco, per entrare nel Regno di Dio – nella comunità cristiana – di abbandonare tutte le sue ricchezze.
Allora Gesù, vedendo lo sconcerto, si rivolge ai suoi discepoli e conferma che – per i ricchi, s’intende – “è difficile entrare nel Regno di Dio”, perché i discepoli, per il fatto di aver accolto Gesù e il suo messaggio, sono già nel Regno di Dio. Quindi Gesù non sta indicando quanto sia difficile in linea generale, ma quanto lo sia per i ricchi.
Perché? Nel Regno di Dio c’è posto per i signori, ma non per i ricchi. Il signore è colui che dà, mentre il ricco è colui che ha e trattiene per sé. E quindi Gesù fa l’esempio popolare del cammello e della cruna dell’ago per indicare l’impossibilità del ricco, perché la comunità di Gesù è il luogo della generosità.
Ebbene, di fronte alla conferma di Gesù, alla sua radicalità, c’è lo sconcerto dei discepoli che, ancora più stupiti, si dicevano: “E chi potrà essere salvato?” Qui non s’intende la salvezza eterna, perché si salva anche il ricco, se si comporta onestamente, rettamente: basta che osservi i comandamenti, e neanche tutti; per partecipare della vita eterna non importano i doveri verso Dio, ma i doveri verso il prossimo.
Qui la salvezza non riguarda la vita eterna. Il verbo greco tradotto con “salvare” significa “sostenere, fuggire da un pericolo”. Cioè il ragionamento dei discepoli è questo: se a un ricco, che poteva entrare nel gruppo, gli metti come condizione di disfarsi di tutte le sue ricchezze, noi come andiamo avanti, come ci manteniamo? È questo il problema sollevato dai discepoli.
“Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: Impossibile agli uomini, ma non a Dio” Gli uomini pensano che la felicità consista nell’avere sempre di più. Gesù, che è Dio, insegna che la felicità, la vita, consista nel dare, non nell’avere. Più si dà e più si acquista la capacità, da parte di Dio, di dare agli uomini.
E qui c’è la reazione di uno dei discepoli che viene presentato con il soprannome negativo, Pietro, infatti quando Simone viene indicato soltanto con il soprannome negativo, significa che si oppone a Gesù. Infatti, contesta: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto” – che, poi si vedrà, non è neanche vero -, “e ti abbiamo seguito”.
C’è un problema: Pietro segue Gesù; almeno lui crede che sia così, ma non lo accompagna, cioè non ha fatto propri gli ideali di Gesù. Ebbene, ecco la risposta di Gesù: “In verità” – quindi è un’affermazione solenne che va al di là della risposta a Pietro, ma riguarda la comunità dei credenti di tutti i tempi – “non c’è nessuno che ha lasciato casa”, e poi qui c’è una contrapposizione, “o fratelli, o sorelle, o madre, o padre, o figli, o campi”, non c’è una congiunzione e…, e…, e…
Gesù, per essere seguito non chiede di lasciare tutto, ma di lasciare soltanto quello che impedisce la piena libertà dell’uomo. Se è la casa (casa significa il patrimonio familiare), se sono i fratelli, se sono le sorelle, o il padre o la madre …: se c’è uno di questi impedimenti, lascialo, abbandonalo, perché ti impedisce la pienezza di vita.
Questo abbandono deve essere fatto per causa di Gesù e per causa del Vangelo, e questo è il problema di Simone. Simone segue Gesù, ma non ha capito ancora la Buona Notizia di Gesù, quest’amore universale che va concesso a tutti quanti.
Ebbene Gesù assicura: “che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto” (cento volte tanto indica una benedizione da parte di Dio) e, mentre si lascia soltanto la casa, o i fratelli o le sorelle (la benedizione è complessiva), riceve “cento volte” – “in case” (e qui c’è la congiunzione) “e fratelli e sorelle e madri e figli e campi”.
C’è una sparizione, tra gli impedimenti da lasciare c’era il padre, ma il padre ora non si ritrova tra le benedizioni. Il padre indica l’autorità, colui che comanda, viene abbandonato e non lo si ritrova nella comunità cristiana: non c’è nessun padre nella comunità se non il Padre dei cieli. E il Padre dei cieli non governa gli uomini emanando leggi che questi devono osservare, ma comunicando loro interiormente il suo Spirito.
Insieme a questo ci sono le persecuzioni, ma, aggiunge Gesù, “e la vita eterna”. Cioè le persecuzioni che possono sopraggiungere non impediscono la pienezza di vita, né la vita che è eterna.
Infine c’è un ultimo versetto, che è importante ma non è compreso nel testo odierno: “Ma tutti anche se primi devono essere ultimi e questi ultimi saranno primi”. Gesù ha incontrato uno che nella società è considerato un primo e lo invita a farsi ultimo, in modo che gli ultimi possano sentirsi primi.