Padre Vincenzo Percassi

 

Nel Vangelo di oggi troviamo un duplice contrasto. Gesù contraddice dapprima i farisei circa la possibilità per l’uomo di ripudiare sua moglie. Quindi, in maniera ancora più severa, Gesù contraddice i suoi propri discepoli perché cercano di allontanare i bambini da Lui.
Questi contrasti mettono in luce una cecità che esiste nel cuore dell’uomo circa la presenza del Regno di Dio in mezzo a noi e circa ciò che “che è veramente bene” per noi. Subito dopo la creazione dell’uomo Dio dice: “non è bene che l’uomo sia solo”. È Dio per primo e di sua iniziativa che desidera per l’uomo un sovrappiù di bene che non era già iscritto nella sua creazione e che di fatto lo distinguerà da tutte le altre creature. Egli, dunque, addormenta l’uomo, lo ferisce al costato, plasma la donna e gliela riconduce. Il primo incontro con la donna manifesta l’inizio di questo sovrappiù di bene. In essa, infatti, egli non vede innanzitutto la differenza ma al contrario la similarità e dunque sente di amarla “come sé stesso”: ossa delle mie ossa e carne della mia carne. Nell’incontro con la donna l’uomo acquista la consapevolezza che può donare la propria vita all’altro senza perdersi. Fa l’esperienza che dal sonno, che è figura della morte, e dalla sua ferita egli ha donato una vita che gli viene restituita da Dio trasfigurata. Questa consapevolezza di poter trovare vita nel dono di sé da all’uomo una configurazione originalissima rispetto a tutte le altre creature: quella di essere una “creatura amante”, una creatura cioè capace di “comunione”, capace di vivere non solo “con gli altri” ma anche “per l’altro”.
In tal senso la solitudine dell’uomo non è il celibato ma il suo individualismo. L’uscita dalla solitudine, dunque, non è semplicemente l’unione fisica con un’altra persona, ma la disponibilità a realizzare una comunione di vita in cui l’altro è percepito non semplicemente come una “compagnia” ma come un aiuto che mi sta davanti. Un aiuto per cosa? Per fare quel passaggio senza il quale nessuno può uscire fuori da quell’egoismo sottile che trattiene la persona nella prigione del proprio io, dell’auto-referenzialità, dell’egoismo infantile.
L’altro deve aiutarmi a “lasciare il padre e la madre” cioè l’atteggiamento di chi dipende dagli altri, per imparare a “prendersi cura” dell’altro e divenire una cosa sola con l’altro, cioè vivere una relazione indissolubile. Così era da principio. Ma non è più così. Dopo il primo peccato è intervenuto un fattore di disturbo che Gesù descrive come “durezza di cuore”. Per guarire questa durezza non basta la legge. Occorreva in un certo senso una nuova creazione ed un nuovo ingresso di Dio nella nostra storia. Lo spiega la lettera agli Ebrei quando dice che per l’incarnazione colui che santifica e coloro che sono santificati diventano una cosa sola, proprio come in uno sposalizio. Gesù, infatti, è stato abbassato al di sotto degli angeli perché gustasse la morte e perché risvegliandosi come Adamo dal suo sonno accogliesse come sposa tutta la nostra umanità rinnovata dalla comunione con la sua divinità. Attraverso il “contatto” con la nostra carne Gesù che è santo, ci santifica permettendo alla vita di Dio di ricominciare a fluire nel nostro cuore sclerotizzato e lentamente guarirlo.
Essere santificati significa essere tirati fuori dalla nostra solitudine originaria per fare esperienza che lo Spirito Santo si unisce a me in maniera indissolubile, vive con me, respira con me, prega in me, ama con me. Il dono che Gesù fa della sua vita è totale e quindi indissolubile. Ciò che a noi è richiesto è l’accoglienza semplice ma incondizionata come quella dei bambini. Più lo accogliamo più ridiventiamo a nostra volta creature amanti come al principio. Creature capaci di comunione, capaci di relazioni indissolubili -non solo quella matrimoniale ma ogni relazione – poiché solo una relazione indissolubile esprime amore senza ipocrisie e senza riserve. E’ l’accoglienza di questo dono di santificazione che ci fa uscire dalla solitudine del proprio individualismo.
L’idea dei farisei di poter allontanare la moglie non gradita oppure l’atteggiamento dei discepoli che vorrebbero allontanare i piccoli denunciano quella riserva del cuore di ogni uomo che si nutre di un triste sospetto: l’altro può sempre diventare un disturbo, tradirmi, giudicarmi e quindi io non muoio per nessuno, non mi dono mai in maniera totale. Gesù ci chiama a conversione. L’altro è sempre colui che dio mi affida e quindi è sempre una benedizione. Esercitarsi all’accoglienza incondizionata permette a Dio di risvegliare in noi la sola cosa che può porre un rimedio alla durezza del cuore: la tenerezza.

P. Vincenzo Percassi

Limone