Padre Luigi Consonni

Prima lettura (Is 50,5-9a)

Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio
e io non ho opposto resistenza,
non mi sono tirato indietro.
Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,
le mie guance a coloro che mi strappavano la barba;
non ho sottratto la faccia
agli insulti e agli sputi.
Il Signore Dio mi assiste,
per questo non resto svergognato,
per questo rendo la mia faccia dura come pietra,
sapendo di non restare confuso.
È vicino chi mi rende giustizia:
chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci.
Chi mi accusa? Si avvicini a me.
Ecco, il Signore Dio mi assiste:
chi mi dichiarerà colpevole?

Il testo, tratto dal terzo dei quattro cantici del “Servo del Signore”, presenta quest’ultimo come un uomo perseguitato a causa della parola che ascolta e trasmette: “Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho posto resistenza, non mi sono tirato indietro”.
Nel secondo cantico il Servo è chiamato da Dio a svolgere la missione a favore del popolo d’Israele e, a tal fine, è investito con l’unzione dello Spirito. L’incomprensione, le difficoltà, la crescente opposizione e il rifiuto violento sembrano rendere vana tale missione. Tuttavia il Servo resta saldo nel compito affidatogli, a favore non solo di Israele ma anche di tutte le nazioni.
Ciò che il Signore comunica non è né piacevole né risponde ai desideri e alle attese del popolo. Il Servo percepisce la portata sconcertante e sorprendente del messaggio da trasmettere, e lo porteranno ad affrontare risvolti drammatici.
Dovrà farsi carico di audacia, determinazione, coraggio e, soprattutto, di fiducia nel “Signore Dio che gli ha aperto l’orecchio”. Pertanto afferma: “non ho posto resistenza, non mi sono tirato indietro”. Presagisce che non incontrerà accoglienza e adesione nel comunicare quello che non vogliono udire, e propone quel che sarà ritenuto blasfemo, perché andrà contro la tradizione sconvolgendo criteri, insegnamenti e pratiche solidamente consolidate e ritenute intoccabili.
La reazione delle autorità, e del popolo in generale, non si fa attendere. Essa è di una violenza sconcertante e sommamente umiliante: “Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi”. Il Servo non è sorpreso e affronta la persecuzione con piena consapevolezza, cosciente di tale eventualità.
Pur essendo prevista la reazione contraria, ci si chiede: che cosa ha motivato il Servo a non tirarsi indietro, a fuggire, né a lamentarsi, come sarebbe più che ovvio dal punto di vista dell’esperienza comune? La risposta sta nella posta in gioco, nell’affermare la verità declinata dall’identificazione con chi lo ha inviato. In altre parole, lo sostiene il compimento fedele della missione nei termini dell’Alleanza, della promessa dell’avvento del regno di Dio, l’accoglienza della sua sovranità a favore della società alternativa nell’orizzonte della pratica del diritto e della giustizia, il senso profondo dell’esistenza del “popolo di Dio” e nella pienezza di vita di ogni singola persona, incluso sé stesso.
Di conseguenza il Servo si fa carico delle contrarietà, dell’umiliazione, della sofferenza e afferma: “non resto svergognato (…) rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso”. È lo stato d’animo di chi mette in atto la resistenza al dolore fisico e al disprezzo con la lucidità della coscienza spirituale, permeata dai valori che sorreggono e illuminano il mondo interiore e la totalità della persona.
Nel Servo c’è la certezza che “Il Signore Dio mi assiste (…). È vicino chi mi rende giustizia”. Non si sente abbandonato dal Signore, sostenuto dalla convinzione che la giustizia prevarrà, nel senso che la causa del Regno non andrà persa ma avrà il sopravvento. Ciò rende evidente lo spessore e la consistenza della personalità del Servo e di chi si dedica, come lui, con rettitudine e determinazione alla causa del Signore, per la quale è chiamato e coinvolto.
Servire autenticamente e sinceramente il Signore è come immagazzinare in sé stesso un pozzo di “acqua viva” al quale attingere nei momenti di solitudine, di dolore, di aridità e di fallimento dal punto di vista umano, come l’esperienza del Servo testimonia. È come bere dell’acqua del proprio pozzo, al quale fa riferimento il vangelo di Giovanni: “Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me (…) Dal suo grembo (di colui che crede)  sgorgheranno fiumi di acque viva” (Gv 7,37-38).
Quest’ “acqua” gli permette di affermare: “È vicino chi mi rende giustizia: chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci”. È uno stato d’animo che esprime un sorprendente coraggio, frutto dalla certezza che la giustizia prevarrà, quale realtà non vendicativa ma dimostrativa della verità. Verità di cui il servo è annunciatore e, per la quale, non desiste dal confrontarsi con gli oppositori. Essa sostiene il coraggio di continuare lo scontro nel portare a termine la missione, e affermare con dignità e determinazione agli oppositori: “Chi mi accusa? Si avvicini a me”.
L’immagine del Servo non è per niente immagine della persona sconfitta, depressa, amareggiata e desiderosa di rivincita, ma del soggetto che sprigiona determinazione e volontà sorprendente, fuori del comune, nel continuare la lotta, alimentata dalla certezza che “Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?”. La fedeltà e rettitudine al Signore fa del Servo una figura particolarmente significativa e degna da imitare.
Costituisce l’esempio di fedeltà, in sintonia con la parola, con le scelte e i comportamenti indispensabili per l’alleanza. Questo è richiesto a ogni cristiano, come indica la seconda lettura.

 

Seconda lettura (Gc 2,14-18)

A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha opere? Quella fede può forse salvarlo?
Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta.
Al contrario uno potrebbe dire: «Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede».

L’apostolo afferma con vigore la necessità del legame tra la professione di fede nel Signore e la pratica di vita, due realtà inseparabili che si richiamano a vicenda. L’intervento si deve alla constatazione dello scollamento tra fede e vita. Egli porta l’esempio di un fratello o una sorella ai quali non è dato “… loro il necessario per il corpo” e domanda: “A che serve, fratelli miei, se uno dice di aver fede, ma non ha le opere? Quella fede può forse salvarlo?”.
In gioco è la salvezza, finalità della missione di Cristo. Senza le opere la fede è un enunciato privo di efficacia per il bene e per la qualità di vita delle persone coinvolte. Nella circostanza viene meno l’avvento della sovranità di Dio perché è nel legame fede e pratica che, nelle persone coinvolte, emerge l’amore del Padre, ossia l’avvento del suo regno.
La condivisione dei beni, l’aiuto di prima necessità per una vita degna e umana deriva dal non cadere nella disattenzione, nella superficialità, nell’indifferenza o, peggio, nella chiusura in sé stessi a causa della paura, della comodità, del pregiudizio, della discriminazione e, più in generale, da ogni forma di egoismo che sostiene lo scollamento di cui sopra.
La cultura della società attuale è fortemente fondata sul rapporto tecnologia/finanza, che sottomette l’economia e, a sua volta, quest’ultima la politica. Essa è un forte incentivo al predominio del denaro, del guadagno, del successo sociale per acquisire prestigio, potere e ammirazione.
In tal caso la fede in Dio e in Gesù, nel migliore dei casi, è relegata all’ambito individuale, e non alla causa dell’avvento del Regno di Dio nel presente, nelle diverse circostanze giornaliere, nell’orizzonte della società alternativa al dominio dell’ingiustizia sociale, della scandalosa povertà, dell’umiliazione, della sofferenza e della disumanità di molti.
Il legame inscindibile tra la fede e la pratica è motivo per il quale l’apostolo afferma che la fede “se non è seguita dalle opere, in sé stessa è morta”, ossia inutile e priva di senso. La fede senza le opere è fonte dell’illusione psicologica per la quale la sola celebrazione eucaristica, con la ricezione dell’Eucaristia, declina la coscienza della comunione con il Signore, effetto che poi, in breve tempo, è messo da parte. È ciò perché nella vita interpersonale, e ancora più sociale, non è declinato l’amore trasmesso dall’Eucaristia in modo da solidarizzare il farsi della nuova società nell’orizzonte del regno di Dio. Perciò Giacomo ritorna sul tema: “Al contrario uno potrebbe dire: ‘Tu hai la fede e io le opere, mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede’”.
Nel discorso della montagna Gesù afferma: “Non chiunque mi dice:Signore, Signore’, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. In quel giorno molti diranno ‘Signore, Signore, non abbiamo forse profetato in tuo nome? E nel tuo nome non abbiamo forse scacciato demoni? E nel tuo nome non abbiamo compiuto prodigi? Ma allora io dirò loro: ‘Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità’ ” (Mt 7, 21-23).
Le opere procedono dalla fede e misurano la consistenza e la forza di essa. Le opere, in sintonia con la fede nell’insegnamento e nella parola di Gesù, sono le due facce del mistero di Dio, del suo amore rigenerativo nel quale siamo immersi gratuitamente.
E l’apostolo afferma con sicurezza: “io con le mie opere ti mostrerò la mia fede” e, con una certa ironia: “mostrami la tua fede senza le opere”, nella piena convinzione di chiedere quel che non esiste, perché senza contenuto.
La fede autentica suscita particolare attenzione ai bisogni di chi soffre e muove il credente e la comunità alla compassione e alla misericordia, attivando le opere e le condizioni di una nuova società atta a rispondere, adeguatamente, alle necessità personali e sociali della circostanza.
Infine, l’apostolo riprende. Se uno di voi dice: “Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi, ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve?”. E termina: “Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in sé stessa è morta”. La realtà che dà vita alla fede sono le opere.
Le “opere” procedono dalla fede che Gesù non trova negli apostoli; tuttavia, non li abbandona e insiste affinché si rendano conto della portata e dell’impegno per la causa del regno. È l’argomento del vangelo odierno.

 

Vangelo (Mc 8,27-35) – adattamento dal commento di Alberto Maggi

In quel tempo, Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti».
Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno.
E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere.
Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini».
Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà».

Gesù rimprovera i suoi discepoli e dice loro “Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite”, nonostante l’episodio della guarigione del sordomuto e del cieco, che erano immagini della resistenza da parte dei discepoli che non capiscono e non accettano né chi sia Gesù, né il suo messaggio. Allora Gesù li porta all’estremo nord del paese, ai confini con la terra pagana, per vedere se, lontano dall’ideologia nazionalista imperante, riescono a capire qualcosa di lui. È il brano odierno.
Poi Gesù parti con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarea di Filippo”; siamo all’estremo nord del paese, quindi lontano dall’influsso della Giudea e anche della Galilea, e per la strada (ecco l’evangelista qua ci mette già un indizio che ci fa capire come va a finire la narrazione: lungo la strada è dove il seme gettato non ha portato frutto perché sono venuti gli uccelli, immagine di Satana, che lo hanno portato via. Quindi questo messaggio di Gesù sarà inefficace. Satana, immagine del potere, è refrattario alla buona notizia di Gesù).
Interrogava i suoi discepoli dicendo: “la gente chi dice che io sia”? I discepoli, i dodici, sono andati a predicare e Gesù vuole vedere qual è stato il risultato di questa predicazione: la confusione totale. “Ed essi gli risposero “Giovanni il Battista”, perché si credeva che i martiri sarebbero prontamente risuscitati; “altri dicono Elia”: Elia è il grande, violento profeta che doveva venire a preparare la strada al messia, “e altri uno dei profeti”. Non hanno capito assolutamente nulla, tutti personaggi che riguardano il passato.
Ed egli domandava loro “ma voi che dite che io sia”? La domanda di Gesù è rivolta a tutti i suoi discepoli, ma risponde soltanto uno che viene presentato con il soprannome negativo che indica la sua cocciutaggine, la testardaggine e che poi lo porterà al rinnegamento di Gesù: è Pietro.
Pietro gli rispose: tu sei il Cristo”, con l’articolo determinativo. Il Cristo significa il messia atteso dalla tradizione, quello che doveva venire a far osservare la legge, a occupare il potere a Gerusalemme, questo è il Cristo. Ma Marco, nel suo vangelo, presenta Gesù come Cristo, ma senza l’articolo determinativo, cioè un messia che è tutto da scoprire.
Infatti, che Gesù non sia d’accordo si vede subito dalla sua reazione “e ordinò loro severamente (…) e rimproverò” (letteralmente sgridò – e l’evangelista adopera qui, in questo brano per ben tre volte lo stesso verbo che si adopera per sgridare e per scacciare gli indemoniati). Quindi quello che ha detto Pietro, Gesù non lo gradisce. “(…) di non parlare di lui ad alcuno e cominciò a insegnare a loro che il Figlio dell’uomo” (Pietro ha risposto “tu sei il Cristo”, il messia della tradizione). Gesù si presenta come il Figlio dell’uomo. Gesù è il Figlio di Dio in quanto rappresenta Dio nella sua condizione umana ed è Figlio dell’uomo in quanto rappresenta l’uomo nella sua condizione divina, cioè lo sviluppo pieno del progetto di Dio sull’umanità, ossia che l’uomo abbia la condizione divina.
Il Figlio dell’uomo dovrà soffrire molto ed essere rifiutato”; da chi? Non certo dai peccatori. Quelli che sono ostili al progetto di Dio sull’umanità sono proprio coloro che dovevano farlo conoscere e promuoverlo: le autorità religiose. Infatti tutto il sinedrio è contro il Figlio dell’uomo, sono “gli anziani cioè i presbiteri, dai capi dei sacerdoti, i sommi sacerdoti, e dagli scribi”, i teologi ufficiali.
venire ucciso”; i rappresentanti dell’istituzione religiosa uccidono il progetto di Dio sull’umanità, “e dopo tre giorni risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro – ecco di nuovo il soprannome negativo – lo prese – letteralmente lo afferrò a sé, e cominciò (esattamente come Gesù ha cominciato a insegnare a Pietro) incomincia a rimproverarlo, cioè a sgridarlo, lo stesso verbo adoperato da Gesù e che coincideva con quello che si adoperava per gli indemoniati. Ciò che Gesù sta dicendo, con riferimento alle parole di Pietro, è qualcosa che non viene da Dio, ma da qualche demonio, “e cominciò a rimproverarlo”. Ecco la reazione di Gesù: “ma egli voltatosi e guardando i suoi discepoli” rimprovera Pietro, ma il rimprovero riguarda tutti i discepoli, perché ognuno di essi condivide questa mentalità, “rimproverò” per la terza volta Pietro “e disse: va dietro di me Satana!”
Gesù definisce Pietro Satana, perché? Perché come Satana tenta Gesù per deviarlo dal suo progetto sull’umanità e come Satana vanifica l’effetto della parola rendendola come il seme caduto in terra che subito gli uccelli, immagine di Satana, portano via. Quindi Gesù rimprovera Pietro e lo tratta come Satana, cioè come diavolo, ma non lo caccia; gli chiede: “torna a metterti dietro di me”. Non è Pietro che deve tracciare la strada, ma è Gesù, perché “tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”.
Poi per la prima volta appare in questo vangelo il tema della croce; e a questi discepoli che seguivano Gesù per ambizione, per condividere con lui il potere, il trono, il successo, Gesù mette in chiaro che seguirlo significa andare incontro al disprezzo dello stesso popolo, al rifiuto da parte della società.
Convocata la folla – ora il discorso si allarga – insieme ai suoi discepoli disse loro “se” (c’è il condizionale) “.. qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi sé stesso, (cioè rinunci a questi ideali di successo, di ambizione, di potere) prenda (letteralmente sollevi) la sua croce”.
La croce nei vangeli non è data da Dio, ma è sollevata dall’uomo; a che cosa si riferisse Gesù? Non alla morte di croce, ma al momento in cui nel tribunale il condannato veniva sottoposto a questa tortura che, poi, portava alla morte, e doveva issarsi sulle spalle il “patibulum”, cioè l’asse orizzontale della croce. Poi accompagnato, trascinato dal boia, attraversava tutta la città e per la gente era un obbligo morale, religioso, insultarlo e malmenarlo. Significava la solitudine totale, il rifiuto totale, il disprezzo totale: questa è la croce. La croce per Gesù significa accettare di perdere la propria reputazione, i propri ideali. Non è un’imposizione per tutti, ma è una conseguenza di quanti lo vogliano veramente seguire.
Prenda la sua croce e poi mi segua perché chi vuol salvare la propria vita la perderà – chi vuole realizzare i propri ideali di successo, di pienezza della propria esistenza va incontro al disastro – ma chi perderà la propria vita per causa mia e della buona notizia la salverà.” Gesù assicura che vivere per Lui, anche se si passa attraverso il disprezzo, il rifiuto della società, non sarà un disastro, ma porterà alla piena realizzazione della persona.