Padre Tonino Falaguasta Nyabenda
Stiamo sempre meditando il capitolo sesto del Vangelo di Giovanni.
Nella prima lettura odierna abbiamo la storia del profeta Elia, che compie a ritroso il percorso dell’Esodo, ed è significativa. Prefigura in realtà il Messia e la sua azione. Del resto anche Gesù identifica Elia con Giovanni il Battista, perché il profeta rapito da un carro di fuoco (2 Re 2, 11-12), doveva precedere il Messia e preparare il popolo alla sua accoglienza. Pure il viaggio del profeta Elia verso il Monte di Dio (= Oreb oppure Sinai) si addice all’Eucaristia. Infatti il cibo donato da un Angelo al profeta è sufficiente per permettergli di compiere il suo viaggio per intero. Il nostro cibo, per il nostro viaggio, che è la nostra vita, è l’Eucaristia. L’Eucaristia infatti ci permette di conoscere non una Legge, come quella del Sinai, scritta su pietra, ma di scoprire Gesù “Parola di Dio fatta carne” (Giovanni 1, 14). Solo così possiamo sperimentare il Cristo, come volto di Dio. E “camminando nella carità nel modo in cui anche Cristo ci ha amato” come dice l’apostolo Paolo, possiamo capire concretamente la paternità di Dio (Giovanni 1, 18).
La lettura del sesto capitolo del Vangelo di Giovanni ci permette di progredire nella conoscenza di Gesù come “pane della vita” (Giovanni 6, 48). Nel testo letto la 17ma Domenica abbiamo assistito al fatto materiale del miracolo della moltiplicazione dei pani. La folla, assetata di prodigi, non ha saputo cogliere il significato di questo segno. La 18ma Domenica, siamo stati invitati a cogliere le coordinate di questo segno. E cioè di passare dal pane materiale al pane che dura per la vita eterna. Ma bisogna procedere e scoprire inoltre l’identità intima di Gesù. Non dobbiamo fermarci alla superficialità della folla presente durante il miracolo del pane e che tentava di proclamare “Re” Gesù, per non faticare più e approfittare dei suoi poteri per mangiare a sbafo. Gesù non è solo il profeta che sfama. Egli è il pane stesso che sfama per sempre. Egli è “Io-sono”, il volto visibile di Dio. Gesù è la rivelazione di YHWH (= cioè Dio). Allora adesso per ciascuno di noi sorge una domanda: Chi è Gesù per me? Che risposta diamo a questo interrogativo? Da ciò dipende la nostra sequela e il nostro stare con il Cristo. E dipende anche il significato del nostro Esodo (cioè della nostra vita) che stiamo percorrendo, a volte con fatica. Se abbiamo fede, assistiti, non dalle focacce del profeta Elia, ma dal pane eucaristico, il pane della vita, Gesù stesso, che diventa per noi alimento per la vita eterna, il nostro cammino diventa corretto. “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo – ha detto Gesù. – Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (Giovanni 6, 51). Certo Gesù vola alto. “Questa parola è dura” dissero alcuni dei discepoli (Giovanni 6, 60). E’ vero, ma il Cristo tira diritto nel suo insegnamento nella sinagoga di Cafarnao.
Già dopo il segno della condivisione dei pani e dei pesci, Gesù ha scontentato la folla, che voleva che diventasse il loro re (Giovanni 6, 15). Ha poi scontentato i capi religiosi, che vengono qui chiamati “Giudei” (Giovanni 6, 41). Ma non siamo a Cafarnao, in Galilea? Con questa parola l’evangelista indica le autorità del popolo. Esse dirigevano la vita religiosa e politica del paese. E mormoravano perché di Gesù sapevano tutto: padre, madre, fratelli, sorelle, occupazione a Nazareth, ecc. Però non potevano accettare che Gesù dicesse: “Io-sono”, che è il nome di Dio. L’istituzione religiosa (di cui i capi erano i responsabili) non può rinnegare la sua esistenza. Infatti essa organizza il suo essere sulla distanza e la separazione che esiste tra Dio e gli uomini. E’ all’origine della mediazione tra le due realtà e assicura quindi la sua sopravvivenza. Ma Gesù pretende di avere la condizione divina|! Così i capi dicono: “E’ inammissibile, è una bestemmia!” (Giovanni 19, 7). Come risponde Gesù? “Non mormorate tra voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato” (Giovanni 6, 44). Che cos’è questa attrazione? E’ l’amore con il quale il Padre attira e cioè ama i suoi figli. Questo amore non ha limiti, supera anche la morte (Giovanni 11, 25-26). E’ questo che dobbiamo imparare, cioè “essere istruiti da Dio, diventarne discepoli” (Isaia 54, 13). Ora con Gesù non è più necessario imparare una Legge, ma siamo invitati ad amare come il Cristo. “I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti” (Giovanni 6, 49). “I vostri padri” ha detto il Rabbi di Nazareth. Ma come? Non è pure Lui discendente di Abramo e di Davide? Avrebbe dovuto dire: “I nostri padri”. No! Gesù non segue le orme di quei padri. Lui segue le orme del Padre. Quelli là, pur avendo mangiato la manna nel deserto, sono morti tutti. L’esodo è stato un fallimento! Noi allora, noi discepoli di Gesù, dobbiamo mangiare il vero cibo, quello che discende dal Cielo. “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo – ha detto il Signore. – Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (Giovanni 6, 51). In questa frase il Signore passa dal pane, che richiama il dono della manna agli Israeliti nel deserto del Sinai, alla carne, che richiama il sacrificio dell’agnello pasquale. Il pane, che Gesù darà, quando sarà giunta l’ora della Passione, sarà la sua carne, e cioè il corpo dato per noi. In questo modo si parla in maniera velata, ma comprensibile, della Passione e del suo frutto che ne deriva. Gesù infatti è l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo, come ha detto Giovanni il Battista (Giovanni 1, 29). Il suo sacrificio diventa sorgente di vita e di benedizione per tutti. Ed è quello che noi sperimentiamo nell’Eucaristia.
Il Concilio Vaticano II (1962-1965), nel documento sulla Sacra Liturgia, così ci spiega il sacramento dell’Eucaristia, di cui il capitolo sesto del Vangelo di Giovanni ci dà i fondamenti: “Il nostro Salvatore nell’ultima Cena, la notte in cui veniva tradito, istituì il sacrificio eucaristico del suo Corpo e del suo Sangue, con il quale perpetuare nei secoli, fino al suo ritorno, il sacrificio della Croce, e per affidare così alla sua diletta Sposa, la Chiesa, il memoriale della sua Morte e Risurrezione: sacramento di pietà, segno di unità, vincolo di carità, convito pasquale, ‘nel quale si riceve Cristo, l’anima viene ricolmata di grazia e viene dato il pegno della gloria futura’!” (Sacrosanctun Concilium, n°47).
San Daniele Comboni (1831-1881) ha saputo dare la risposta alla domanda, che noi pure dobbiamo porci: “Chi è Gesù per me?”. E alla risposta, da vero discepolo del Cristo, come prete e come Missionario, è rimasto fedele tutta la vita. Così scriveva da El-Obeid (Sudan),a p. Giuseppe Sembianti,superiore del suo Istituto Missionario a Verona, il 9 luglio 1881: “Io non so più in qual mondo oggi si vive. Io sono qui esposto alla morte per servire il mio Gesù fra le sofferenze e le croci, contento di morire per salvare i miei poveri Africani, e per essere fedele alla mia vocazione ardua, difficile e santa…Benché sia certo di soccombere fra breve a tante croci…, pure sia sempre benedetto il mio Gesù!”.