Padre Luigi Consonni
Prima lettura (Sap 1,13-15; 2,23-24)
Dio non ha creato la morte
e non gode per la rovina dei viventi.
Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano;
le creature del mondo sono portatrici di salvezza,
in esse non c’è veleno di morte,
né il regno dei morti è sulla terra.
La giustizia infatti è immortale.
Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità,
lo ha fatto immagine della propria natura.
Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo
e ne fanno esperienza coloro che le appartengono.
Il brano afferma il destino immortale e l’incorruttibilità non solo della persona, ma di ogni essere vivente. Apre un orizzonte di grande rilievo, un respiro infinito su tutto ciò che esiste: “le creature del mondo sono portatrici di salvezza” perché “in esse non c’è veleno di morte, né il regno dei morti è sulla terra”.
“La giustizia infatti è immortale”. La giustizia è il corretto rapporto dell’uomo con Dio, con le persone, con l’umanità e il creato. Essa è manifestazione della saggezza, sostenuta dall’intelligenza della fede nell’amore di Dio per ogni persona e per l’umanità, in quanto coinvolge e rispetta la realtà e finalità di tutto l’esistente.
Pertanto la giustizia non è riconducibile solo al rapporto corretto tra le persone e con il creato, né solo all’osservanza di alcune regole, ma è la dinamica creativa e audace che elabora e attiva le condizioni di pienezza di vita delle persone coinvolte per il bene della collettività e, più in generale, dell’umanità. Essa è azione.
Il centro della creazione è la persona, e l’autore del brano, che ha percepito la radice dell’immortalità di essa, afferma: “Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità, lo ha fatto immagine della sua propria natura”. La fermezza e la determinazione di Dio è proprio quel “Sì” che rivela e motiva la sua volontà nel coinvolgere la persona nel suo amore, nella sua immortalità, per mezzo della conoscenza e la pratica della giustizia.
Come interpretare, allora, il contrasto e la presenza della morte? Essa non procede da Dio, in quanto Egli non ha nulla a che spartire con essa: “Dio non ha creato la morte”; al contrario, è il Dio dei viventi. Pertanto, Egli “non gode per la rovina dei viventi”, di cui la morte è la massima espressione.
La morte non è parte costitutiva delle creature; “Egli, infatti, ha creato tutte le cose perché esistano; le creature del mondo sono portatrici di salvezza”. Tuttavia l’atto creatore di Dio è sostenuto dalla permanente lotta tra la vita e la morte. Esso non è riconducibile solo al chiamare all’esistenza le cose, ma al processo per il quale la vita si rinnova continuamente, cresce e si espande senza fine, sul modello della spirale in continua evoluzione.
Coinvolgimento ben tracciato dal profeta Michea: “Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la misericordia e camminare umilmente con il tuo Dio” (Mi 6,8). È l’insieme delle condizioni per attuare la giustizia, al fine di trasmetterla a chi non la conosce o si è allontanato da essa.
Allora, da dove viene la morte? Esiste perché “per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono”. Il diavolo è il lato oscuro di ogni persona che si separa da Dio per la seduzione di cammini alternativi e opposti. È il “mistero dell’iniquità”, riferito da Paolo, che trova posto nel lato oscuro della persona.
Quest’ultima, dominata da esso, diventa “diavolo”. Da un lato l’invidia è lo stato d’animo di rammarico e risentimento per la felicità, la prosperità, il benessere di altri, dall’altro è il desiderio frustrato di non raggiungere tali mete con i propri mezzi e capacità.
L’invidia è suscitata e alimentata dalla metaforica “voce” del serpente – “sarete come Dio” (Gen 3,5) – che mina la coscienza spirituale e, nello stimolare l’ardore del desiderio frustrato, insinua l’idea che Dio pretenda l’esclusivo godimento di tutto. L’invidia porta a non avere più fiducia in Lui e perseguire, sotto l’effetto della seduzione, un cammino contrario e alternativo a quello di Dio.
Prende spazio nella persona quello che non c’era in lei: “il veleno di morte” e. un passo dopo l’altro, accade “che il regno di morte è sulla terra”, con stupore e sofferenza da parte di Dio.
La persona, per aver sfiduciato Dio e dato adito alla propria percezione, conoscenza e intuizione, si auto-condanna, non solo per non riuscire a raggiungere il fine che sperava, ma per il ritrovarsi lontana da Dio, come nuda, piena di vergogna, insicura e impaurita. La persona diventa “diavolo”, realtà sorretta dall’illusione di trovare pienezza di vita e gioia.
Nelle prime parole del brano si rileva l’immensa tristezza di Dio: “Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi”. La seduzione favorisce nella persona e nella società la rovina e l’autodistruzione, per lo sviluppo in essa della “seconda morte”, ampiamente descritta nell’Apocalisse.
Essere lontani da Dio, nutrire sfiducia in Lui, essere indifferenti all’insegnamento e alla pratica di Gesù, non porta a salvezza alcuna. La seconda lettura esorta a correre ai ripari.
Seconda lettura (2Cor 8,7.9.13-15)
Fratelli, come siete ricchi in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così siate larghi anche in quest’opera generosa.
Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà.
Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza. Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: «Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno».
Paolo si rivolge alla comunità: “Conoscete, infatti, la grazia del Signore nostro Gesù Cristo”, ossia al dono del Suo insegnamento, dello stile di vita, delle scelte, dei conflitti, delle opere in ordine all’avvento del regno di Dio nel presente – nella vita e circostanze di ogni giorno – per rifondare una società alternativa.
Il dono trasmesso da Gesù è elaborato dalla scelta, umanamente sorprendente e sconcertante, per la quale “da ricco che era, si è fatto povero per noi”. Povero nel senso che assume la condizione umana di ognuno di noi.
Più ancora, Giovanni puntualizza: “si è fatto carne” (1,14); in altre parole, si svuota della condizione divina (la mette tra parentesi, non si avvale dei “privilegi” di essa) non per una benevola concessione – “pur essendo nella condizione di Dio” (Fil 2,6) nel testo originario non c’è “pur” – ma “essendo di condizione divina” è proprio di Dio farsi uomo e procedere in tal modo a favore dell’umanità, e di ogni persona, per l’avvento del regno, della sua sovranità.
Dio nel farsi carne nella persona di Gesù assume il livello infimo della condizione umana, la fragilità di ogni essere umano. Umanamente, socialmente, psicologicamente e moralmente è allo stesso livello dell’uomo corrotto e peccatore, pur non essendo né corrotto né peccatore.
Il Verbo di Dio – il Figlio – non conosce, non ha esperienza del male e del peccato; assume la condizione umana immergendosi in una situazione ancor più sconcertante e drammatica di quella di ogni persona. Perché l’umano probabilmente genera in Gesù una tensione particolarmente sconvolgente, propria di chi è immerso e sperimenta una situazione inedita, che ha mai incontrato.
Tale condizione è il punto di partenza per insegnare il cammino, il metodo e i criteri per entrare nella comunione con Dio – l’ambito del Regno, l’avvento della sua sovranità – che declina la nuova condizione personale e il consolidamento della nuova realtà sociale: “cieli nuovi e terra nuova” (Ap 21,1). Non si tratta di altro cielo e altra terra ma di questo cielo e questa terra, trasformati e rigenerati nell’ambito del divino.
Gesù, nella precaria condizione della carne, ha mantenuto integra l’unione con il Padre per mezzo dello Spirito. Quanto gli sia costato è contenuto nel prezzo della croce. Di fatto, dall’inizio della missione nel deserto e fino a poco prima di spirare sulla croce, è costantemente tentato di deviare dal cammino.
Nella costante lotta si è avvalso dell’amore trinitario quale forza, energia, per agire con determinazione e coraggio – con “la mano estesa e il braccio forte di Dio” – in favore della salvezza di tutti, insegnando il cammino e trasmettendo il dono del riscatto dal peccato e dal potere del male.
La vittoria di Cristo è trasmessa ad ogni credente e, al riguardo, Paolo afferma: “Conoscete, infatti, la grazia”, nel senso che avete già in voi l’esperienza del dono e della sua vittoria, “perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà”. Con esso viene sconfitto il veleno della morte, l’invidia, la rovina dei viventi e la morte stessa – vedi la prima lettura – avendo caricato su di sé la lotta estrema, l’agonia, senza cedere alle seducenti proposte di cammini alternativi.
La ricchezza della grazia è per tutti, e Paolo lo constata: “come siete ricchi in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato”. Si tratta del rinnovamento e rigenerazione della persona, in modo che investa il proprio agire e le opere con i parametri di Gesù Cristo, trasmessi dal suo insegnamento. L’obiettivo è coinvolgere altri nel dono ricevuto con la pratica della carità, nel fare proprie le necessità e il bisogno del prossimo di vivere in fraternità e dignitosa.
Perciò “siate larghi anche in quest’opera generosa (…). Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza (…)”. Paolo si riferisce ai cristiani di Macedonia che, pur fra difficoltà e prove di vario genere, sono generosi oltre ogni sua attesa nella colletta a favore della comunità di Gerusalemme. Cosicché, “(…) Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza”.
Paolo pone l’accento sul fatto che non si tratta solo di rispondere all’emergenza, ma di agire sempre nell’orizzonte della solidarietà e dell’uguaglianza. La condivisione dei beni, di cui i necessitati hanno bisogno, è sorretta dalla convinzione che l’uguaglianza è il principio della concreta familiarità e comunione fraterna.
È importante constatare come, già agli inizi dell’evangelizzazione, è stata data grande importanza all’agire in virtù del principio di uguaglianza. È un valore che non ha l’adeguata applicazione lungo la storia e che, recentemente, un laico come Norberto Bobbio, ha fatto proprio, estendendo il principio del corretto vivere sociale nella pari opportunità a tutti i livelli.
L’esercizio della carità fa sì che si attui la giustizia distributiva che la natura, o altre circostanze, non hanno reso possibile, in modo che “Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe meno”.
Percepire il bisogno, le necessità altrui, e rispondere adeguatamente in nome della grazia, del dono, di cui si è depositari, ha il carattere dell’immortalità rilevato dalla prima lettura – “La giustizia, infatti, è immortale” – ed è parte integrante dell’azione di Gesù, come mostra il vangelo di questa domenica.
Vangelo (Mc 5,21-43)
In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.
Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male. E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male».
Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo.
Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.
Il brano narra due miracoli, la guarigione della donna e la risurrezione della figlia di Giàiro. La prima soffre da “dodici anni”, l’altra muore all’età di “dodici anni”. Non è coincidenza casuale; il numero dodici indica che la salvezza è idealmente offerta alle dodici tribù di cui è composto Israele, e rappresenta tutti. Il testo rileva il loro cammino di fede e la potenza salvifica del Signore. I due miracoli mostrano qual è la fede che vince la morte.
I due miracoli trovano Gesù attorniato da molta gente che “lo seguiva e gli si stringeva intorno”, segno del momento particolarmente felice in termini di risposta popolare alla sua predicazione, per il fatto che la fama si era largamente diffusa. Probabilmente è la stessa folla del capitolo quattro, quella che aveva udito il racconto delle parabole.
La folla è chiamata ad aver fede, non una fede qualsiasi, ma quella che crea le circostanze più favorevoli perché Gesù manifesti la sua potenza. È la fede che fa miracoli: “la tua fede ti ha salvata”, in virtù del cambiamento di vita.
Si recò da Gesù “uno dei capi della sinagoga”, di nome Giàiro”. È interessante notare che prima viene il ruolo e poi l’uomo. Ma quando il ruolo viene prima dell’uomo, allora si è perso l’uomo. Giàiro ha un ruolo in vista e importante, è un capo della sinagoga. Ebbene il grande pericolo è di identificarsi con il ruolo.
In tal caso non c’è più in lui – ma vale per tutti – attenzione alla sua umanità, ai suoi limiti, ai suoi desideri, ma prevale sempre il ruolo di insegnare, dirigere, predicare: è il capo che ordina! Non si mette in gioco perché sa sempre quel che è giusto, cosa è sbagliato, cosa si deve fare e cosa non si deve fare È ammirato e stimato da tutti, ma diventa prigioniero del ruolo: tutti lo conoscono. Come può sbagliare?
Ebbene, Giàiro lo supplicò con insistenza: “La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva”. Che cosa è successo? Che la figlia è grave ma Giàiro è interessato più al suo ruolo che alla figlia ed è più importante il giudizio degli altri a causa del ruolo che riveste. Giàiro non si rende conto che se sua figlia sta male è perché lui stesso ne è la causa. Gesù deve guarire il padre perché la figlia guarisca.
Il racconto s’interrompe ed entra in scena una donna, anch’essa stretta dalla folla, per far notare la differenza col successivo toccare il mantello di Gesù da parte di lei, affetta dall’emorragia – “aveva perdite di sangue da dodici anni” – e aveva speso tutti i suoi averi senza trarne vantaggio alcuno. Una situazione irrimediabile: era condannata all’impurità legale per tutta la vita.
La donna è al massimo della prostrazione e della delusione, non solo per l’inefficacia delle cure e il peggioramento, ma anche per sapersi impura e peccatrice per la teologia del tempo. Tuttavia, nell’ascoltare la parola di Gesù, il suo messaggio e il fatto che ha purificato il lebbroso, riceve una nuova e diversa comprensione di sé stessa con l’irruzione, inaspettata, della realtà sconcertante e risolutiva della sua condizione. È convinta che al solo toccare le sue vesti, “sarò salvata”. Lo fa con timore, “impaurita e tremante”, sapendo che se fosse stata scoperta sarebbe stata condannata a morte, avendo reso impuro chi aveva toccato.
Tuttavia, con audacia e coraggio, lo tocca, per la fiducia in Lui e nella sua parola. Subito dopo averlo toccato, in mezzo alla folla che lo spingeva da un lato all’altro, “si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male”. La fede procede dall’ascolto e l’ascolto dall’annuncio. L’atteggiamento della donna verso Gesù rende efficace la forza rinnovatrice della quale Egli dispone.
Il tocco del mantello di Gesù esprime in modo materiale che cosa sia la fede: è il contatto personale con Gesù, che riabilita e fa rinascere. Solo una lettura superficiale dell’episodio può portare ad attribuire alla guarigione un fatto di autosuggestione, invece della sconfinata fede della donna, a cui Gesù risponde non solo con il miracolo fisico ma soprattutto chiamandola a intrattenere un dialogo con lui. La fede non è dunque un’esperienza puramente soggettiva, ma un’esperienza spirituale, in cui Dio chiama ad incontrarlo. Se noi cediamo a Gesù la nostra morte e ci abbandoniamo a Lui, Lui cede a noi la sua vita; è ciò che avviene sulla croce.
Gesù percepisce il singolare accadimento; “E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: ‘chi mi ha toccato?’”, e ne fa esplicita menzione, in una situazione che ha dell’assurdo come fanno notare i discepoli. “E subito Gesù … si voltò”: indica la conversione di Dio verso la donna. Dio si converte di fronte alla fede di chi si affida a lui.
Marco insiste nel far notare che Gesù si è accorto “della forza che è uscita da lui”, per far comprendere che ciò che è avvenuto alla donna non è qualcosa di magico, ma la conseguenza di un incontro personale di lei con Gesù: non a caso la chiamerà, in seguito, “figlia”, annullando ogni distanza e stabilendo un rapporto familiare con lei. Questa è la fede che salva: insieme alla guarigione fisica Gesù restituisce alla donna la sua dignità. Trasgredendo la Legge di Mosè, che proibiva ogni contatto fisico, la donna ha scoperto il Salvatore.
Gesù indica la chiave interpretativa di ciò che è avvenuto: “la tua fede ti ha salvata”, per aver creduto in ciò che la Sua parola stava operando in lei, in termini di rigenerazione e rinnovamento. Gesù approva questa fede e i suoi effetti; è come se dicesse: il passato è passato, sei una nuova persona e il regno di Dio – la nuova vita – è in te. E potrebbe dire alla donna: è male per te l’aver creduto di essere irrimediabilmente impura e peccatrice.
Gesù non la manda neppure al tempio per essere purificata, come previsto dalla legge, ma le dice: “Va in pace e sii guarita dal tuo male”. Con Lui è iniziata una nuova epoca: non è più l’uomo che deve offrire sacrifici a Dio, ma è Dio che si offre all’uomo perché la sua vita sia piena e felice.
È questa la fede che Gesù vuole comunicare al capo della sinagoga, di fronte all’irrimediabile morte della figlia e all’incredulità della gente che gli diceva: “Perché disturbi ancora il Maestro?”. Gesù irrompe come un presuntuoso che sfida l’opinione pubblica: “la bambina non è morta, ma dorme”, suscitandone la derisione. Caccia fuori tutti, eccetto “il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui”.
Non è lì per fare spettacolo, per esigere, attraverso un gesto straordinario, la fiducia nei suoi confronti; associa a sé chi ha già fiducia e la vuole confermare e sostenere. Ebbene, “Prese la mano della bambina e disse: fanciulla io ti dico alzati”. Secondo la legge, toccando il cadavere, lui stesso diventa impuro.
Nel caso precedente, se per la donna ammalata la salvezza si è realizzata nel toccare Gesù, per la figlia di Giàiro nasce, invece, dall’essere toccata da Lui. “la fanciulla si alzò e camminava”: sono parole per indicare una vita risorta e incamminata su una via che non conosceva. È il sentiero della vita, la vita con lo sposo – “aveva infatti dodici anni” – l’età del fidanzamento, l’incontro con lo sposo che le ridà la vita.
“Essi furono presi da grande stupore”, come per dire che è realmente pazzesco, impossibile ciò che Dio opera. “E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare”: le resta un lungo cammino da fare, con un alimento nuovo, il pane eucaristico, che è Gesù stesso.
La fiducia nella parola e nella persona del Signore vince la morte, non solo quella fisica ma quella insita nella disumanizzazione, nel vuoto interiore e nel non senso di vita, nella malvagità e nella cattiveria, nel disprezzo sociale e razziale – la seconda morte (Ap 21,8) -, pur se si è in piena salute fisica. A chi si abbandona alla seconda morte Gesù dirà: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti” (Lc 9,60).