Padre Tonino Falaguasta Nyabenda
Stiamo leggendo il Vangelo di Marco. Ne facciamo una lettura continua, perché, sotto l’egida del secondo Evangelista, dobbiamo scoprire chi è Gesù. Siamo sempre “catecumeni” (per i quali scrive in maniera inimitabile san Marco). Nel suo Vangelo san Marco opera due “scoperte” e lo desumiamo fin da subito dal titolo del suo scritto: “Inizio del Vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio” (Marco 1, 1). Gesù è Cristo (= Messia) e Gesù è Figlio di Dio. Per fare questa scoperta dobbiamo camminare, dal capitolo uno al capitolo otto. E cioè dalla predicazione di Giovanni il Battista fino alla confessione di Pietro (Marco 8, 29). In questa prima parte siamo catechizzati sul fatto che Gesù è il Cristo. Ma poi il cammino continua: dalla trasfigurazione fino alla confessione del Centurione (Marco 9 – Marco 15, 39). E scopriamo allora che Gesù è Figlio di Dio, dalla bocca di un pagano, un soldato romano. Abbiamo così due parti uguali del nostro Vangelo con un’aggiunta: Marco 16, 9-20, che non è della penna del nostro evangelista, ma è stata redatta dalla comunità cristiana, perché si avesse un’idea chiara della Pasqua del Signore Gesù, rispetto agli altri tre Vangeli.
Leggendo il Vangelo di Marco, siamo invitati a scoprire chi è Gesù e a non separare il Cristo-Uomo (Galati 4, 4-7), dal Figlio di Dio. Ed è questa una tentazione sempre attuale. Anzi a volte si vorrebbe mettere fra parentesi la divinità di Gesù oppure la sua umanità. Invece la singolarità di Gesù sta nel fatto che Egli manifesta tutto lo splendore della sua divinità nella pienezza della sua umanità.
Per Maometto parlare di Gesù come Figlio di Dio è una bestemmia (Corano 9, 30 e passi paralleli). Dio è unico e non ha figli (Corano 5, 116). Ma allora come fare per incontrare Dio? Non c’è che una strada, quella di attraversare tutto il cammino dell’uomo Gesù, che arrivò perfino a svuotarsi, come dice san Paolo: “Egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini” (Filippesi 2, 6-7). Ci sono tante religioni nel Mondo. Si vorrebbe vivere, nella vita pratica, un “panreligionismo“, negando le differenze fra le religioni e accontentandosi di una “religione all’acqua di rose”. Solo Il Cristianesimo e l’Ebraismo (da cui il primo è nato) fanno la differenza. La prima assume il tentativo di raggiungere la Divinità attraverso sforzi e tecniche ascetiche umane (= come New Age, Buddismo, Yoga, Sufismo e simili). Solo il Cristianesimo contempla la meraviglia di un Dio che cerca l’uomo. Non è l’uomo che diventa Dio, ma è Dio che diventa uomo (Giovanni 1, 14), perché finalmente l’uomo possa incontrare Dio, conoscerlo e amarlo.
E’ stata la lotta di tutta la vita per san Massimo il Confessore (590-662). Ne ha parlato Papa Benedetto XVI in un’udienza generale del 25 giugno 2008. San Massimo ha insegnato che Gesù è il “sì a Dio“. Adamo ha pensato che il suo “no a Dio” fosse l’apice della libertà. Per Gesù invece, anche se la sua natura umana poteva desiderare il “no”, ha capito che con il suo “sì” a Dio, nella unificazione della sua volontà a quella di Dio, poteva entrare nel mistero della realtà divina. Nel Getsemani Gesù ha esclamato: “Non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Luca 22, 42). E l’uomo, completamente salvato e liberato dal desiderio adamitico di “essere come Dio” (Genesi 3, 5), diventa finalmente una creatura nuova cioè redenta. Domenica scorsa il Vangelo di Marco (Marco 4, 35-41) ci ha mostrato che Gesù è veramente YHWH (= il nome di Dio nell’Antico Testamento), cioè di natura divina, perché dominatore del mare e dei venti. Ma con Lui nella barca (= Chiesa o comunità cristiana) non possiamo temere nulla. Dobbiamo piuttosto accettare di andare “dall’altra sponda“, nelle terre “pagane” del Mondo di oggi, per annunciare il Vangelo e portare l’amore di Dio a tutta l’umanità.
Oggi il Vangelo (Marco 5, 21-43) ci parla di due donne protagoniste nei due racconti incatenati l’uno dentro l’altro. Ma sono uniti da due parole: figlia e la cifra dodici. Sono due donne: l’una agli inizi del fiorire della vita e la seconda alle prese con una malattia che la esclude dalla comunità, rendendola impura. Si parla di donne. Per la cultura biblica, e quindi anche al tempo di Gesù, la condizione della donna era quella della minorenne. Ancora oggi l’ebreo praticante prega così: “Benedetto sii tu, Dio nostro, per non avermi fatto né pagano, né donna, né ignorante”. Ma con Gesù la dignità della donna viene promossa apertamente. Le due donne, la figlia di Giairo, morente, e l’emorroissa, sono due donne impure secondo la legge. La cifra 12 indica Israele, che è malato senza speranza. La ragazza morente indica pure il mondo pagano, perché nella tradizione giudaica i pagani sono esclusi dalla salvezza. Ma con Gesù le cose cambiano. I 72 discepoli sono inviati a tutti i popoli del Mondo (Luca 10, 1-9). L’ora della salvezza è ormai suonata per tutti, come diceva già il profeta Isaia (Isaia 42, 1-17). E la ragazza torna alla vita, come si addice a quella età, e cioè è pronta per il matrimonio. Fuori di metafora, con la Pasqua di Gesù, che è lo sposo, Israele può indossare la veste nuziale della sposa e camminare verso un futuro di speranza, nel Regno di Dio. L’emorroissa è una donna senza nome, perché riflette tutti coloro che sono nella stessa situazione. Avendo flusso di sangue è impura, come una lebbrosa. E’ esclusa dalla comunità. Ma ha sentito parlare di Gesù che ha guarito un lebbroso (Marco 1, 40-45) e che lo ha toccato, dicendo: “Lo voglio, sii purificato!”. Toccandolo, Gesù è diventato impuro, secondo la Legge di Mosè. Ma per Lui al di sopra delle leggi c’è la salvezza dell’uomo. Allora la donna malata da 12 anni, furtivamente si avvicina a Gesù e tocca il suo mantello. Per gli Ebrei, il mantello indica la persona. Ma l’emorroissa compie questo gesto come di nascosto. Sa di compiere un’azione contro la legge e di rendere anche Gesù impuro. Un delitto punito severamente. Ma in quello stesso momento si sente guarita e Gesù si accorge che una forza è uscita da Lui. “Chi ha toccato le mie vesti?” esclama il Cristo (Marco 5, 30). Gli apostoli non capiscono nulla di quello che è successo. La donna si manifesta allora tutta tremante, perché il sacrilegio (= lei impura ha toccato un servo di Dio) era punito dalla Legge mosaica. Sente invece, alla sua confessione, parole di conforto: “Figlia, la tua fede ti ha salvata! Va’ in pace” (Marco 5, 34). Non è mandata nel Tempio di Gerusalemme per offrire un sacrificio per la sua guarigione, se ne va “in pace”. Ma il testo greco non dice “pace”, parla piuttosto di ritorno nella sua casa e cioè nella sua comunità per poter vivere nella gioia dell’amore di Dio.
San Daniele Comboni (1831-1881) ha incontrato, nel suo Vicariato dell’Africa Centrale, tante donne che vivevano in situazioni terribili di sfruttamento, di schiavitù, di malattie e di violenza. Per tutte, presentava Gesù come il Salvatore, come Colui che dà speranza e che porta l’amore misericordioso di Dio senza differenze e distinzioni. In una lettera inviata al Cardinal Alessandro Franchi, prefetto di Propaganda Fide, il 19 gennaio 1878, così scrive a proposito del celebre esploratore Henry Morton Stamley, parole che evidentemente il Comboni fa sue: “Da parecchi anni i Musulmani sono giunti in Uganda e indussero il re dei Baganda a celebrare il venerdì dei Musulmani. Arrivato in quei luoghi H. Stanley e entrato nella corte del re, cominciò a lodare la Religione cristiana. Tra l’altro il Cristo – disse Stanley – fu colui che sollevò la dignità della donna, e la liberò dall’ignominia in cui era tenuta dai barbari e anche dai Musulmani. Il re ne rimase molto ammirato e lasciò liberi i Missionari Cristiani di agire fra il suo popolo”. E in altre occasioni san Daniele Comboni affermò che senza l’apostolato delle donne, la sua Missione sarebbe crollata immediatamente. “La donna cattolica può tutto” così disse al Conte d’Ercules, fondatore della Pia Opera della Propagazione della Fede, a Parigi, nel gennaio del 1865. E nell’Africa Centrale, Monsignor Comboni fu il primo a introdurre donne consacrate al servizio della Missione. Così scriveva a Madre Maria Annunziata Coseghi, da Khartum, il 24 luglio 1878: “Perché il più piccolo e insignificante degli Istituti, qual è il mio, ha potuto consolidare l’Apostolato nell’Africa Centrale? Perché ho consacrato solennemente il Vicariato al Sacro Cuor di Gesù, al Cuore Immacolato di Maria e a san Giuseppe…, e perché nell’Apostolato dell’Africa Centrale ho fatto concorrere l’onnipotente ministero della donna del Vangelo e della Suora di carità, che è lo scudo, la forza e la garanzia del ministero del Missionario!”.
Tonino Falaguasta Nyabenda