Con la Domenica dodicesima del Tempo Ordinario inizia un tempo di decantazione del mistero pasquale. La domenica resta pur sempre “la pasqua della settimana“. Ma in questo periodo siamo invitati a meditare con calma la Parola di Dio, con il sistema triennale (cioé in tre anni: A, B e C). Finalmente il Signore ci chiama a “tornare in Galilea“. Soprattutto nel Vangelo di Marco, come esclama nel giorno di Pasqua l’Angelo alle donne: “Il Crocifisso è risorto, non è qui…dite ai suoi discepoli e a Pietro: Vi precede nella Galilea!” (Marco 16, 6-7). La Galilea è dove inizia la predicazione di Gesù ed è il luogo della vocazione degli Apostoli. E’ lì che essi vivevano, avevano le loro famiglie, il loro lavoro. La Galilea significa appunto: “la vita ordinaria“.
La fede non è un’ideologia da comunicare, né un’illuminazione che si può ottenere con tecniche spirituali (come nella spiritualità buddista). E’ la rivelazione storica di Dio. E questo per ciascuno di noi. Ed è lo scopo del Vangelo di Marco. Noi non siamo come Ulisse, dominato dalla nostalgia del passato e del ritorno nella sua patria natìa. Noi siamo come Abramo, sempre in cammino, sempre alla ricerca di un’esperienza con Dio più profonda e vitale. Dobbiamo certo ricordare quello che Dio ha fatto, in particolar modo nella Pasqua del Signore Gesù. Ma devo scoprire, e approfondire la mia relazione con Lui. Per questo devo “tornare in Galilea”. Se ascolto Gesù, come dice il Vangelo di Marco, e lo accolgo come Figlio di Dio, che proclama la venuta del Regno di Dio. Se credo, mi metto a seguirlo. Ogni incontro con Lui diventa “salvifico” e scopro che quanto è narrato dall’evangelista Marco si realizza. Per la potenza dello Spirito Santo, divento un po’ alla volta trasfigurato. Ero tenebra, egoismo, inquietudine, cattiveria, schiavitù… Piano piano, grazie all’incontro con Gesù, divento luce, amore, gioia, pace, benevolenza, libertà, come afferma anche l’Apostolo Paolo (Galati 5, 22). L’incontro con Gesù mi fa vivere una vita da figlio nel Figlio, che è lui, una vita da risorto nel Risorto.
Le letture di questa Domenica ci parlano dell’acqua. Discutendo con Giobbe, Dio dichiara di essere il padrone delle acque. Nel Vangelo di oggi (Marco 4, 35-41), Gesù si manifesta come Dio, il Creatore e il Salvatore. E’ come Dio che con la sua parola ha tratto la vita dalle acque primordiali, con il suo soffio ha aperto il Mar Rosso.
Sulla poppa della barca il Signore dorme, appoggiando la testa su un cuscino. Ma si risveglia e sgrida il vento e dice al mare: “Taci e chiudi la bocca!” (Marco 4, 39). Così ci libera dal nemico, dal Leviathan, mostro marino, nelle cui mani ci ha cacciato la paura della morte.
Leggendo la Bibbia, scopriamo che l’acqua è, prima di tutto, sorgente e potenza di vita. Ma le acque del mare, per esempio, evocano l’inquietudine demoniaca, con le loro onde in continuo movimento, e la desolazione degli Inferi, con la loro amarezza e salinità. Il mare è appunto la sede del Leviathan o mostro marino (Giobbe 40, 25-32). Ma Dio lo domina e a volte ne fa strumento delle sue punizioni, come il diluvio o i flutti del Mar Rosso. Certo i malvagi sono puniti, però i giusti sono salvati, come Noé dal diluvio (Sapienza 10, 4) o Israele nel cammino dell’Esodo (Sapienza 10, 18-19).
Nel Vangelo di oggi (Marco 4, 35-41) si continua il discorso sulla salvezza, dopo il racconto sul Regno di Dio che è simile a un seme di senape. Questo seme è piccolo, ma dà origine a un grande arbusto. All’ombra dei suoi rami vengono a rifugiarsi gli uccelli. E cioè nel Regno di Dio tutti sono chiamati a entrare, non solo gli Israeliti (gli uccelli indicano i pagani). “Passiamo di là” ha detto Gesù, cioè sull’altra sponda del lago di Genezaret, in regioni abitate da pagani. I discepoli, che si aspetterebbero un Regno di Dio come dominazione del Mondo da parte di Israele, non ne sono contenti. E la tempesta è il segno del loro disaccordo. Ma Gesù è il Salvatore dell’umanità. Per questo Egli continua a dire anche a noi: “Passiamo di là”, andiamo sull’altra riva, più lontano, come Abramo, nella ricerca del volto di Dio e nell’annuncio della novità del Vangelo anche ai pagani. I discepoli evidentemente non erano d’accordo e sarà difficile per Gesù convincerli che il Padre vuole la salvezza di tutti gli abitanti del Mondo (1Timoteo 2, 3-4) e non solo di un piccolo resto, come nel caso del Diluvio (Genesi 8, 1-21) o del passaggio del Mar Rosso (Esodo 14, 15-31).
La tempesta scatenatasi sul lago di Genezaret riguardava solo i discepoli. Gesù dormiva, con la testa appoggiata su un cuscino, a poppa della barca. Certo è difficile dormire durante una burrasca e dentro una barca di pescatori. La barca in questione non era certo una nave da crociera. Non c’era evidentemente molto posto, come in tutte le barche della Galilea. E non poteva essere un luogo tranquillo. Come faceva Gesù a dormire? Per di più come poteva esserci un cuscino, dove al massimo c’erano reti per la pesca e ceste per raccogliere il pesce. Nel testo greco si parla di cuscino “cervicale“, usato per sollevare il capo dei defunti. E’ un chiaro accenno alla morte di Gesù e alla sua Risurrezione.
Nelle tempeste della vita il Signore sembra dormire. Ma non scompare, resta sempre con noi, pronto a intervenire ad ogni nostra richiesta. Svegliatosi, sgridò il vento e disse al mare: “Taci, chiudi la bocca!” (Marco 4, 39). In questo modo i discepoli sono invitati a capire che Gesù è di condizione divina. I salmi 107 (vv.23-30) e 89 (vv. 10-15) lo dicono esplicitamente, parlando di Dio che solo Lui può dominare la burrasca. Ma gli Apostoli, mancando di fede e pieni di paura, non capiscono questo messaggio. Non hanno fede, neppure quanto un granello di senape, sennò sarebbero capaci di portare l’amore di Dio all’umanità intera.
Nel libro degli Atti degli Apostoli si racconta di Pietro che ha una visione. Gli viene mostrato un grande lenzuolo nel quale vi erano ogni sorta di quadrupedi, pesci e uccelli. Una voce dice a Pietro: “Prendi e mangia”. “Non sia mai, Signore – risponde Pietro, – non ho mai mangiato nulla di profano o di impuro”. E la voce: “Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo profano!” (Atti 10, 9-16). Finalmente il capo degli Apostoli capisce che Dio è il Dio di tutti e dice allora: “In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga” (Atti 10, 34-35).
Gesù vuole con la sua parola e la sua azione portare la salvezza di Dio all’umanità intera. I Discepoli, dinanzi alla tempesta sedata, si chiedono: “Chi è costui?”. Capiscono allora che Gesù non è solo un Rabbi itinerante, ma che in Lui c’è qualcosa di speciale che scopriranno un po’ alla volta, e noi con loro, come racconta saggiamente l’evangelista Marco nel suo Vangelo.
San Daniele Comboni (1831-1881) ha fatto ogni sforzo per far capire alle Chiese di antica tradizione che anche gli Africani erano stati immersi nel sangue salvifico del Cristo. Scrivendo a suo padre, dalla Missione di Santa Croce (Sudan), il 5 marzo 1858, così diceva: “Noi venimmo qua con il bacio della pace, allo scopo di portar agli Africani il più gran bene che ci sia, il Vangelo…Dovremo faticare, sudare, morire; ma il pensiero che si suda e si muore per amore di Gesù e per la salute delle anime le più abbandonate del Mondo, è troppo dolce per spaventarci”.
P. Tonino Falaguasta Nyabenda