Il viaggio è bello, perché il panorama di colline colorate è splendido. Spunta, ancora lontana, la nostra meta: il monastero dei Benedettini di Uruapan, Messico. Una costruzione moderna, tutta in  bianco, stile coloniale che dà bellezza e mistica a tutta la collina. All’entrata una scritta: Dio parla col silenzio. io avrei messo: Dio parla nel silenzio. Comunque va bene lo stesso. E tutto è silenzio. Uno si sente colpevole anche per lo scricchiolio delle scarpe. Tante rondini: normale, è la casa di San Benedetto. Anche gli uccelli sembrano cantare soavemente e con devozione.

“Questa è la sua stanza – dice il frate portinaio con voce mistica e angelica allo stesso tempo – Alle 18:30 celebriamo i vespri..” È gentile il frate portinaio. “Durante il ritiro spirituale, continua fra portinaio, io sono a sua disposizione per qualsiasi cosa”. Tra breve inizierò la predicazione degli esercizi spirituali e mi isolo un momento nella cappella per concentrarmi. Una cappella semplice, sobria, che invita alla preghiera. Al centro un piccolo crocifisso molto bello, realista, di quelli che piacciono a me. Finalmente un Cristo che non ha la faccia da frate morto di fame.  Anche la statua di San Bernardo da Chiaravalle, nel giardino, è bella: un  bassorilievo del santo col viso normale e sorridente. In mano una scritta: “Dio prima di tutto e di tutti”. Giusto, caro San Bernardo!

 

IL PICCOLO CIMITERO

Tutto il monastero parla di vangelo e di mistica. Ma anche il piccolo cimitero dei monaci aiuta a meditare. La storia dei monasteri e dei monaci si studia anche nei loro cimiteri. Il piccolo cimitero dei frati è dietro la Chiesa grande, quella aperta al pubblico. Ci sono poche tombe, perché il monastero è recente. Tombe sobrie con una croce, un nome e una data. È tutto ed è molto. Hanno vissuto nascosti, nel silenzio, e nel silenzio riposano, vicino ai confratelli che continuano a cantare salmi in comunione con loro. Uno dei frati è morto giovane. Era il primo superiore del monastero. Morì improvvisamente a 56 anni. La tomba del più anziano  è di Fra Lazzaro, spagnolo di  novanta quattro anni. Penso: é venuto da lontano e riposa lontano dai suoi fratelli, sorelle, nipoti e pronipoti. Forse negli anni ha desiderato  rivedere i suoi e conoscere i nipoti. Magari i suoi fratelli  e sorelle, ormai nonni, più volte hanno parlato ai nipoti di lui, del fratello benedettino. Magari una foto, in casa di tutti, per anni è rimasta come unico segno dello zio religioso e missionario. Magari anche i pronipoti avranno desiderato conoscere il prozio. O forse no! A chi interessa un anziano monaco missionario che è vissuto sempre lontano? Eppure lo zio, fra Lazzaro, ha lavorato molto e ha seminato tanto bene nel cuore di molti. Fra Lazzaro ha studiato tanta teologia e, come primo fondatore di quel monastero, ha rotolato sassi con i campesinos, ha pulito la terra, ha scavato il pozzo, ha insegnato a come rendere fertile una terra pietrosa. Ha poi parlato di Dio, ha evangelizzato, ha assistito tanti ammalati, tanti poveri. I nipoti e pronipoti sarebbero orgogliosi del loro zio. Ma non lo sanno. Fra Lazzaro è andato nella terra che Dio gli ha mostrato. Ha creduto nella logica del chicco di grano che muore. Forse è scomparso il suo quadro e la sua foto dai muri della case dei parenti. Che importa? Anche se gli uomini dimenticano, la storia di Fra Lazzaro è scritta nel cuore di Dio e nel cuore di questi poveri contadini, che con lui hanno lavorato e sudato; con lui hanno scherzato e con lui hanno cantato con qualche bicchierino di tequila. E i contadini e i loro figli e nipoti portano a Fra Lazzaro fiori freschi e belli, ogni settimana. Perché Fra Lazzaro è il loro Padre e nonno. E molti di questi contadini, ne sono sicuro, hanno una foto del loro Fra Lazzaro in un angolo privilegiato della loro casa.

 

PAZZI, MA FELICI

Mi fisso ancora sulla tomba di Fra Lazzaro e penso a tutti i monaci di questo monastero. Una decina di loro sono molto giovani, sui quarant’anni. Si sono rinchiusi qui in questa collina di pietre. Mi dice il priore che quasi tutti sono professionisti. Vari hanno lauree. Agli occhi di chi non capisce la logica pazza del vangelo questi sono matti. Laurearsi per raparsi a zero la testa, cantare gregoriano dalle quattro di mattina, andare a coltivare campi o pulire stalle. Scomparire in silenzio. Che rimarrà di loro? Una tomba come per fra Lazzaro e una foto di sconosciuto nelle loro case. Pazzia! Che fa un giovane rinchiuso qui dentro? Ciò che fa il sale in una pentola d’acqua: scompare per dare sapore. Ciò che fa un chicco di grano sotto terra: scompare e muore per dare vita al altri chicchi di grano. Pazzia per il mondo e saggezza per il Vangelo. Molti anni fa un frate camaldolese,  rispondendo alla stessa domanda di  noi studenti,  disse: “non c’è risposta che possa saziare  la vostra giovane mente. Io so solo che prima non ero contento e ora sono felice; prima ero vuoto e ora mi sento pieno di vita”.

Vedo questi giovani frati sereni con gli occhi pieni di vita. Persi in questa oasi che loro stessi hanno creato in questo deserto di pietre. Giovani felici! Nel corridoio delle loro celle  si legge: “ Che allegria quando mi dissero: andiamo alla casa del Signore”. È il salmo 121. Dalla parte opposta, a sinistra, un’altra scritta: “una comunità triste non ha capito Dio”! Suona la campanella: fine del lavoro nei campi. I monaci  ritornano nelle loro celle. Alcuni studiano o leggono per qualche ora. Domani mattina si alzeranno alle tre e mezza per cantare il mattutino alle quattro. Pazzia! Poi si  toglieranno la tonaca bianca e lo scapolario nero e andranno ai campi o alle stalle. Pazzia! In mezzo al cortile c’è una croce enorme. Pazzia anche quella!

 

IN MISSIONE PER SEMPRE

Mentre mi allontano dal piccolo cimitero del monastero, penso ai miei confratelli sepolti in missione. Il primo vescovo del Sudan, Daniele Comboni, scrisse: “Mi vergognerei di non poter morire in terra africana, perché il soldato deve morire in campo di battaglia, lottando, lavorando e sudando in umiltà e silenzio”. Daniele Comboni morì in missione, nella sua terra e circondato dalla sua gente, all’età di 50 anni.  Morire in missione è il desiderio di ogni missionario. Morire ed essere seme là, dove ha lavorato perché gli uomini siano più uomini e i cristiani siano migliori cristiani. Il missionario sa che la sua consacrazione è totale. Consacrarsi ai più poveri e agli ultimi suppone una donazione senza limiti, morte inclusa. “Il missionario, raccomanda Comboni ai suoi candidati, dev’essere perpetua vittima di sacrificio destinata a lavorare, sudare e morire senza forse vedere alcun  frutto delle sue fatiche… Il missionario si forma a questa disposizione: tenere sempre fissi gli occhi in Gesù Cristo, amandolo teneramente e cercando di capire sempre meglio cosa vuol dire un Dio morto in croce, e rinnovando spesso l’offerta di se stessi a Dio”.

 

Teresino Serra